Alla fine ci siamo arrivati a parlare dell’Esorcista. Abbiamo reputato che non fosse il caso di parlarne in morte di William Friedkin per evitare che questo blog si trasformasse sempre di più in un muro del pianto, ma ne approfittiamo adesso che è uscito il remake di David Gordon Green, eterna promessa del cinema indipendente mai davvero sbocciata (fin dai tempi in cui vinse il Torino Film Festival con George Washington, 23 anni fa) e ora riciclatosi come rianimatore di entusiasmi sopiti, prima di oggi anche con la saga di Halloween, rinnovata negli spasmi urlati ma appiattita nelle idee della messa in scena (ne abbiamo parlato un po’ qua).
Bello parlare dell’Esorcista, soprattutto una volta superato il trauma primigenio della prima visione, che ebbi a 12 anni e a causa della quale restai convinto per una settimana che il mio letto potesse iniziare da un momento all’altro a sussultare con me sopra. Dio santo che paura! E che angoscia quando, molto più tardi, lessi il bellissimo romanzo di William Peter Blatty da cui il lavoro di Friedkin è tratto. Inutile dire quanto odio provi adesso quando, parlandone con un adolescente, questo ti guarda incredulo chiedendoti «ma parli del film con la bambina che diventa verde e che dice “sono la tua troia”? Ah, che ridere!». Ma come “che ridere”!? Un po’ di rispetto, che diamine!
Che dire invece della nuova versione, che non ha bambine che diventino verdi o che si propagandino come zoccole? Più che un remake è un sequel, poiché a un certo punto compare un volto ben noto, piuttosto invecchiato (ma sono passati anche 50 anni), che mostra come questa possessione sia collegata alla prima. Moralmente si tratta anche di reboot, perché l’obiettivo sarebbe di dare una riverniciata al titolo nella speranza di estendere il brand in una nuova trilogia. Tentativo arduo, almeno dall’impressione che ho avuto alla prima, con la sala desolatamente vuota. Anche se le due storie, a 50 anni di distanza, appaiono conseguenti, non si fa tuttavia il nome del demone assiro ritrovato all’inizio del film in Iraq da padre Merrin, ossia il simpatico Pazuzu che per un’intera generazione ha rappresentato IL DEMONE, malgrado le raffinate fattezze lo avvicinassero più a uno degli eroi dei fumetti porno dello stesso periodo, tipo Lando o Il Tromba, che a uno spirito tanto invadente. Anche se in un certo modo invadenti erano anche Lando e Il Tromba (Non ci crederete, lo so, e non lo pretendo neanche, ma la foto qui sotto per ben 6 volte mi è scomparsa dalla pagina. Non era mai successo in quattro anni di blog, ve l’assicuro).
In breve, le possedute in quest’ultimo Esorcista sono due adolescenti, amiche, che spariscono per tre giorni senza lasciare alcuna traccia e poi, quando vengono ritrovate, cominciano a mostrare comportamenti strani, tendenzialmente discutibili, non dovuti all’ormone impazzito o alla droga dello stupro ma al fatto che Pazuzu è tornato. È tornato perché deve tornare, probabilmente per ragioni commerciali collegate alle scelte della Universal e della Blumhouse, non perché il Male sia riemerso dopo un inopinato scavo archeologico, come nella magnifica sequenza iniziale del primo Esorcista. Eccolo, il problema: la distanza enorme tra l’originale e la versione 2023, al punto che già intitolarlo allo stesso modo pare un azzardo. Perché non chiamarlo L’esorcismo di Angela e Katherine o L’esorcista del Papa in gita in America? Distanza che tra l’altro è inevitabile, visto che il film di Friedkin è un capolavoro e cercare di rifarlo un crimine di lesa maestà, come tentare di reinterpretare 2001: Odissea nello spazio o riprendere inquadratura per inquadratura Psycho, come fece Gus Van Sant nel 1998 senza che nessuno ne comprendesse davvero il motivo (neanche io che all’epoca, fresco di una tesi di laurea su di lui, cercavo di giustificarlo).
