Una breve riflessione sulla deriva di alcune immagini a partire da due cose che c’entrano poco (con un pensiero a Godard)

Una breve riflessione sulla deriva di alcune immagini a partire da due cose che c’entrano poco (con un pensiero a Godard)
La Chinoise / Jean-Luc Godard

Eccoci. Come disse Arnold Schwarzenegger in Terminator 3, emergendo da un elicottero infuocato, «I’m Back». È passato un po’ di tempo, voi mi siete mancati molto, e non è il caso che rispondiate «anche tu», non siate ipocriti. Io nel frattempo ho fatto quello che dovevo fare, ho trovato strada facendo le motivazioni che temevo di non riuscire a trovare e ora sono qua. Ve ne parlerò a tempo debito, cioè fra un annetto, se saremo ancora di questo mondo, quando il libro (sì, è un libro) sarà pronto per l’uscita. Vi basti solo sapere, al momento, che parla di uno dei tre film, esclusi quelli di Lino Banfi, che sicuramente vi verrebbero in mente se vi dovessi chiedere quali sono i titoli più divertenti della vostra vita.

Ebbene, ero pronto da un paio di settimane, giusto il tempo di fare un po’ di mare e riassestarmi dopo aver cambiato quello che è stato il mio luogo di lavoro mattutino per più di tre lustri; l’unico problema è che non sapevo bene di cosa parlarvi e dopo tre o quattro ipotesi scartate malamente perché alla fine non è che voglia sottoporvi a un supplizio, l’altro giorno è capitata la grande occasione. Duplice e incrociata. Perché, come sapete, perché voi siete tremendamente embedded & connected, come dicono i tecnologici, è morto Godard. Non il miglior regista di tutti i tempi, ma il più moderno e radicale insieme. Per capirci, Cruijff e non Pelè, non il più forte di tutti, ma il profeta del calcio totale. Ecco, come se fosse morto Cristoforo Colombo, l’iniziatore involontario dell’Età moderna. Ricordate l’effetto che vi fece, quando successe, no?

Il Maestro mentre fa un gesto di apprezzamento a tutti gli altri che non sono lui

Ma non voglio presentarvi un coccodrillo, ché ne ho letti almeno quattro e, a meno che qualcuno non abbia aneddoti di prima mano, tutti dicono più o meno la stessa cosa (più interessante il come è morto Godard, con il suicidio assistito per evitare che a 91 anni il deterioramento prendesse il sopravvento: ma questo non è un blog di riflessione etica, non ne ha lo spessore, per cui, passiamo oltre). Grande regista di rottura (per qualcuno in altra accezione) ma personaggio tutt’altro che amabile: ho ancora negli occhi, e probabilmente l’avrete anche voi, la scena di quel meraviglioso documentario che è Visages villages in cui Godard, benché avvisato, anzi, forse proprio perché avvisato, lascia di stucco (ma uno stucco dai cromatismi tendenti al marrone) Agnès Varda, sua vecchia amica, non facendosi trovare in casa e rendendo la sua assenza un enorme buco all’interno del film, un’assenza che sa di rifiuto, di cancellazione, di anaffettività. Con Godard, e con la Regina Elisabetta, si dice che si sia chiuso definitivamente il Novecento. In realtà io avrei ancora un nome, per chiuderlo davvero definitivamente questo Novecento, ma quello a cui penso, seppur basso, davvero basso, ha le orecchie molto grandi e la vecchia saggezza popolare dice che chi ha le orecchie grandi vive a lungo, per cui ci sotterrerà tutti (io le ho piccole, ad esempio), magari oscillando le stesse orecchie mentre posta il suo ultimo video su TikTok.

L’incrocio magico seguito alla morte di Godard è avvenuto con una cosa che apparentemente non c’entra niente, e già me li vedo quelli che diranno guardando in su «eccolo che alla fine parla sempre della stessa cosa!» Aspettate a giudicare, non vi fermate alle apparenze, come vi dico sempre. Domenica sera, nel finale della scellerata partita Juventus – Salernitana (scellerata per il gioco espresso; come sempre, ahimé), la tanto osannata VAR, che, per chi non lo sapesse, è in pratica quella che il buon Aldo Biscardi chiamava «la Moviola in campo», mentre per chi ne auspicava la messianica venuta è invece l’apice dell’oggettività che sana tutte le ingiustizie perpetrate nel corso di anni e anni e anni e anni e anni e anni (fermatemi, vi prego!) di dominio bianconero. Per capirci brutalmente: l’arbitro è umano e sbaglia (o, peggio, è corrotto dallo strapotere degli Agnelli e quindi è cornuto, se parlate con almeno 30 milioni di italiani, che se fondassero un partito avrebbero percentuali che anche il Listone fascista nelle elezioni del 1924 si sarebbe sognato), ma se un altro arbitro ha la possibilità di rivedere le immagini e correggere gli errori allora si raggiunge l’apice della regolarità. Perché le immagini, si sa, sono oggettive. Og-get-ti-ve, chiaro?

