Rivendicazioni mainstream: I peccatori

Rivendicazioni mainstream: I peccatori

Un film dopo l’altro, Ryan Coogler sta diventando colui che realizza lavori politici destinati al grande pubblico. Lo ha fatto per i due Black Panther, lo ha fatto per Creed, continuazione nera della saga di Rocky, dopo averlo fatto fin dal suo esordio, quando ancora era un pivello indipendente, in Fruitvale Station, che denunciava la (vera) violenza della polizia ai danni di un povero malcapitato in una stazione metropolitana; forse, fino a ieri sera, il suo film più riuscito. Perché dunque non farlo adesso che è un nome che conta a Hollywood? Infatti lo fa anche nel suo ultimo, il sorprendente I peccatori, da giovedì 17 nelle sale italiane.

Soprendente perché, se uno si limitasse ai trailer o ai servizi telegiornalistici di lancio, penserebbe a una serie di cliché nigger messi tutti in fila, uno dietro l’altro: la chiesetta episcopale in mezzo al nulla del profondo Sud, il blues come musica del demonio, il macho muscoloso con canottiera sporca e attillata, la ripulita dandy che si danno i neri che ce l’hanno fatta nel sottobosco del crimine ecc. Sì, tutto questo poi alla fine c’è pure, ma non solo. Quello che conta è come il cliché viene articolato all’interno della narrazione che non ti aspetti, perché fuori da qualunque equilibrio delle regole spiegate nelle scuole di sceneggiatura.

Per di più non amo particolarmente il blues, quello puro, delle origini, che ne I peccatori è centrale. È l’anima stessa della metafora articolata dal film. Non ci posso fare niente, mi annoia, nonostante poi ascolti tutto ciò che da esso si è originato, come lo stesso Coogler mostra in una sequenza centrale, lisergica, probabilmente didascalica e anche pacchiana (d’altronde è un film mainstream, dicevamo), ma che con il movimento sinuoso delle immagini in continuità, pronte ad abbattere le barriere del tempo, non può che risultare ipnotica e comunque sorprendente. Quindi, tutto quello che volete, ma I peccatori è uno dei tre, forse quattro film più belli che abbia visto in questo 2025 so far. Sottile nel suo essere grossolano, acuto pur essendo rivolto a tutti, profondamente simmetrico nonostante il suo evidente squilibrio, emozionante malgrado rientri nelle convenzioni del genere horror.

Storia semplicissima. Nel 1932, due gemelli, Elijah ed Elias Moore, meglio conosciuti Smoke and Stack, tornano a Clarksdale, il posto del Mississippi di cui sono originari, dopo aver lavorato con Al Capone a Chicago, che è al Nord, ma non è il luogo d’elezione delle libertà civili come creduto, perché «non è altro che il Mississippi con i suoi alti palazzi al posto delle piantagioni». I gemelli, interpretati da Michael B. Jordan, differenziati dalle sfumature dei costumi e dagli atteggiamenti quel tanto che basti (ma è voluto che tanto differenti non siano), vogliono aprire entro sera un juke joint con ciò che hanno guadagnato facendo i gangsters e per far questo reclutano il cugino promessa del blues (e per questo stigmatizzato dal padre predicatore), un’altra leggenda blues attempata (Delroy Lindo) che va dovunque ci sia alcool, due droghieri cinesi e la moglie di Smoke sacerdotessa hoodoo (il voodoo dei neri delle piantagioni), lasciata tempo prima.

Una prima metà realistica e divertente, filologicamente accurata, che cuoce a fuoco lento, come un pentolone di gumbo. Lo scenario assolato, sudato e malaticcio del Deep South, ripreso da Coogler (e da Autumn Arkapaw) in un grandioso 65 mm con videocamere IMAX, si attacca ai corpi e alle strade polverose per sublimare in alcune pennellate discrete, tratteggiate in anticipo per fungere da esca per quel che sarà (e che comunque è inevitabile: chi, dotato di senno, e non dico di cultura storica, nel Mississippi del 1932, in mezzo al bianco screziato delle piantagioni, con l’odore di merda stantia dei Ku Klux Klan che fuoriesce dallo schermo manco fosse un film in Odorama, potrebbe pensare che il tema della segregazione sia secondario?). Cartelli che indicano bagni separati, donne bianche «da non guardare» (ricordate quello che successe a Emmett Till? No? Guardatevi Till: Il coraggio di una madre), il blues che «i bianchi amano, anche se non amano chi lo suona», come ricorda Delroy Lindo.