L’esorcista – il credente, anno domini 2023, è un horror come tanti, con la stessa struttura di mille altri horror e totalmente privo della metafora soggiacente invece nel ’73. Il film di Friedkin era un horror solo nella sua veste esteriore, in realtà era un’acuta allegoria dello smarrimento degli Stati Uniti riguardo alla perdita del senso del sacro una volta giunti gli anni Settanta. Per capirci, era un film sulla progressiva perdita dell’identità americana. Non a caso il film era ambientato a Georgetown, quartiere di Washington D.C.. Nella capitale, ogni personaggio non appariva per quello che era: Chris era un’attrice di successo, recitava in un film sulla contestazione studentesca e lo faceva in un ruolo che le era estraneo perché non ne comprendeva la logica proposta dalla sceneggiatura. Era una madre affettuosa ma era spesso assente, e per di più è moglie di un marito da cui era formalmente separata e che era altrettanto assente. Padre Damien Karras, stupendamente interpretato da Jason Miller, si trovava invece nello stallo di una profonda crisi spirituale, convinto di star perdendo la fede. Era un gesuita ma anche uno psichiatra, un binomio formalmente inconciliabile. Al punto tale che inizialmente non riconosceva nella bambina le caratteristiche della possessione demoniaca, propendendo per una scissione della personalità. Infine la stessa bambina, Regan, a causa della possessione, si trasformava da dodicenne serena e sorridente a maschera terrificante segnata da occhi gonfi di odio animalesco e profondi solchi di sangue rappreso. Se non vi ricordate, guardate qua.
Di cosa parla in realtà il film di David Gordon Green? Di quello che sembra, di una possessione demoniaca come mezzo per un auspicato successo commerciale. Volendogli dare una chance, ci racconta tra le righe della comparsa del Male, così come la suora fallita e ora infermiera, con un insopportabile fare didascalico e dannatamente stucchevole, confessa alla poliziotta incaricata del caso nel finale del film. Ovvio, sì, il Male, ma ‘sto Male dove cazzo si è originato? Dal prologo del film ambientato ad Haiti, quando una sacerdotessa accarezza la pancia incinta della madre di una delle due ragazzine? Oppure il Male dovrebbe scaturire dalla citazione diretta dei due cani che si azzuffano già vista nella scena del prologo in Iraq con padre Merrin del primo Esorcista? Anche ammesso che sia veramente così (e non è così), poi nel frattempo succedono un bel po’ di cose, si assiste a un riassestamento familiare (diciamo così) seguito a un imprevisto tellurico (diciamo così), passano dodici anni grazie a un taglio del montaggio e soltanto dopo, tanto dopo, succede quel che succede. Ma del Male, ancora nessuna traccia. Nell’Esorcista di Friedkin il Male era il mezzo grazie al quale s’indagava la questione filosofica accennata prima e la metafora a essa sottesa, qua pare invece il taccone che giustifica gli strepiti e la grande proliferazione di Jump Scare che infarciscono la seconda parte del film (ma almeno uno, in ospedale, è fatto benissimo, al punto che dietro di me ho sentito sbottare all’unisono «Cazzoooooo!», «Madonna!», «Merda!», «Dio mio!», miscelati insieme e senza ovviamente nessuna connessione tra loro, tipo Caaa-mado-mer-zzo-dio-nna-dio-rda-mio detto in un solo soffio).