Venti arbitri in smart working nella sala VAR

Ohibò. Ma cosa capita se quella stessa oggettività viene orbata, perché tutta la squadra di arbitri al VAR si perde il difensore che tiene in gioco l’attaccante accusato di essere in fuorigioco, dato che quello stesso difensore è rimasto fuori dall’inquadratura a disposizione e quindi cancellato dalla realtà oggetto d’analisi? E per di più, cosa pensare se, colmo dei colmi, l’arbitro in campo, quell’essere fallace che non vede mai una minchia e menomale che c’è la tecnologia che ne corregge le nefandezze, il gol, validissimo, invece lo aveva convalidato?

L’inquadratura persa è quella di sinistra, l’omino che non si sarebbe dovuto perdere è quello in bianco, in basso

Ma che stracazzo c’entra Godard con il gol annullato alla Juve?, avrà probabilmente sbottato qualcuno di voi, giunto a questo punto. C’entra, c’entra. Non come gol della Juve, ovviamente, ma come riflessione sull’immagine, cosa che Godard ha fatto da sempre, sin da quando ha deciso che Jean-Paul Belmondo dovesse guardare verso la macchina da presa in Fino all’ultimo respiro e irretire uno spettatore che ancora non aveva gli strumenti per sapere come interpretare quest’intrusione all’interno del suo spazio riservato ed esclusivo.

Godard, fin da quando era un critico giansenista ai «Cahiers du cinéma», convinto che la scelta di un piano rispetto a un altro fosse addirittura una questione morale, è sempre stato un profondo analista dello statuto dell’immagine. In un momento storico in cui l’apice del dibattito teorico era tra rappresentazione della realtà e assunzione realistica, Godard ha sempre riflettuto sulla portata dell’immagine, ritagliandola dal mondo per restituirla artefatta, interpretata, verosimile ma mai vera, perché della realtà assumeva solo le sembianze con lo scopo di trasformarle in forme completamente cinematografiche. La riflessione è sempre stata il preludio di una critica alla percezione stessa delle immagini, alla loro falsità, ai loro buchi neri, alle inevitabili zone d’ombra, ai margini tra due inquadrature legate dal montaggio che da un lato unisce e dona significato («Se la regia è uno sguardo, il montaggio è un battito di cuore»), dall’altro mente sulla natura riproduttiva della realtà, manipolandola per una resa narrativa. Come disse con una didascalia appositamente dedicata in Vento dell’Est, «Ce n’est pas une image juste, c’est juste une image», perché non esistono immagini giuste, ma solo immagini. Immagini che Godard ha sempre considerato – in modo assolutamente paradossale – una sorta di doppia facciata in cui un visibile (mostrato) richiama dialetticamente un invisibile, sempre evocato. Il vuoto preso dal caos che si fa immagine pur alludendo sempre al nulla da cui è stato estrapolato. «Che meraviglia poter guardare ciò che non si vede. O dolce miracolo dei nostri occhi ciechi», dirà in Histoire(s) du cinéma.