L’affresco 30s è molto apprezzabile, ma la svolta è quando Coogler, che il film l’ha anche scritto, decide che è arrivato il momento di trasformare la variante leggendaria di Robert Johnson (la sapete, no? Il mitologico bluesman incontrò il diavolo a un incrocio che lo investì della sua grazia musicale dietro permuta dell’anima. Non tocca a tutti, non vi illudete, e gli incroci di città non valgono: vi ficcano solo sotto) in un’allegoria horror di quell’orrore storico che è stata la segregazione negli Stati Uniti (ancora Storia nel cinema dopo l’ultimo post? Inevitabile, a meno di non fare del cinema astratto).

Metafora ovvia, se uno la racconta: i vampiri (bianchi) che succhiano il sangue dei neri promettendo loro l’immortalità e accogliendoli in una comunità che sa tanto di setta. Ma è tutto meno che ovvio nel modo in cui è raccontato. Il juke joint dei gemelli Moore si trasforma nel Titty Twister dei fratelli Gecko e da quel momento in avanti la lotta è per la sopravvivenza. Un sublime parallelismo: la lotta per gli afroamericani non è stata sempre per la sopravvivenza? I vampiri bianchi guidati dal demone Jack O’Connell sono un emblema, non le repliche di Il buio si avvicina o Ragazzi perduti: rappresentano il simbolo di una prevaricazione culturale, la loro aggressione è finalizzata all’integrazione nella comunità bianca che essi guidano.

Si diventa immortali se ci si assimila all’elemento bianco. E quello che mette in scena Coogler è un conflitto fra identità culturali, all’interno del quale, una, la bianca, tenta in tutti i modi di appropriarsi dell’altra. Ancora più dell’utilizzo delle convenzioni di genere, corrette, ritmate, interessanti soprattutto nella rottura della suspense, ma non dissimili da molte altre altrettanto riuscite, è soprattutto nelle scene di raccordo dell’azione che va ricercato il senso più profondo. Quanto fascino e inquietudine c’è nella contrapposizione tra il blues grezzo suonato nel Juke Joint dal giovane Sammie (Miles Caton, esordiente nel cinema e musicista dall’ancora esiguo seguito: poco più di 2000 followers su YouTube, ma qualcosa mi dice che la cifra s’innalzerà a breve) e la Rocky Road To Dublin cantata e danzata da Jack O’Donnell nello spiazzo antistante insieme a tutti i vampiri? Sembra un numero coreografato da musical, e invece è uno scontro violentissimo in cui una cultura (quella europea, incarnata dal folk irlandese, in questo caso) cerca di fagocitare le radici di quella nera per assimilarla e poi riproporla. Vampirizzandola, appunto. Non è quello che è successo davvero nell’industria musicale? (faccio ammenda: anche da parte dei miei amati Led Zeppelin, che senza i bluesman avrebbero scritto non più di 4 canzoni originali). Non vedevo una scena del genere dal 1960, quando Lillian Gish ne Gli inesorabili di John Huston suonò un pianoforte a coda davanti alla sua casa nella prateria per contrapporre la propria superiorità (musicale, culturale, razziale) ai flauti kiowa che risuonavano minacciosi nella vallata. Come dire: beccatevi Beethoven, selvaggi. Peggio solo Vecchioni alla manifestazione per l’Europa.

Il finale, poi, è sorprendente. Commovente. E anche inquietantemente ambiguo.

Il blues sopravvivive e arriva (quasi) ai giorni nostri, grazie a chi ha resistito ai tentativi bianchi di assimilazione, malgrado lo sfregio che campeggia in tutta evidenza sulla guancia sinistra (il lato del diavolo) di un anziano bluesman (e che Bluesman, guardate nei titoli di coda di chi si tratti) ne ricordi il lungo decorso di sofferenza. Quella che però sembrerebbe una vittoria dolorosa dell’identità afroamericana è però stemperata dall’arrivo di un altro sopravvissuto, che pensavamo perduto dopo essere stato assimilato. Ora s’impossessa di ogni epoca mutuandone moda e costumi e stando sempre al passo. Forever Young. Non ha una vera identità, ma c’è e ci sarà sempre. L’assimilazione è un compromesso ma garantisce davvero l’immortalità. E a quel punto il significato reale del film è ancora più amaro di quanto non appaia, quando il sopravvissuto assimilato ammette al vecchio bluesman che è vero, quella notte tra il 15 e il 16 ottobre del ’32 è stata una giornata indimenticabile, perché «per poche ore ci siamo sentiti davvero liberi».

Cazzo. Sarebbe da applausi, se non fosse solo un’amara e inconfutabile verità.

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Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

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