A margine della presentazione del libro Scrivere una serie di Filippo Losito, che si terrà martedì alle 18.30 nella libreria Il ponte sulla Dora, nella solita città del nord Italia dalla vocazione industriale smarrita (nel frattempo ha smarrito un sacco di altre cose), facciamo due parole sull’argomento. Perché, malgrado alcune sacche di resistenza da parte degli amanti del cinema duri e puri, le serie rappresenterebbero il futuro dell’audiovisivo, se non fossero già abbondantemente il presente. Perché i cinema si svuotano ma le serie, complici anche i social (come leggerete dopo), collezionano sempre più spettatori (e non vi fate confondere dalla perdita, seppur ingente, del 22,5% di Netflix a Wall Street: è una normale contrazione di un mercato saturo, per l’appunto). Se entrate in una sala cinematografica, guardatevi intorno (quando la luce è accesa, non quando è spenta perché è sospetto) e fate un rapido calcolo dell’età media: pochissimi giovani. Perché sono già passati ad altro. Le storie cui guardano hanno altri riferimenti. Pochi sanno chi sia Tarantino, nessuno sa chi sia Scorsese, tutti però conoscono La casa di carta, Tredici e Squid Game. Adesso penserete: è ignoranza. Troppo semplice. Invece sta cambiando un mondo (non voglio terrorizzarvi, ma in realtà è già cambiato, speriamo solo duri un altro po’) e sta avvicendando i suoi parametri. Quasi un secolo fa, quando gli spettatori cominciarono a conoscere Orson Welles, Alfred Hitchcock o anche Roberto Rossellini, dimenticarono l’esistenza di Georges Feydeau e Strindberg, molti anche di Arthur Miller. C’è un interessante dialogo nel sorprendente volume Scratches and Glitches di Jurij Meden, programmatore al Filmmuseum di Vienna, libro che vi consiglio, anche se ci mette un po’ ad arrivare: parlando di immagini audiovisive con i propri studenti, un professore scopre che essi vedono normalmente tali immagini su smartphone e tablet e che per loro “grande schermo” significa il televisore di casa. Capito? Non lottate, ché fate la fine della mosca nella ragnatela: ci siete già dentro. Cerchiamo solo di capire, piuttosto che demonizzare, vediamo che cosa attira il nuovo pubblico.
Le serie televisive funzionano perché si basano essenzialmente su tre aspetti fondamentali che interagiscono fra loro e senza i quali il prodotto non funziona allo stesso modo. Tutte le serie tv, infatti, si basano sull’allestimento di un universo caratteristico ed esclusivo, su un gruppo di personaggi delineati in modo molto approfondito e piuttosto conflittuale e su una serie di eventi raccontati spesso con modalità non lineare, attraverso una cronologia innervata da frequenti flashback.
Un universo esclusivo
Le serie televisive creano un universo in cui lo spettatore si immerge completamente, entrando in un mondo che ha regole proprie. Rispetto al cinema, le serie televisive hanno uno svantaggio, perché si guardano all’interno della propria abitazione, in cui molteplici sono i momenti di distrazione e interruzione, mentre al cinema, se uno non limona o guarda compulsivamente il cellulare, l’attenzione è canalizzata dal buio della sala e dall’enorme schermo oltre il quale c’è il nulla. Le serie, quindi, tentano di catapultare lo spettatore in un’arena coinvolgente che lo costringa a una partecipazione attiva per comprenderne lo svolgimento. Per evitare che lo spettatore si distragga, tra una pisciatina, un caffè e una birretta che poi ti riconduce pur sempre alla pisciatina dell’inizio, si ricorre ad alcuni accorgimenti, come ripetere più volte durante i dialoghi i nomi dei personaggi e le loro relazioni, in modo che si possano fissare nella mente, oppure ripetere alcuni snodi della trama per facilitarne l’immediatezza del ricordo in funzione dello svolgimento successivo. L’episodio pilota è perciò fondamentale, perché ha lo scopo di istruire il pubblico su come guardare la serie e, nel frattempo, convincerlo a farlo. Il primo episodio imposta la storia, definisce una precisa geografia di riferimento, fornisce gli elementi peculiari del tempo narrativo utilizzato e fa in modo (quindi volutamente, eh!) che emergano buchi nell’informazione su storia e personaggi, così da incuriosire lo spettatore e stimolarlo a guardare le altre puntate.
Tutto questo presuppone la partecipazione di un pubblico complice, preparato e sempre partecipe. L’annosa questione dell’autore, che ha fatto impazzire teorici e semiologi di tutto il mondo di qua e di là dell’oceano (fino a quando Barthes s’è rotto il cazzo e ne ha sancito la morte e buonanotte ― e al di là della provocazione, l’eventuale successo di una qualsiasi opera è conseguenza talmente aleatoria e sottoposta ai capricci del caso da andare sempre oltre le intenzioni di un autore, per quanto accurate esse siano), nelle serie è pratica ancora più complessa, al punto che sì, converrebbe davvero decretarne la morte per non starne più a discuterne. Solitamente, gli autori sono i creatori, coloro che inventano il concept, lo distillano in quella che viene comunemente chiamata bibbia (il progetto nel quale compare ogni aspetto utile per ottenere i finanziamenti dai produttori, capire gli indirizzi dello sviluppo narrativo e le sue potenzialità) e ne scrivono tutte le puntate, magari insieme a un nutrito gruppo di sceneggiatori riuniti nella proverbiale writers’ room (niente di così romantico e fumoso come potreste pensare: non fuma più nessuno perché è cringe, non lo faccio neanche più io da quasi nove anni, e la room è una metafora perché ognuno scrive per i cazzi suoi, magari in collegamento su skype). Il tutto si riassume nella figura dello showrunner, cioè il coordinatore dell’intera operazione e il gestore di ogni singola fase del lavoro, dalla riscrittura di parti della sceneggiatura alla sua rifinitura, dalla scelta dei registi (per quanto possano essere bravi, pur sempre degli esecutori) alla gestione dell’intero budget.
