Attenendomi alla tradizione di questo blog che mette insieme cose che insieme non dovrebbero mai stare perché segue percorsi solo suoi (e menomale per il resto del mondo, verrebbe da dire), nel giro di poche ore ho visto Giurato numero 2 di Clint Eastwood, 94 anni e una lucidità che molti di noi hanno perso dopo i 30, e Il ragazzo dai pantaloni rosa, il film tratto dalla vera e tragica storia di Andrea Spezzacatena che ha ricevuto insulti omofobi, le lacrime social della Pandolfi per gli attacchi e la messa al bando di un gruppo di genitori di Treviso che hanno reputato inopportuna la proiezione del film per i loro pargoli. Visto che siamo un paese del cazzo – e diciamocelo, per usare l’intercalare preferito di una delle epitomi di questa discesa nella merda – e sto lottando strenuamente affinché chi lascerò su questo mondo la veda un po’ diversamente dal buzzurrismo imperante, volevo che mio figlio lo vedesse. Ma non voglio fare la figura di quello che chiede l’autografo al suo idolo dicendo che è per il figlio perché si vergogna (lo fa anche Lee J. Cobb con Ellen Burstyn ne L’esorcista, ve lo ricordate?), ero curioso anch’io, visto che un sacco di mie colleghe, incuranti del fatto che potremmo diventare anche noi una notizia, pressano per andarlo a vedere con la scuola.
Non che mi aspettassi grandissime cose, diciamocelo subito; lo sapete, sono tanto prevenuto: spesso il valore del film si dimostra inversamente proporzionale alla promozione che se ne fa su stampa e tv. Il film italiano propagandato, poi, ha pur sempre un peccato originale da farsi perdonare: il provincialismo che spaccia come realtà universale. E se lo dice uno di quella città a nessuna vocazione a cui Milano sta per strappare le ATP Finals (tu dici: che cazzo te ne frega? Me ne frega: un conto è farsi 8 chilometri, un altro 127 per vedere la finale), potete fidarvi.
Dunque, ancora imbevuto dello stupendo film di Eastwood, che ha il sensibile retrogusto di un film europeo su un dissidio morale e il vigore tutto americano di renderlo plastico e visivamente accattivante, inizio a vedere Il ragazzo dai pantaloni rosa e dopo soli 5 minuti comincio a scuotere la testa (senza farmi vedere da mio figlio, ovviamente). Ma no, ma che cazzo. Disclaimer: qua non voglio parlare del film, se veicola messaggi positivi e questi messaggi passano, va benissimo tutto, ma proprio tutto tutto se raggiunge lo scopo di contenere un po’ il buzziconismo da cui siamo ammantati. Quello che mi ha intimamente indignato è il modo di rappresentarlo. Parlo di stile, di linguaggio cinematografico utilizzato, non del messaggio. Ci mancherebbe. Non parlo di tutta una serie di difetti che pur ci sono, non m’interessa.
Il ragazzo dai pantaloni rosa abusa di primissimi piani. Ti stempra. È convinto che se il volto del ragazzo protagonista (Samuele Carrino) è sparato a grandezza schermo per forza debba commuovere. Non sono stato lì a contare, ma con buona approssimazione sono convinto che tutti i primi piani messi in serie abbiano abbondantemente superato i 23 minuti totali che rappresentano il record de La passione di Giovanna d’Arco. O perlomeno sono io che l’ho percepito così e forse è anche peggio. Il film inizia mitragliando il pubblico di “teste tagliate”, come si diceva nel cinema delle origini, senza introdurre personaggi, ambienti, situazioni, entrando direttamente nella loro intimità. Che però, proprio perché così diretta, senza mediazioni, può essere vista come un’intromissione indebita.
Nel corso della storia, il primo piano è stato definito in molti modi differenti, ma tutti danno la misura della sua importanza. «La poesia» per Bela Balasz, «l’anima del cinema» per Jean Epstein, «la sua qualità distintiva» per Ingmar Bergman, addirittura «l’immagine-affezione» per eccellenza, come detto con fare piuttosto definitivo da Gilles Deleuze. Nel primo piano si sono sempre concentrate, fin da quando si è diffuso con una certa regolarità, ossia dagli anni Venti del Novecento, alcune caratteristiche che insieme al campo lungo ne hanno fatto l’inquadratura specifica per eccellenza. Una parte che risalta dal tutto, una sineddoche del personaggio che manifesta la complessità delle sensazioni e dei sentimenti. I dettagli del volto, le espressioni, gli accenni, la forma delle parole che prende corpo dalle bocche viste da vicino, tutto contribuisce a dipingere una tavolozza complessa, l’esplicitazione di una stato d’animo o la sottolineatura emotiva di uno snodo narrativo. È il momento in cui la partecipazione dello spettatore viene sollecitata direttamente, l’attimo nel quale si richiama esplicitamente la sua immedesimazione, la sua proiezione nel carattere del personaggio e quindi l’eventuale e conseguente commozione per ciò che il personaggio prova e mostra in tutta la sua evidenza. Perché si tratta di uno scambio equo e dello scambio non bisogna abusare, se no si diventa insolenti, si sa.
