Where is Richard Kelly?

Where is Richard Kelly?

Donnie Darko torna al cinema per tre giorni, il 3, 4, e 5 giugno, in versione restaurata in 4K. Donnie Darko? Sì, Donnie Darko, che per un breve periodo ebbe un seguito di culto. Non è passato molto tempo, vent’anni da quando è uscito in Italia, ma parlarne, e per di più in relazione a un restauro, fa davvero impressione, perché pare un film appartenente a un passato remoto. Benché avesse uno sviluppo piuttosto moderno, addirittura post-, con schiere di fans formatesi proprio in virtù delle modalità immaginifiche di narrazione quantistica (come se Nolan si fosse fatto un funghetto, diciamo) e per il corredo culturale pop che esibiva senza alcun ritegno. Nella rete ci cascai anch’io, gridando al miracolo e passando i successivi mesi a cercare di convincere le persone di aver visto un capolavoro e a parlarne un po’ in giro, dopo le proiezioni, facendo ben attenzione di non arrivare in sala prima della fine, perché quella fine, con mamma e fidanzata del figlio che accennavano a un saluto senza sapere il perché, mi faceva piangere tantissimo. E non potevo salire sul palco tirando su col naso, non sarebbe stato dignitoso.

Donnie Darko pare un film ancora più vecchio perché del regista, che pur era ritenuto una delle nuove promesse di Hollywood, non si sa più nulla. Richard Kelly è come se si fosse volatilizzato, sparito e nessuno ne ha più parlato, perso negli ingranaggi di una Hollywood che non gli ha perdonato i fiaschi di Southland Tales e di The Box, il suo ultimo lavoro, da cui ormai sono trascorsi ben 15 anni. Un’enormità. E a dire il vero il percorso artistico di Kelly era stato accidentato anche ai tempi di Donnie Darko. Storia piuttosto nota: il film partecipa al Sundance, non lo apprezza nessuno. Mentre tutti erano convinti che sarebbe stato distribuito direttamente in home video, lo prendono a cuore Drew Barrymore, che nel film interpretava l’insegnante di Donnie, e Christopher Nolan, che ne apprezza il percorso narrativo spazio-temporale, tanto simile alle sue ossessioni. Grazie a una distribuzione normale, il film esce a fine ottobre del 2001 ed è subito ritirato dalle sale perché forse non sembra proprio un’idea geniale mostrare il reattore di un boeing che distrugge l’ala di una casa un mesetto e mezzo dopo l’attentato alle Twin Towers. Incassa solo mezzo milione di dollari. Ma piace in Europa. Tantissimo. E quindi ottiene una seconda possibilità e grazie al passaparola diventa un successo. Poi, se mi perdonate la paronomasia, cosa successe? Troppa pressione? Troppa attesa? Successo arrivato troppo presto (Kelly aveva solo 26 anni)? È lecito chiedersi se gli eccessi che in Donnie Darko rappresentavano una splendida armonia divennero immediatamente banali e insopportabili in Southland Tales, obbligando Kelly a non osare in The Box, quando in realtà il dissidio etico alla base del film (arricchirsi a danno della morte di uno sconosciuto) avrebbe richiesto di tendere fino al punto di rottura il soggetto e la sua materia narrativa? Io francamente non lo so cosa sia successo e perché improvvisamente non abbia più funzionato niente. So che siamo in presenza di un grande desaparecido di cui non mi sarei più neanche ricordato se Donnie Darko non fosse stato riproposto in sala. Tenuto conto che quel S. Darko, comparso nel 2009 per raccontare in una sorta di sequel le vicende della sorellina di Donnie, è un pessimo apocrifo che di Kelly prende solo i personaggi per elaborarli in una delle stronzate più stupidamente ambiziose degli ultimi vent’anni, senza che lo stesso Kelly ne sia responsabile.

