
A margine di un podcast di cui sono stato gradito (per me) ospite (si tratta di Schol’è della brava Cecilia Rizzo, che si occupa di scuola e insegnamento) e visto che al momento non c’è nessun film che mi faccia strabuzzare gli occhi e venire voglia di parlarne (ma guardate l’ultimo Cronenberg, The Shrouds, struggente riflessione giunta a fine di un intero ciclo esistenziale sul suo perenne tema dell’organicità violata), sfrutto la fresca occasione per fare due chiacchiere su quello di cui abbiamo parlato, ossia sull’importanza dell’audiovisivo nello studio scolastico della Storia, approfittando anche dell’uscita di un recente volume che tratta l’argomento.
Ancora un discorso che si ammanta di pseudo-serietà. Mi perdonerete, sto andando alla deriva.
Il cinema, nel migliore dei casi, è da sempre una forma di espressione che mescola narrazione e interpretazione della realtà. In alcuni casi, quando cerca di andare oltre i suoi limiti, aspira all’arte (ma la raggiunge raramente). Quando si parla di Storia, la relazione tra lo schermo e il passato diventa particolarmente intrigante ma molto complessa, soprattutto quando si osserva il XX secolo, che ha vissuto un decorso particolare, poiché è stato il primo secolo accompagnato “in diretta” dalle immagini che lo raccontavano.
Viviamo in una cultura stradominata dalle immagini, ve n’eravate accorti? Le generazioni odierne sono abituate a fruire di contenuti visivi su larga scala: dal web alla televisione (ma sempre meno), passando per i reel di Instagram, i video di tiktok, gli shorts di YouTube. La percezione della realtà, di tutti, non solo quella degli zoomers o della generazione alpha, che guarda caso si può chiamare anche Screenagers, è ormai inevitabilmente avvinghiata al concetto di visione, al punto che non consideriamo un qualunque evento come accaduto davvero finché non ne vediamo una sua rappresentazione visiva. Ragion per cui, ricostruire e tentare di immaginare la Storia in una cultura abituata a vedere per credere non basta più. Portandolo sul piano dell’insegnamento, gli studenti cresciuti in questa cultura visiva, se non “vedono” ciò che è accaduto nel passato, lo assumono come si assume la struttura di una subordinata nell’analisi del periodo. Sta lì perché è così e non merita una riflessione e una successiva elaborazione. Perché così è.

Il cinema deve quindi essere un ausilio imprescindibile per l’insegnamento della Storia. Grazie arcà, direte voi. Certo, mica m’illudo di averlo scoperto io oggi, era solo l’ovvio e necessario legante sintattico per ciò che segue. Guardare alla Storia attraverso il cinema non significa semplicemente prendere atto di un evento storico com’è rappresentato in un film, tanto per continuare la fiera dell’ovvio. Significa più che altro capire come la narrazione cinematografica abbia interpretato gli eventi che racconta, filtrando la realtà attraverso le sensibilità, le ideologie e le dinamiche sociali del periodo in cui il film è stato prodotto.
Il film, in questo modo, va preso in considerazione secondo una duplice prospettiva: come prodotto sull’argomento storico di cui tratta e come effetto del periodo storico e sociale in cui è stato realizzato. Perché, sia chiaro, ogni film non è mai una semplice documentazione degli eventi, ma una sua interpretazione, una rielaborazione del passato visto attraverso la lente del presente. Faccio un esempio. Sbarco in Normandia. Salvate il soldato Ryan. L’inizio, come ricorderete, è una mattanza splatter (guardate pure la foto qua sopra, per aiutarvi a rammentare): soldati che muoiono atrocemente, braccia amputate, colpi in piena fronte, schizzi di sangue contro l’obiettivo della macchina da presa. Gocce d’acqua salmastra, immagini disordinate e sporche. È lo sbarco a Omaha Beach visto alla fine degli anni ’90. Lo stesso evento, all’inizio degli anni ’60, era visto attraverso un’unica inarrestabile carrellata sulla spiaggia, per un’invasione lineare, liscia, senza ostacoli, frutto dell’ancora fresca epica della vittoria. È ciò che si vede in Il giorno più lungo, film che fu appositamente firmato da tre registi di varia nazionalità (un inglese, un austroungarico che lavorava in America, un tedesco osannato, non si sa perché, dalla Nouvelle Vague) per sancire la rinnovata pace tra il consesso di uomini di buona volontà (e durante la registrazione in diretta del podcast, il titolo, Il giorno più lungo, dopo averlo citato, nella frase dopo non mi sovveniva più – è la vecchiaia, bellezza!).
Ogni film, soprattutto se il margine temporale con l’argomento trattato è piuttosto ampio, è sempre una sintesi tra il passato che racconta e il presente che lo interpreta. E questa differenza è sempre filtrata dallo stile utilizzato, che assume un ruolo di precisa testimonianza delle spinte sociali che lo hanno prodotto. La lente con cui si deve analizzare un film di carattere storico è bifocale: una storica, disposta a registrare l’ambientazione e gli eventi, e una contemporanea al momento in cui il film è stato realizzato, il cui sguardo tra le righe permette di capire come quella stessa storia è stata riletta e riproposta dalla società che ha prodotto il film. E quest’ultima lettura, se è lontana dalla nostra attualità, è anch’essa storica.