Proprio perché ero ancora fresco dell’entusiastica visione, pensavo al film di Eastwood, in cui il primo piano è il veicolo con cui si mostrano le reazioni di un protagonista spaccato in due, consumato dal conflitto tra senso di colpa e desiderio di rimozione per poter vivere la propria vita. E pensavo a quanto fosse equilibrato l’uso di quei primi piani, che giungono solo alla fine di un percorso all’interno della scena, sospinti naturalmente dallo sviluppo della narrazione e dalla logica di uno sguardo che ha bisogno di appigli per comprendere quello stesso sviluppo, per sfociare spontaneamente nelle sensazioni del giurato roso al suo interno, come se si trattasse di una scena reale in cui gli occhi cercano l’interlocutore per comprendere ciò che pensa veramente.
Il ragazzo dai pantaloni rosa non fa questo. Non che debba avere Giurato numero 2 come riferimento privilegiato, ovviamente, ero solo io a fare un confronto improprio inevitabile poiché li avevo visti uno dietro l’altro. E, volendo, paragonarli è anche un atto di deliberato e spietato bullismo, tanto per restare tristemente in tema. Ma Il ragazzo dai pantaloni rosa tappezza letteralmente il film di primissimi piani gratuiti che invadono lo schermo, lo tappano in ogni sua luce, asfissiano rincorrendo una componente emotiva che non può essere continuativa perché altrimenti si banalizza. Margherita Ferri, la regista del film, pare ignorare una cosa elementare: il primo piano è una conquista, un punto di arrivo in situazioni che convergono verso un punto culminante. Di attenzione. Di intensità. Di drammaticità. Se diventa la proposta costante della rappresentazione, perde di consistenza, si depotenzia, diventa un campo medio come tanti altri. Quasi un piano d’ambientazione. Un raccordo, niente di più.
Mentre uscivamo dalla sala, mio figlio, seppur rattristato per il finale, era entusiasta, il film gli era piaciuto tantissimo. E altrettanto soddisfatti parevano tutti gli altri ragazzini della sala. Scopo raggiunto. Non gliene fregava niente dei primi piani ripetuti (e neanche delle incongruenze interne e degli errori di caratterizzazione, ché ci sono), si era comunque concentrato sulla vicenda, aveva astratto dallo stile andando oltre, mentre io non c’ero riuscito. Forse perché il linguaggio attuale è fatto di quello, di primi piani sparati sui video dei social in cui ognuno rivendica la sua esistenza come se non esistesse un mondo intorno o come se quello stesso mondo fosse lì solo per guardarlo. Non è il mio mondo, perlomeno non lo è più. E forse è un bene, perché anche se questo fa di me un vecchio stronzo pedante, c’è speranza che gli adulti di domani colgano l’essenza dei significati laddove quelli come me si indispettiscono bloccandosi sul loro aspetto esteriore.
Concordo ovviamente sia sulla visione del mondo che sui “piani”, bello il film di Eastwood dove i primi piani svelano non esibiscono!
Grazie sempre
E’ bello che lei concordi. Mi piace. Immagino non abbia 15 anni. 😉
Grazie
Cosa fosse l’Italia se sarebbe un film diretto da Bandecchi?
“L’alba del pianeta delle scimmie”.
Il cinema italiano è morto col trapasso di Monicelli, e già prima non se la passava bene.
Quindi bisognerebbe proporre una chiusura definitiva dell’industria cinematografica del nostro paese. L’auspicio è che continui a sabotarsi da sola così da distruggersi del tutto un giorno.
esso che con tutti i buchi presenti nelle mie ultime visioni in sala Il ragazzo en rose non rientra in quelle future, Lo vedrò in streaming se e quando lo trasmetteranno.
Ho visto invece l’utimo film di Clint, e sono stra-felice che ti sia piaciuto. A me davvero tanto- Se ci fosse ancora Segnocinema già da ora lo collocherei senza tema di sbagliare nella CINQUINA, cioè tra i 5 film che tutti i collaboratori indicavano nel numero di settembre con TUTTI I FILM DELLA STAGIONE schedati in bell’ordine alfabetico. Col che Gp avrà capito chi sono.
per gli altri mi firmo come sulla rivista citata: mar,mo,
Meglio la pantera rosa dei pantaloni rosa.
Parere personale
Qui c’è da piangere. Se il pubblico del futuro vuole questa roba …… addio cinema, è stato bello finché è durato.
La società è in decadenza.
(Senza offesa)
Frasca, ci farà un reportage dal.TFF?
Qualcosa, forse, ma senza esagerare. Per un reportage ci vuole dedizione e costanza, qualità di cui non godo.
Se ne fa anche a meno neh…….
Ma certo. Anche di commentare.