Vero che sta facendo un tempo talmente di merda che forse il chiuso di una sala non sarebbe come entrare volontariamente in un monastero di clausura; vero anche che qua non è che siamo cinefili così integralisti da inorridire se uno decidesse di non andare al cinema (credo che prima del cinema nella vita ci siano almeno altre quattro o cinque cose. Probabilmente quattro, perché non bevo più come una volta). Se però, per caso – se solo per caso! – la smettesse una buona volta di piovere e tenuto conto che se siete appassionati di calcio il grosso dell’Europeo sarebbe già finito, anche se il cinefilo-tipo schifa il calcio come espressione sociale bavbava e ivvazionale, ci sarebbe l’occasione di tornare a guardare il cinema sotto le stelle, magari in una location di un certo tipo. Che non guasta mai.
Alcuni di voi magari si ricordano che per nove anni abbiamo allestito (con Fulvio Paganin di Distretto Cinema) una rassegna chiamata Cinema a Palazzo nel cortile del Palazzo reale di Torino (ché qui, al di là dell’impossibile simpatia per i monarchici, eravamo capitale del regno, prima ancora della già nota vocazione industriale ormai smarrita), rassegna che era diventata un appuntamento fisso dell’estate ma di cui ora credo si ricordino in pochi. Eppure sono passati solo tre anni da quando, complici i problemi seguiti alla pandemia e alcuni decisivi vincoli burocratico-amministrativi, abbiamo mollato. A malincuore, certo, perché, al di là dell’abitudine, era un momento intenso di condivisione con la città in uno dei suoi salotti buoni. E se non abiti in Inghilterra, in Australia o negli Stati Uniti, ti devi accontentare (qua le location più suggestive del mondo. Noi non ci siamo, e viste alcune di quelle elencate, è piuttosto ingiusto: ma tanto Torino si sa che è un luogo esclusivamente mentale, non geografico).
Bello quando tutti i quasi 500 posti si riempivano. Una soddisfazione. E poi le situazioni. Strane, paradossali. Come quella volta che mandammo via un centinaio di persone per la sonorizzazione dal vivo di Come vinsi la guerra dei Perturbazione, appena reduci dal Festival di Sanremo (in cui arrivarono sesti, mi pare), salvo poi mandare via anche i 500 già dentro che fino a un secondo prima facevano il gesto dell’ombrello a quelli fuori, perché un violentissimo temporale aveva pareggiato i meriti acquisiti in precedenza (probabilmente quelli fuori gliel’avevano mandata). Oppure quando affrontammo un assedio perché ancora una volta quelli fuori (categoria dello spirito, non le stesse persone), imbestialiti perché impossibilitati a vedere i loro idoli Geppy Cucciari e Neri Marcorè, cercavano di sfondare il portone d’ingresso come neanche i francesi nell’assedio del 1706 (anche se il fulcro all’epoca fu la Cittadella, giusto per non fare figure alla SaintJulien). O come quell’altra volta in cui andando a presentare la sonorizzazione delle avanguardie storiche di Riccardo Mazza fui costretto a infilarmi con tutta la macchina in un parcheggio sotterraneo di un ipermercato lungo la strada per sfuggire alla grandine grossa come pesche noci e quando raggiunsi il cortile del Palazzo, un’ora dopo l’orario convenuto, trovai una devastazione simile a quella di Fukushima e alcuni reduci che ancora boccheggiavano tra le sedie rovesciate in ogniddove. Oppure ancora come quando una tizia della Torino borghesotta e annoiata, molto annoiata, mi si parò davanti al termine della proiezione de L’âge d’or, qualificandosi come critica cinematografica ma rifiutandosi di dirmi il nome, e mi redarguì perché, secondo lei, nella presentazione del film avrei osato spiegarne il senso, peccato di vanagloria e insopportabile saccenza che lei mi faceva notare poiché ci teneva che ne traessi un monito per il mio futuro. Ci rimase tuttavia molto male quando le dissi che in realtà avrebbe dovuto fare più attenzione e non parlare con l’amica, perché avevo premesso l’esatto contrario («non pensate che io sia in grado di spiegarvi il significato di questo film»), e soprattutto quando rifiutai di stringerle la mano che pur mi porgeva, perché «mia mamma mi ha sempre detto di non dare confidenza agli sconosciuti». (In seguito scoprii anche che più che critica – nella sua vita aveva scritto un solo articolo di presentazione del Torino Film Festival per una rivista di musica – era l’ex moglie esaurita di un mio conoscente, squinternato quanto lei. E il cerchio si chiuse). O anche, e poi la smetto, giuro!, quando «La Stampa», nella prima estate post-covid, ci bollò come maschilisti perché nei film scelti (e che film!) si dava un’immagine tradizionalista e deprimente della donna, come se fosse stata colpa nostra e non del cinema classico hollywoodiano a cui la rassegna faceva riferimento (qua la vicenda, se vi interessa).
Ma non voglio essere nostalgico. È stata una bella esperienza, ma non mi mancherà niente, neanche Pegaso, il custode del Palazzo reale, che volendo mostrare di essere lavorativamente attivo andava su e giù durante il silenzio delle proiezioni con il suo enorme mazzo di chiavi tintinnanti, disturbando il pubblico come neanche le mucche in transumanza (e anche perché, se proprio mi mancasse, abita nel portone di fianco al mio e per sovrammercato era anche un mio compagno di scuola delle medie). Cinema a Palazzo è morto, viva Cinema a Palazzo. Si va oltre.
E l’oltre è Cinema sulla Pista 500 del Lingotto, in collaborazione con la Pinacoteca Agnelli. Finalmente teniamo fede alla tanto decantata (qua sul blog, ma solo come perifrasi) città a vocazione industriale ormai smarrita, in cui lo smarrimento sta proprio nel tentativo di rilanciare negli scenari post-industriali di ciò che fu la Fiat (e non solo) questa città (anche nell’indotto ideologico, che fa sì che questa stessa città non si abbandoni completamente all’attuale riscrittura fascio-populista della Storia). Si inizia venerdì 5 luglio con una serie di titoli ispirati direttamente alle opere esposte alla Pinacoteca, in modo da creare una sinergia tra i contenuti artistici e il cinema d’autore. Una piccola proposta, solo 10 film, per vedere se, al di là della suggestiva cornice sui tetti della città, una rassegna estiva può ancora fare breccia tra il pubblico. Chissà. Uno spazio comunque intimo, perché i posti sono 140, forse perché le arene nel frattempo sono diventate un po’ cafone o probabilmente perché di più sul tetto non ce ne stanno. Se pensate di venire, magari ci salutiamo, che é sempre bello. Ma se venite, prenotate all’indirizzo rsvp@pinacoteca-agnelli.it, perché dall’organizzazione temono di lasciare qualcuno fuori. E quella è casa Agnelli, puoi mica metterti a sfondare il portone come a Palazzo reale.
Peccatoooo sold out… Bellissima l’iniziativa complimenti!