Ci siamo appena lasciati con la classifica del 2022 e sono di nuovo qua ad anticiparvi tre titoli che faranno sicuramente parte dei migliori film del 2023. Il problema sarà trovarne, semmai, altri sette. Ma beatevi, perché almeno due di essi li potrete vedere quasi subito, a inizio febbraio, mentre il terzo ancora non si sa se e quando uscirà (ma in qualche modo ce la farete a vederlo, ne sono sicuro).
Dunque, il primo è il ritorno di Martin McDonagh al cinema, cinque anni dopo il meraviglioso Tre manifesti a Ebbing, Missouri, film che ha contribuito ad allargare la cerchia di coloro che lo conoscevano anche al grande pubblico cinematografico, dopo quello teatrale (lo sapete che il buon Martin è l’unico drammaturgo oltre Shakespeare ad avere avuto rappresentati contemporaneamente quattro drammi sui palcoscenici di Londra?). The Banshees of Inisherin, che in Italia uscirà il 2 febbraio con il titolo Gli spiriti dell’isola, è una farsa surreale e allucinante che racconta le conseguenze della fine del rapporto tra due amici di vecchia data residenti su un’isola al largo della baia di Galway, in Irlanda, all’inizio degli anni Venti. Detta così pare una stronzata, anche la modalità è quella che vi capitava da bambini («Non ti faccio più amico, tiè!») e invece si tratta di un pretesto minimalista pronto ad aprirsi a conseguenze di portata drammatica, in un crescendo orchestrato da McDonagh con una maestria unica nel creare dialoghi sferzanti e situazioni concrete originati da premesse assurde. La grande capacità di McDonagh, infatti, è di generare il dramma da massicce dosi preparatorie di black humour, che illudono sul versante comedy mentre apparecchiano la tragedia. Questa qualità elevatissima di scrittura è comunque suggellata dalla prova maiuscola di due interpreti giganteschi, quali si dimostrano, ancora una volta dopo l’esordio del regista In Bruges, Colin Farrell e Brendan Gleeson, uno in perenne bilico tra la frustrazione di non comprendere i motivi del rifiuto dell’altro e il dubbio di non essere all’altezza, l’altro su cui convoglia simbolicamente tutto l’autolesionismo della guerra civile che si sta combattendo sulla terraferma. E McDonagh si conferma una volta di più un ottimo regista e uno sceneggiatore di caratura immensa. Dimenticavo, premio per il miglior attore a Colin Farrell e alla miglior sceneggiatura all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Vero che i premi lasciano sempre il tempo che trovano, pensate agli Oscar, il cui ultimo verdetto ha reso vivida la speranza che anche Lino Banfi possa vincerne uno alla carriera (e non sto scherzando), però, giusto per rammentare il duplice evento e confortarvi sul fatto che non perdereste comunque due ore vedendo il film. Anzi.
Il secondo consiglio per gli acquisti è Tàr di Todd Field, con la monumentale Cate Blanchett, la carogna (in questo caso) che non puoi non ammirare, in uscita, salvo imprevisti, il 9 febbraio. Dando l’ascesa per assodata nel fuoriscena, è la storia della progressiva caduta della grande direttrice d’orchestra, prima donna a dirigere la Berliner Philharmoniker. Vicenda inventata, ma visti gli agganci realistici fin dall’inizio con l’intervista del vero Adam Gopnik del «New Yorker» e un’altrettanto credibile pagina di Wikipedia, un sacco di persone sbircerà sullo smartphone per trovare notizie di questa fantastica donna in carriera le cui uniche tracce si limiteranno al film che stanno guardando. Il film attraversa diverse fasi e altrettante proposte differenti di stile, ma la regia è sempre attenta e coinvolgente, tutt’altro che supina nei confronti della grande interprete, in un’unione che diventa un prodotto intenso e spettacolare. Il significato ultimo dell’operazione può dare adito a qualche rilievo (più di qualche, nell’epoca permalosissima del #metoo), perché ci si lamenta che le donne non occupano mai posizioni di potere e poi, non appena le occupano, bisogna pure accusarle di averle usate pro domo loro? Essì, questo film lo fa e vivaddio, menomale che qualche stronzo alla fine non si conforma a tutta la massa che ci ammorba con le sue storielle tutte uguali, tutte indirizzate allo stesso modo per seguire la moda imperante del momento, perché altrimenti guai, sai che attacchi via social? (della stampa non fotte più niente a nessuno, perché tanto il pubblico non la legge più). Ciò che però si vede per oltre due ore e mezza è formalmente splendido, con alcune scene che potrebbero rientrare in un’ideale antologia del cinema degli ultimi anni: penso soprattutto a uno stupendo piano-sequenza di circa dieci minuti all’interno di un’ampia aula della Juilliard in cui la Lydia Tàr del titolo smerda uno studente per i suoi gusti musicali condizionati da dinamiche di gender e cancel culture. Ovviamente esagera, lo umilia, ma chi se ne frega, la scena è bellissima lo stesso e tutti ‘sti distinguo un po’ il cazzo ce l’hanno rotto. E ammettetelo.