Non so che fine abbia fatto Kelly, però credo di sapere perché Donnie Darko funzionava maledettamente. Perlomeno vi posso dire quello che sproloquiavo quando lo andavo a presentare in giro per fare proseliti, come se sotto braccio avessi avuto «Svegliatevi!» o «La torre di Guardia». Lo faccio perché ancora adesso mi piacerebbe che andaste a rivedere questo film d’epoca, quando eravamo tutti più giovani e ancora ci eccitavamo per un film particolarmente apprezzato. Non che adesso non succeda, malgrado il cinismo, ma chi c’ha voglia di convincere gli altri? Non ti piace? ‘azzo me ne frega.

Dunque, Donnie, dicevamo.

Il film segna una data d’inizio, il 2 ottobre 1988. Sugli schermi televisivi si trasmette la sfida tra Bush padre e il “duca” Dukakis per la presidenza degli Stati Uniti: un’era, quella reaganiana, è appena terminata e ci si sta avviando a una fase di transizione colma di incognite. Ecco, la transizione. È questo il vero significato del film, lo spazio tra due ambiti, il vuoto esistente tra due possibilità, la vita e la morte, l’amore e la paura, l’esserci o il far essere, l’osservare o il donarsi. Donnie Darko è un adolescente con le sue paure, il suo desiderio d’amore, i dubbi, le incomprensioni, i vuoti di consapevolezza, i tentativi di ribellione, gli incubi e un irrisolto conflitto generazionale e per questo divenne subito un idolo per i teenagers dell’epoca. Perché i problemi li aveva tutti, come ogni altro Millennials. Era interpretato da uno Jake Gyllenhaal che da qui iniziò a diventare famoso e che alternava momenti di splendida consapevolezza ad altri di stolida catatonia, con una palpebra sempre troppo pesante per non far credere che il suo pensiero nascondesse qualcos’altro. E quel qualcos’altro inquietava. Grazie anche a questa caratterizzazione, il personaggio di Donnie incarnava nel film l’allegoria della transizione stessa. Una transizione che aveva però una data di fine, se è vero ciò che diceva un enorme coniglio dalla dentatura aguzza e dall’occhio vuoto e maligno, cioé che la fine del mondo sarebbe avvenuta dopo quasi un mese, precisamente in 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi (28 giorni che paiono più vicini adesso, tra Ucraina e Striscia di Gaza).

Richard Kelly miscelò ipertroficamente le sue suggestioni personali, un immaginario cinematografico (all’epoca) largamente condiviso, ascendenze letterarie di cui la fantascienza era solo l’aspetto più appariscente, cultura manifestamente pop, simbolismo (fin troppo) diffuso (e per qualcuno anche esageratamente criptico) e reiterati easter eggs interni al testo che si sarebbero chiariti soltanto a una riflessione retrospettiva o ad una seconda visione. Considerazione che giustificherebbe il fatto di andare al cinema per vederlo adesso, a distanza di vent’anni: più retrospettivo di così… La domanda che i più si posero era: ma che cazzo è davvero questo film? Di cosa parla? Cosa minchia significa l’ultima sequenza? Guardandolo nell’ottica più immediata, Donnie Darko era un racconto di formazione anomalo che condividendo la prospettiva confusa e sofferta di un ragazzo problematico rischiava di sfociare nell’incubo (il coniglio, tra l’altro, riprendeva lo stesso pacioso animale che dialogava con James Stewart in Harvey di Henry Koster per renderlo uno spaventoso profeta di sventura apocalittica). L’eventualità dell’incubo virava invece inaspettatamente nel mélo, con un twist indimenticabile da parte del protagonista, degno dei più grandi sacrifici della storia del genere (Figlia del vento, È nata una stella. Sto esagerando? Ma no, Donnie ne è soltanto il distillato pop).