La profondità conflittuale dei personaggi
I personaggi sono le fondamenta su cui si regge l’intera serie. Tutto ruota intorno alla loro presenza e alla loro caratterizzazione, perché il pubblico ha la necessità di affezionarsi ai personaggi per essere motivato a guardare la loro storia.
Il rapporto tra pubblico e personaggi è sempre a lungo termine (una stagione intera, moltiplicata per più anni); la frequenza di eventi raccontati, vedendoli e rivedendoli, condividendo esperienze specifiche e ripetute, permette di accedere all’intimità dei protagonisti e alle loro debolezze.
È molto raro, quasi impossibile, che nelle serie moderne la conoscenza di un personaggio sia affidata a una voce over, è molto più frequente che i suoi stati d’animo, il suo modo di essere, siano descritti a livello indexicale attraverso il modo di vestirsi, una reazione, le abitudini quotidiane. Questa è una fase necessaria per far scattare l’empatia tra spettatore e protagonista. Senza empatia non si realizza l’identificazione e senza identificazione, lo spettatore abbandonerà presto la serie, perché se gli spettatori non sono proiettati nella storia grazie ai personaggi, la visione perde di senso e di interesse.
Ça va sans dire, come dice Riccardo Scamarcio ne Lo spietato: i personaggi delle serie presentano uno sviluppo molto più complesso di quelli del cinema, ma questa non vuole assolutamente essere una deminutio, quanto un’inevitabile conseguenza dovuta all’economia narrativa e all’ampiezza dei tempi che ha a disposizione. Lo spettatore non conosce i personaggi subito ma li scopre poco a poco, approfondendo dati che vengono svelati episodio dopo episodio. Questo avviene molto spesso tramite flashback rivelatori che mostrano particolari del passato del personaggio che consentono di comprendere meglio il presente, chiarendo alcune idee che il pubblico si è fatto, spesso sbagliate, perché portate volutamente fuoristrada a uso della tensione narrativa.
Un altro aspetto importante dei personaggi è la loro natura duplice e ambigua, mai completamente buona o totalmente malvagia, ma piena di sfumature da esplorare fino in fondo.
Il vortice dell’intreccio
Le serie, per definizione, oltrepassano i confini del singolo episodio e si sviluppano per un tempo più lungo di quello cui siamo abituati con i normali lungometraggi. Questi, infatti, nelle canoniche due ore non riescono a raggiungere un grado di approfondimento così elevato come le vicende sviluppate nell’arco di una stagione. Per lo stesso motivo, al cinema non è consentito sviluppare sottointrecci dotati della stessa intensità delle serie. Perché le serie tendono ipoteticamente all’infinito: il loro è il perpetuarsi dell’istinto di narrazione portato all’estremo. La fine della stagione è solo una pausa all’interno del grande racconto, perché il vero obiettivo è non finire mai: la fine della serie significa la fine del successo oppure che gli autori hanno esaurito le idee davvero interessanti.
Inoltre, le serie esorbitano i singoli episodi perché, attualmente (ma già da diverso tempo), con immensa felicità di Henry Jenkins e della sua Cultura convergente, possiedono una vita ulteriore sui forum e sulle pagine social create dai fans. Una community discute dei vari episodi, spiega gli aspetti più complessi e formula ipotesi sugli snodi narrativi susseguenti. Le pause tra un episodio e l’altro diventano quindi uno spazio che si attiva grazie alle discussioni del pubblico e ciò succede anche in caso di binge watching, ossia la pratica (piuttosto rincoglionente) di vedere una di seguito all’altra tutte le puntate rilasciate da un servizio di streaming (possibile dal 1° febbraio 2013, quando Netflix lo fece con House of Cards), perché l’ossessione della visione viene poi propagata, alla fine di tutto (tempo una decina di ore, non di più), sul web, pronto a farsi cassa di risonanza dei propri deliri allucinatori, inframmezzati, talvolta, anche da intuizioni interessanti. Può infatti capitare che alcune di queste intuizioni arrivino addirittura a ispirare gli autori a rilanciare le storie giunte magari a un momento di stanca. E non sarebbe una pratica molto differente da quello che accadde in epoca di narrativa a puntate di fine Ottocento, se è vero che Collodi fu costretto a staccare Pinocchio dall’albero al quale lo aveva impiccato per le lettere di protesta dei piccoli lettori che si erano particolarmente affezionati al burattino pallonaro. Tutto ciò con le lettere, pensate cosa può succedere centocinquant’anni dopo con la brutale invadenza dei social: e anche questo, alla fine, è un ulteriore aspetto della totale immersione del pubblico nell’universo esclusivo e totalizzante che una serie riesce a creare.