No? Ipocriti.
Il terzo è un mio vecchio pallino. Sapete da alcuni post passati quanto io abbia amato il film Madre di Rodrigo Sorogoyen e quanto apprezzi lui come autore (e Isabel Peña come sua sceneggiatrice). As bestas è il suo nuovo lavoro. Non è prevista ancora, al momento, un’uscita italiana. Male. Molto molto male! Perché è un film drammaticamente potentissimo, che si traveste come sempre da thriller per sondare il dilemma morale di un individuo in condizioni esasperate che sono sempre specchio di una collettività, spesso dell’intera nazione (come in Dio ci perdoni, Il regno ma anche in Antidisturbios, ancora più sul pezzo in virtù della proliferazione dei suoi punti di vista). Qua il protagonista è un francese, ex professore, che s’insedia in una comunità montana della Galizia, in Spagna, in cui prevale la povertà e la limitatezza delle vedute, nonostante i panorami stupefacenti. Il dissapore con i vicini deflagra e diventa soffocante: è un conflitto di orizzonti mentali tra ragione e ferinità, non una bega da cortile, perché Sorogoyen lavora sempre sulle conseguenze della morale, non sull’elementarità dell’azione. E anche in questo caso la narrazione si apre alla divaricazione dei punti di vista, spaccando il racconto in due in modo piuttosto netto, frustrando le speranze, separando l’azione dalla sua elaborazione e dissociando dichiaratamente le dinamiche di genere, alludendo all’unica vera speranza per una sopravvivenza possibile. È un film recitato in tre lingue, francese, spagnolo e galiziano, per questioni di ambientazione, certo, ma anche perché la differenza linguistica, il fatto che uno parli la lingua dell’altro e un altro no è fondamentale per il senso globale del film. Tutto questo per dirvi che se per caso uscisse e fosse doppiato, equivarrebbe a non vederlo, perché questo è il tipico film che non si apprezza se non si sente correttamente. Per cui, attrezzatevi, se vi è possibile.
Ancora un paio di cose, al volo. A proposito di consigli: dal 6 gennaio sarà disponibile su MUBI Aftersun, esordio alla regia della britannica Charlotte Wells e titolo che potrebbe essere un altro dei film dell’anno, quando sarà il momento, a dicembre. Anche perché quasi tutte le classifiche straniere lo hanno inserito tra i primi quattro film dell’anno appena trascorso. Quindi, mal che vada, se proprio vi capitasse di essere indecisi su cosa vedere…
Ultima cosa: nella classifica che «Sight & Sound» propone ogni dieci anni dal 1952 sul miglior film di tutti i tempi c’è stato un terremoto al vertice che ha detronizzato La donna che visse due volte e Quarto potere, che era stato in testa per oltre cinquant’anni. Secondo oltre mille professionisti interpellati, il titolo migliore ora è Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles realizzato da Chantal Akerman nel 1975. Come? Non lo avete mai sentito? Infatti ne parleremo prossimamente. Con calma, quando ce ne sarà occasione. Se ci sarà.
A proposito: buon anno a tutti.
Sempre grazie per i consigli, caro Giampiero, ti abbracciamo
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