«Oh, Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore», si cantava negli anni Ottanta intorno a un falò.
Un attimo.
Se il calcio di rigore è in una finale dei mondiali che ― con un culo di dimensioni cosmiche, da quel momento in avanti diventato proverbiale come «culo di Sacchi» ― non avresti dovuto neanche giocare e che, una volta giocata, non avresti meritato di portare ai rigori (se non vi ricordate, guardate qua), allora sì che è da questi particolari che si giudica un giocatore.
Certo, un rigore lo sbagliano tutti. Io nella mia infima carriera ne ho sbagliati due e ancora me li ricordo con enorme fastidio (però ne ho anche segnati due nella stessa partita spiazzando entrambe le volte il portiere, mentre il bucolico pubblico casalingo mi vomitava addosso epiteti simpatici alludendo alla mia presunta omosessualità e ricevendo in cambio un limpido dito medio, peraltro poco apprezzato dagli stessi coltivatori di peperoni). La differenza la fa quando lo sbagli. Se lo sbagli in una finale mondiale significa che difetti di testicolanza. Non tutti possono essere freddi, ma se punti a essere un fuoriclasse non puoi permetterti di non esserlo.
Evidentemente, però, è da questi stessi particolari che è giudicato Roberto Baggio, per alcuni “il Divin codino”, per altri “il Coniglio bagnato”. Osservato come uomo ancor prima che come calciatore nel film uscito lo scorso 26 maggio per Netflix con il primo dei due soprannomi come titolo (uscire con il secondo sarebbe apparso troppo irriverente ma forse più calzante, visto l’argomento). Giudicato è però termine improprio, sarebbe meglio dire descritto, raccontato, scandagliato, per quanto si possa scandagliare una carriera di oltre vent’anni in una misera ora e mezza. Della quale però ringraziamo, perché già così è sembrata lunghissima.
Tutto parte, come un incubo, da quello stesso rigore e tutto ruota intorno a esso, che molto tolse al Baggio giocatore ma altrettanto rese all’etica del calcio, che in questo modo premiò la squadra più forte (il Brasile), dandole un mondiale davvero meritato (se Apolloni, Mussi, Minotti, Bucci avessero vinto si sarebbero ribellati gli dei del calcio, credo). In realtà c’è di peggio dello sbagliare un rigore: decidere di non tirarlo come un Celestino V qualunque. Come Paulo Roberto Falcao nella finale di Coppa Campioni 1984 con il Liverpool, quando lasciò l’incombenza al povero Graziani, il quale calciò un pallone siderale che non fu mai più ritrovato. O ancora come lo stesso Baggio, che il 6 aprile 1991, per affetto verso la tifoseria della Fiorentina, si rifiutò di tirare il rigore pur essendo il rigorista, lasciando che lo sbagliasse Gigi De Agostini e consegnando la Juve alla sconfitta (con la mezza Italia antijuventina che ne esaltò il romanticismo d’antan e l’altra metà, di cui faccio parte, che smoccolava incredula anche solo per una questione di elementare professionalità, magari pensando ai due miliardi e mezzo che percepiva all’anno per fare il romantico). E forse sarebbe questo il rigore che il film avrebbe dovuto raccontare per illustrare davvero l’uomo.
Ma Il Divin codino non è un film romantico, è un film familiar-psyco-morale.
Diciamolo subito, a scanso di equivoci, il problema del film prodotto da Netflix e diretto da Letizia Lamartire (una donna???, direbbe il dirigente della Nazionale Italiana Cantanti Gianluca Pecchini, come se i cantanti giocassero davvero a calcio) non è il rigore di cui si parla, è che unisce due irresolubili difficoltà nella stessa operazione: realizzare un film sul calcio e farlo nell’ambito del cinema italiano.
Del secondo non parlo. Se siete tra i 25 ormai celebri lettori di questo blog, sapete come la penso e se invece siete capitati per caso e intendete soffermarvi solo per qualche istante, potete guardare qua senza temere di diventare i 26esimi. Riguardo invece al primo aspetto, il calcio rappresentato al cinema proprio non si può vedere. Dopo due sole inquadrature i movimenti appaiono innaturali, grotteschi, bizzarri, sganciati da qualunque realtà fattuale, anche quando, come in questo caso, le scene sportive puntino a replicare fedelmente le azioni effettive viste sul campo. Come scrissi in altra sede qualche anno fa, «tra calcio e sua versione cinematografica esiste una differenza inconciliabile nella collocazione delle inquadrature all’interno della catena emotiva delle immagini», frase che sembra non significare davvero un cazzo ma che in realtà afferma come diventi difficile appassionarsi ai film che mettono in scena il gioco del calcio perché l’inserimento di un primo piano durante l’azione ne blocca la fluidità facendo sembrare il tutto sempre innaturale (a meno che uno non si sia formato su Holly & Benji, cosa che peraltro va a scapito anche della sua concezione globale del pallone). Nel cinema, si sa, senza il primo piano che riflette come uno specchio l’emotività del personaggio e la trasferisce nell’animo dello spettatore, difficilmente passa qualunque barlume di empatia, ma allo stesso tempo, inserire un piano ravvicinato di un calciatore mentre sta per calciare in porta il pallone decisivo fornisce una sensazione estranea, troppo melodrammatica rispetto alla canonizzazione delle immagini calcistiche cui siamo abituati da anni e anni di visione televisiva (per chi è abituato allo stadio il discorso non è meramente riproduttivo, è esperienziale: ve lo dice uno che non vede l’ora di tornare sugli spalti a imprecare contro gli avversari). Il calcio al cinema non funziona mai (con l’eccezione di Fuga per la vittoria, ma solo perché John Huston ebbe la furbizia di riprendere una serie di fenomeni come se si stessero allenando), non funziona perché ciò di cui si ha bisogno è la spettacolarità della ampiezza prospettica del gioco, creata dal senso geometrico dello spazio e dall’intensità emotiva dello svolgimento dell’azione, aspetto complesso che solo nella visione televisiva raggiunge il suo massimo grado.