Scegliere i film giusti non è affatto semplice. È utile porsi lungo tre criteri fondamentali, in modo da soddisfare le caratteristiche di riconoscibilità, di accuratezza e di facilità divulgativa. Quindi, film entrati nell’immaginario collettivo, che abbiano ampliato il dibattito critico e storico, e in possesso di una particolare chiarezza didattica. Dite Schindler’s List? Sì, esattamente così. Ma non sempre è così agevole. M – Il figlio del secolo, per fare un altro esempio, può offrire un’interpretazione della Storia problematica, perché deve tenere conto sia del filtro letterario (l’opera di ricostruzione, invero molto accurata, di Scurati), sia di quello autoriale di Joe Wright, che ha una scrittura enfatica, attenta alle sottolineature stilistiche, come la tendenza ad accentuare alcuni aspetti per favorire una visione simbolica e metanarrativa. Qua la difficoltà sta nel separare con spirito critico la verità storica dalla sua rielaborazione cinematografica, e la vera sfida è insegnare agli studenti a leggere gli eventi storici non limitandosi alla registrazione passiva dei fatti, ma esortando all’analisi delle cause, delle dinamiche sociali, delle ideologie che hanno riletto gli eventi raccontati e dell’impatto che hanno avuto al momento in cui il film è stato distribuito. Fondamentale in questo processo è la guida, fornire gli ampi ma inflessibili argini critici e storici all’interno dei quali sia stimolata una libera espressione, pur nel rigore dell’analisi, evitando che il film diventi solo il momento in cui le immagini e il racconto scorrano senza un commento, un riordinamento ermeneutico o una sistematizzazione logica e puntuale.
Si rischia l’esasperazione? Ovviamente sì. Bisogna evitare il dogmatismo e stimolare la curiosità, così come è altrettanto doveroso scendere a compromessi con i gusti attuali, ricordandosi che ciò che era capolavoro indiscutibile trenta, quarant’anni fa, potrebbe essere accolto come un prodotto tronfio, indigesto e quindi inservibile per lo scopo che ci si è prefissati. Perché il cinema è sì un linguaggio universale, capace di trattare qualsiasi tema, e quindi uno strumento valido per un’educazione che superi le singole discipline. Ma è anche vero che quello stesso linguaggio muta con una velocità completamente triplicata rispetto al passato e ora le regole sono dettate da una narrazione differente, istantanea, brevissima e fondata su immagini forti, su meme la cui viralità si supera nell’arco di pochi giorni, subito sostituita da un’immagine altrettanto forte, impattante e ugualmente volatile.
È la grande sfida delle immagini che raccontano la Storia ed è, allo stesso tempo, un ossimoro concettuale: tutelare la memoria critica del passato a uso di una generazione assuefatta all’immagine sfuggente e transitoria. Mission impossible nella sua globalità, probabilmente, ma quanto sarebbe delittuoso smettere di tentarci, abbandonando l’illusione di farcela davvero?
Di questo e di altre amenità si parlerà il 23 aprile alle 19 nel locale Off Topic, in via Pallavicino 35, tra Lungo Dora Voghera e Corso Tortona, in questa città a vocazione industriale estinta ecc. Il padrone di casa è Carlo Griseri, fiduciario del Sindacato Critici Cinematografici del Piemonte, ma nonostante questo persona simpatica. Non ho idea di cosa mi troverò di fronte, ma se c’è lui, si può stare tranquilli.
E infine un saluto. A Massimo Arciresi, membro di questo stesso gruppo del sindacato, che ci ha lasciato in punta di piedi, per non disturbare, come era solito fare fin da quando l’ho conosciuto. In un mondo così sguaiato com’è quello dei critici, il suo garbo mancherà molto. Che pare la solita frase preconfezionata, ma nel suo caso, chi lo conosce sa che non sarebbe possibile scrivere una cosa diversa.

Sempre illuminante e multifocale, sarà che sul tema occhiali sono preparata, e utilizzarne due, a seconda del momento, è un lavoraccio… sarà l’età bellezza (cit)
Senza contare quanto costano le lenti multifocali: io ci ho lasciato un rene.