Pot-pourri di immagini nelle Histoire(s) du cinéma

Tra un santo e una madonna del Rinascimento invocati in modo improprio, è stato questo il cortocircuito a cui ho cominciato a pensare una volta appreso della morte di Godard, associando la sua concezione delle immagini a quello che era successo la domenica sera, con tutti gli strascichi polemici (e ridicoli) trascinatisi per i successivi due giorni, quando i vertici arbitrali e la Federazione Italiana Gioco Calcio hanno fatto a gara a chi dicesse la stronzata più grande, fino al momento in cui la FIGC, nella persona del suo presidente Gravina, ha vinto sbaragliando la concorrenza («Non è colpa di nessuno. Le immagini non c’erano»). E sì, perché in questa epoca di conflitto tra post-moderno e post-verità s’inserisce il comunicato concepito con il post-eriore, il quale, con la sua pretesa di chiarezza definitiva, di fatto dice che la verità parziale e riprodotta, ricavata dalle inquadrature, è più rilevante della realtà effettiva. Anche se un’inquadratura manca. Un’inquadratura decisiva, non quella del panchinaro che si scaccola mentre attende lungamente di entrare. La VAR, presentata al momento della sua comparsa come la tanto auspicata attuazione della Verità non più sottoposta all’impressionismo del giudizio arbitrale, è diventata in breve la suprema applicazione del principio panottico di Jeremy Bentham fissato indelebilmente su supporto digitale, cosa per la quale Michel Foucault avrebbe dovuto aggiornare Sorvegliare e punire, se solo avesse avuto la ventura di vedere tale prodigio, e riflettere non più sulla dittatura del controllo da parte del potere, ma sul potere assoluto dell’immagine in quanto tale. La VAR, quello stesso prodigio della tecnologia, dicevamo, si perde invece nella cecità di un fuoricampo e nell’assurdità logica della sua negazione. Non si tratta di cinema, eppure quello dimenticato è un fuoricampo irriducibile, perché nessuna inquadratura larga lo recupera per rivelare ciò che è realmente successo. Pascal Bonitzer lo chiamerebbe champ aveugle e godrebbe come un riccio a osservare come si genera «un nemico che può essere dappertutto, se la visione è parziale (…) e se il centro di gravità è situato all’esterno dell’inquadratura».

Vera Miles in Psycho guarda con orrore. Cosa? Certo che avete proprio delle pretese, eh!

Ed è così che un cosiddetto fuoricampo attivo, ossia uno spazio mancante che dialoga necessariamente con ciò che si vede, diventa un fuorigioco altrettanto attivo, quello nella partita, grazie a un buco in quella rete di controllo che non può permettersi buchi e che non può in qualunque caso ammetterne l’eventualità, pena il decadimento di ogni credibilità. Salvo poi emettere comunicati in cui dichiara, in pratica, che senza inquadratura anche la verità subisce una conseguente modifica. Come se uno facesse un incidente perché non nota l’auto che precede a causa dell’angolo cieco dello specchietto e, una volta fermatosi a compilare la constatazione amichevole, si rifiutasse di ammettere che l’incidente è avvenuto davvero. Ottimo inizio per un episodio di Ai confini della realtà.  

Un bambino di nemmeno dieci anni che per caso vive qui con me, con una spontaneità che mi ha colto alla sprovvista mi ha detto: «ma scusa…sul calcio d’angolo non c’è mai fuorigioco, perché c’è sempre un difensore sulla linea di fondo che cerca di contrastare chi lo batte, no?». Sì, al 98% è così, a meno che chi contrasta poi non faccia una corsa pazza verso il centrocampo perché preda del ballo di San Vito o dei bug che a volte rendono folli i giocatori in Fifa 22. Ma cosa può il rilievo elementare di un bimbo di fronte all’oggettività incarnata dalle immagini, in un momento storico in cui il post-postmoderno e il digitale hanno frammentato l’immagine in mille rivoli per garantire un’osservazione totalizzante, priva di qualunque punto cieco? Un’immagine sociale, non più estetica, il cui scopo è annullare il criterio di invisibilità. Provate a fare una rapina o a scippare un’anziana appena uscita dall’ufficio postale tentando di schivare le maglie delle telecamere poste un po’ ovunque, anche all’esterno, se ci riuscite: magari non vi arresteranno, magari il vostro processo cadrà in prescrizione, visti i tempi della giustizia italiana, ma di sicuro un’immagine catturerà la vostra esecrabile azione. Per cui, lasciate stare. Piuttosto sorridete, come dicevano di fare con la Candid Camera. L’immagine, nella sua presunzione, ha sempre ragione perché non può ammettere di non riuscire a riprodurre tutto l’esistente.

È la realtà 2.0, bellezze, che supera la proposta iperrealista anni Settanta di una verità idealizzata ― e proprio per questo inesistente e alienante ― per garantirne una apparentemente indiscutibile. Così è, zitti e mosca. Cieca, però. Perché una piccola fessura si è aperta e il prossimo verdetto su un’azione controversa farà inevitabilmente emergere il dubbio che di nuovo si sia perso un elemento fondamentale per una corretta valutazione. Non è la fine della dittatura delle immagini di controllo, tutt’altro, semmai è la conferma della loro imposizione, ma a Orwell un sorriso sarebbe sicuramente scappato.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.