E in più, volendo spaccare il capello in quattro, sempre alla ricerca della metafora che non si trova: laddove nel ’73, come detto, Chris era un’attrice, qui il padre di una delle due vittime, Angela, è invece un fotografo che oppone la pretesa obiettività della sua visione all’irrazionalità della situazione angosciante che si trova a vivere. Elementare e piuttosto inconsistente, proprio di una prospettiva futile, concentrata sul livello più superficiale del senso. Inoltre, parte della ricchezza dell’Esorcista originale dimorava nel dissidio interiore di padre Damien Karras, personaggio dotato di una caratura ossimorica che gli forniva un autentico spessore tragico, stretto com’era tra la fede da riconquistare e il peso del senso di colpa per non essere stato presente nel momento della morte dell’anziana madre, relegata in una triste struttura ospedaliera (e sul quale quel figlio di grandissima puttana di Pazuzu – sia detto con enorme ammirazione – insisteva durante l’esorcismo, tanto per ribadire il concetto che nessuno, nel film, era chi mostrava di essere). Confrontatelo col prete del film di Green, un fesso senza alcuna motivazione d’esistenza, che sarebbe un cretino anche nella vita reale: prima dà l’assenso all’esorcismo, poi si chiude in macchina per evitare di entrare in casa e prendere parte al rito (ricordandomi un cugino acquisito che venne a prenderci alla stazione di Napoli ma che non usciva dall’abitacolo perché gli avevano detto – a lui, che veniva dal paese – che a Napoli c’era la delinquenza. E quindi per paura che i mariuoli se lo arrobbassero con tutta la macchina non si azzardava a venirci incontro e noi, ovviamente, rimanemmo fermi nel piazzale perché non sapevamo dove cazzo fosse; in realtà neanche se ci fosse. A un certo punto, aguzzando la vista, vedemmo una manina farci segno da una feritoia del finestrino a 50 metri di distanza e gli andammo incontro. Fu un momento sublime della durata di circa venti minuti.). Tornando a quello scemo di prete – poi, finalmente, e comunque sempre prima del cugino acquisito, il preticello entra in casa ma diventa un mero pretesto per una scena effettistica. Altro che dilemma morale.
Questi i temi e i significati. Vogliamo parlare di stile e architettura narrativa? Vogliamo davvero parlarne? Ce l’avete ancora un attimo di pazienza? Friedkin in tutta la prima parte del film lavorava lo spettatore ai fianchi. Lo teneva a distanza con il suo proverbiale livido realismo, ma parallelamente lo stemprava di indizi, spargeva set-up come se fossero semi di una coltura intensiva e chiudeva tutto quando riteneva fosse giunto il momento opportuno. Nel prologo apparecchiava, sfruttando la rarefazione del silenzio, l’esatto contrario di ciò che sarebbe esploso nella seconda parte; poi, pian piano, turbava gli equilibri innalzando per gradi la tensione, alimentando il mistero, facendoci struggere per il dolore lancinante di cui era vittima la povera Regan, punteggiando il tutto con pennellate di inquietudine (la pipì addosso, il vaticinio sulla morte imminente dell’ospite a smorzare la spensieratezza della festa, il rumore proveniente dal solaio creduto lo zompettare dei topi) che una volta esplose nella tensione susseguente, davano la misura di un’inevitabilità che intrappolava lo spettatore non lasciandogli alcuno scampo. Anche l’andamento stesso della seconda parte, quella in cui la possessione diventava un fatto conclamato e non più supposto, era magistrale, perché modellava la consueta sinusoide con cui sono costruti i film horror in una parabola sinuosa che condensava lentamente la tensione, la portava al picco per poi farla crollare in pause di denso silenzio che venivano rotte improvvisamente procurando l’ennesimo brivido. Una tensione ripetuta, separata nella sua varie fasi da un singhiozzo (basterebbe pensare alla scena in cui il trillo del telefono di padre Karras squarcia il silenzio, mentre lo spettatore, riparato nello studio del sacerdote dopo aver visto l’orrore, pensa erroneamente di trovarsi finalmente al sicuro).
L’esorcista – Il credente non semina, non modella e non apparecchia. Giustappone. Prima c’è l’equilibrio, poi solo il casino e quando inizia il casino, il volume si alza e arriva fino al termine del film, perché il segreto è unicamente nella confusione sonora che tutto rimescola e tutto omogenizza. Senza spaventare, disturbando. Il disturbo è la matrice dell’horror contemporaneo e il film di Green non fa eccezione, perché per spavantare devi costruire, per disturbare è sufficiente distruggere fingendo di creare. Ma il lavoro lo fanno tutto le luci, i movimenti convulsi e improvvisi e il dolby. È un’illusione effettistica che conduce a uno stato di alterazione costante, attenta alla globalità e per nulla al dettaglio, il cui scopo è la perversione percettiva, non la ferrea logica dell’inquietudine.