In tutto questo potpourri di tendenze e influenze diventava consequenziale che il film mostrasse un pazzo andirivieni tra caratteristiche differenti che ne rendevano impossibile qualunque tentativo di classificazione, perfettamente in linea con la propensione a una certa deriva dei generi che nell’ultima parte del Novecento si era impossessata di (quasi) ogni tipo di narrazione (lo dico con una dose di approssimata certezza perché, in quegli stessi anni, era uscito da poco un volume sui generi che si basava su questa tesi e che più di vent’anni dopo vende ancora, quindi forse quello che vi sto proponendo non è la solita puttanata da blog). Inevitabile di fronte a tutte queste suggestioni che Donnie Darko sgusciasse, si rivoltasse da una parte e dall’altra, rendendo inafferrabile la sua natura: la black comedy si innalzava iperbolicamente fino a lambire la purezza della sci-fi, per poi sviluppare la sua angoscia attraverso un’iconografia da horror di serie B senza per questo cadere rovinosamente nel farsesco; assumeva scelte, reazioni e modalità del racconto dallo psycho-thriller giovanilistico e implodeva in un ipotetico scenario catastrofico pronto ad aprirsi ulteriormente alla metafora del tempo. Ancora la transizione.

Era come se David Lynch, utilizzando un virginale scenario di false certezze borghesi à la Todd Solondz, raccontasse la crisi di un novello e apocalittico Holden Caulfield imbottito di psicofarmaci, perso tra la smania di attraversamento dello specchio carrolliano e la brama di saltare in universi paralleli come a suo tempo insegnò magistralmente Philip K. Dick. Al di là della sintassi involuta, si tratta di una descrizione onnicomprensiva: gli incubi al neon, il velo alzato sull’ipocrisia suburbana (Solondz, ve lo ricordate? Cattivo e cinico come pochi), il romanzo di formazione di un adolescente disturbato, il concetto di soglia preso da Alice nel paese delle meraviglie, gli universi paralleli che all’epoca pensavamo fossero peculiarità di Philip Dick prima di scoprire quanto ci sguazzasse anche Christopher Nolan. Ma nella sua genuina ipertrofia, come se di botto Kelly avesse voluto inserire nella storia tutti i suoi fantasmi consci e inconsci, c’era anche molto altro. Ed è stato quel molto altro a spiazzare chi non riusciva a sintonizzarsi sul film per apprezzarlo quanto avrebbe meritato. La paranoia del personaggio di Donnie Darko, perso nei suoi istinti autodistruttivi, era il grido con cui il ragazzo reclamava il suo bisogno di affetto con il quale mitigare le brutali incomprensioni di un Mad World (così come sottolineava la splendida canzone dei Tears for Fears riproposta nella versione di Gary Jules e Michael Andrews a chiusura del film) «uscito fuori dai cardini», come diceva il sommo. Non quel sommo, l’altro, quello nato su un fiume che pareva la marca di un prodotto di bellezza di scarso appeal venduto di porta in porta da vecchie ciamporgne.

Soppesandolo con cura e malgrado la difficoltà nel trarne un giudizio lineare in ciò che lineare non è, Donnie Darko si racchiude tutto nello sforzo di un ragazzo che vuole amare e per questo si pone alla coraggiosa ricerca di un sentimento che possa cristallizzare ciò che è aleatorio per natura, perseguendo un’etica del sacrificio che fa dell’adolescente smarrito una sorta di supereroe della nuova era. Sì, esatto, un supereroe, perché ciò su cui i dubbi si concentrarono maggiormente riguardava il viaggio nel tempo che impediva una tragedia per scambiarla con un sacrificio, elemento che pareva totalmente gratuito ma che in realtà si nutriva di una condizione del passato, presa di peso dal Superman di Richard Donner, quando Christopher Reeve invertiva il corso del tempo intorno alla Terra per salvare dalla morte Lois. L’inafferrabile Donnie Darko, quindi, alla fine non era altro che un melodramma frantumato dall’estetica del postmoderno, composto di mille derivazioni diverse tutte appartenenti alla cultura popolare. La scelta dell’estrema rinuncia per donare la vita alla persona amata e dotare di un senso pieno la propria esistenza non era solo un finale commovente e ben calibrato nella sua esecuzione drammatica, ma un intenso, delicato e probabilmente indimenticabile canto d’amore.

Indimenticabile anche a dispetto del dimenticato Richard Kelly. Perché Donnie Darko è diventato un brand, Richard Kelly un triste carneade.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.