Se uno sport che sullo schermo risulta ridicolo è realizzato da un cinema italiano che è sempre drammatico, il risultato non può che essere grottesco. E Il Divin codino, ahilui, non fa eccezione. Le azioni sembrano avere la grana del videogioco (dalla grande definizione, certo: almeno questo), con movimenti telefonati, il pubblico ha la stessa calda consistenza delle espansioni digitali di Kundun di Scorsese e, diciamocelo, Andrea Arcangeli, scelto per interpretare Baggio, somiglia più a un incrocio tra Vincenzo Iaquinta e Antonio Conte. Certo, entrambi con il codino ma pur sempre Iaquinta e Conte (che però, magari, il rigore lo avrebbero pure segnato). Un altro esempio sono le riunioni tecniche tra una partita e l’altra del Mondiale, con i giocatori distanziati tra loro così tanto per chiare esigenze pandemiche che paiono più in attesa della somministrazione del vaccino anticovid che intenti ad ascoltare le alchimie tattiche di Arrigo Sacchi (interpretato da Antonio Zavatteri, ma sarebbe stato più adatto Maurizio Crozza ― nei panni di Carletto Mazzone c’è Martufello, per cui l’idea di Crozza non è proprio una stronzata).
Ma il capolavoro assoluto è la struttura. Per inseguire narrativamente quel fottuto rigore tutto il resto sparisce. Tutto. Baggio s’infortuna, la Fiorentina lo recupera, segna un gol da leggenda contro il Napoli in faccia a Maradona (che era in panchina), vive da protagonista i mondiali del ‘90 in Italia, passa alla Juventus scatenando una guerra di popolo dei tifosi contro i Pontello (i padroni della Fiorentina, all’epoca), nella Juve vince una Coppa Uefa, un campionato, una Coppa Italia e un Pallone d’oro (uno dei soli quattro italiani ad averlo mai vinto, per cui, non una cosa che capiti proprio tutti i giorni ― tre dei quattro sono della Juve, se mi passate la notazione solo apparentemente gratuita), ma di questa fase non c’è alcuna traccia. Le fasi del film sono Fiorentina, convocazione in Nazionale e poi la didascalia: «6 anni dopo». Tutto il resto ingoiato in una gigantesca ellissi. Guarda caso, proprio gli anni vincenti nella Juve. Puff! Dissolti. Adesso, io capisco che se si vuol fare il film ammiccante al grande pubblico, meglio sopprimere ogni traccia di juventinità in un personaggio che, tra l’altro, neanche gli stessi tifosi della Juve hanno mai davvero amato, pur ammirandone la classe sopraffina, probabilmente proprio a causa di quel rigore. No, non quello del film, l’altro, quello per cui fece per viltade il gran rifiuto. Però, cancellare un’intera carriera con il benestare dello stesso calciatore ― che ha ammesso di aver pianto dalla commozione ― è una delle più grandi opere di rimozione mai viste dai tempi del genocidio armeno. Sto esagerando? Ma certo, ovviamente: si fa per iperbolizzare.
Però, alla fine, chi vorrebbe vedere un film che ruota tutto intorno a un rigore alto di due metri in una finale mondiale, tirato da un giocatore che secondo la sceneggiatura ha giocato unicamente nel Vicenza, nella Fiorentina e nel Brescia? Solo perché aveva un rapporto Old Fashioned Style con il padre (Andrea Pennacchi, lui sempre fantastico, anche quando compare tinto con il lucido da scarpe) e durante un momento di crisi ha abbracciato nel tempo di tre minuti e mezzo il buddismo? Ma a quel punto non sarebbe stato più avvincente raccontare di un rapporto padre-figlio più problematico, chessò Gavino Ledda o Franz Kafka, che si rapano a zero e vanno in giro a cantare l’Hare Krishna, pur senza aver mai tirato un solo calcio di rigore in una competizione ufficiale?