Un remake/sequel/reboot totalmente inutile con punte di ridicolo involontario – quando e se lo guarderete, date un’occhiata alla corte dei miracoli incaricata di effettuare l’esorcismo e ditemi se piuttosto, foste voi nei panni delle due ragazzine, non preferiresti restare nelle zozze grinfie di Pazuzu invece di farvi salvare da quelli lì. Non si tratta del solito nostalgico refrain su quanto migliore fosse il cinema del passato, quanto riconoscere la vacuità di un’operazione che più che confrontarsi con un gigante mostra di non aver compreso per niente quali fossero le motivazioni profonde che ne stavano alla base. La riprova? Resistete alla tentazione di andarvene e attendete chi compare nell’ultima inquadraura: solo a quel punto sarà chiaro che l’obiettivo non era scavare nelle motivazioni originali del film per attualizzarle, ma solo di emulare Carràmba! Che sorpresa. Altrettanto inutilmente, perché c’è da scommettere che pochissimi del giovane pubblico cui il film è rivolto capiranno davvero chi è.
Ciao. GP, bella e simpatica come sempre la tua (dis)sequenza odierna, E strepitosi gli aneddoti di vita reale che introduci qua e là (volevo scrivere SALTIM ma poi avrebbero detto che me la tiro). In particolare il cugino acquisito che temeva l’aria delinquenziale da sempre circolante in quel di Napoli mi ha fatto morir dal ridere, mentre la captatio vocis con esclamazioni scatologiche e para-bestemmie mi ha ricordato un episodio capitato a me che non c’entra un cazzo, ma mi va raccontar(te/ve)lo. Dunque: ero al Capitol a vedere non ricordo che cosa e dietro di me c’erano solo una mamma e una bimba sui 3/4 anni (lo capii girandomi per vedere l’autrice di quanto sotto). La bambina, alla vista del primo spot proiettato sullo schermo, disse forte: “CHE TELEVISORE GRANDE!!”. Che forte! A quell’età certi bambini sono irresistibili. Potrei aggiungere altro, ma non lo faccio per paura che il testo si svampi come è successo altre volte. W PAZZUZZU (Z doppia x assunzione pillole blu. Anche i demoni invecchiati hanno bisogno di un aiutino).
PS. Se non proprio fuori vedo benissimo uscita tunnel…….
Ringrazia per il commento, caro Mar.mo, e ti segnalo che il buon Pazuzu è in vendita su Amazon, per chi fosse interessato. Però è più castigato e non dispone dell’enorme membro di cui menava vanto nel film.
ragioni commerciali, suppongo.
https://www.amazon.it/Figuren-Shop-GmbH-PAZUZU-figura/dp/B01H05MGGI/ref=sr_1_1_sspa?crid=250UTA01D32FU&keywords=pazuzu+statua&qid=1696674307&sprefix=pazuzu%2Caps%2C228&sr=8-1-spons&sp_csd=d2lkZ2V0TmFtZT1zcF9hdGY&psc=1
Allora, porca miseria… io mi stavo concentrando sulla recensione che tanto aspettavo, quella sul film di Friedkin, ero entrato nel mood, cercavo di recuperare le immagini del film dalla mia memoria (di merda)… e tu??? Mi fai saltare i polmoni in aria con la storia del cugino acquisito??? Sono passato da Pazuzu a Lino Banfi in una manciata di secondi!
AHHAHAHHAHAHAHHAHA
Ma vaff….
a.
molto acquisito, quindi prendila larga. ma ci tengo a sottolineare: ogni storia raccontata qui sopra è dannatemente vera. tranne in un caso, ma se ne sono (ve ne siete) accorti in tre-quattro. e non è una bella cosa.
estremizzando: non sono vere le recensioni, ma gli aneddoti sono tutti realmente accaduti.