Tre istantanee dal 41° Torino Film Festival

Tre istantanee dal 41° Torino Film Festival

Mi stavo già godendo l’idea di guardarmi solo i film che mi sarebbero davvero interessati senza preoccuparmi di essere credibile dovendone scrivere, quando poi, il giorno stesso dell’inaugurazione, mi hanno chiesto un paio di articoli. Fortunatamente solo uno dei due film richiesti era fuori dalla lista dei miei interessi: un compromesso che si poteva accettare. Che volete farci? Come diceva Kurt Vonnegut, così va la vita.

Vedere solo i film che interessano nei festival ha un vantaggio fondamentale: i film si capiscono. E magari si ricordano anche a distanza di tempo. Ne vedi uno al giorno, lo puoi ponderare, pensare a qualcosa di più profondo di una semplice impressione buttata lì mentre si esce dalla sala e ci si mette in coda per il film successivo. Per cui, iniziamo: tre brevi istantanee dal Festival di Torino appena concluso. Tre tra le cose migliori viste nell’arco della settimana. Ma anche l’unico modo per non odiare i festival del cinema. Che non significa proprio non andarci, ma assumerli con estrema misura.

1ª istantanea: dalla Spagna. Cerrar los Ojos.

Bella la metafora proposta da Victor Erice, storico regista spagnolo autore di quel capolavoro che fu Lo spirito dell’alveare, altra allegoria, questa volta del franchismo, connaturata alle paure infantili e al cinema, con il mostro di Frankenstein di James Whale a fare da spauracchio nella psiche di due bambine. In Cerrar los Ojos si parla di cinema e di memoria, spesso per farle entrare in rotta di collisione. Un attore scompare senza lasciare traccia mentre sta girando un film, il regista del film interrotto, trent’anni dopo, si mette sulle sue tracce per scoprire che fine abbia fatto e lo ritrova in un convento di suore, intento a fare lavoretti di collettiva utilità. L’attore, invecchiato, appare piuttosto smarrito, ha perso la memoria. Malgrado il confronto con il suo vecchio amico regista, non si ricorda di lui e allora, disperato, questi tenta un’ultima carta, proiettargli le scene da lui girate nel film che s’interruppe improvvisamente, mostrargliele in un piccolo cinema vicino al convento e osservare l’eventuale reazione. L’intero film è una lunga preparazione all’ultima scena, particolarmente attesa ed elaborata ma in cui tutto torna. E ciò che Erice suggerisce è piuttosto suggestivo, malgrado rischi di non apparire proprio nuovissimo.

La scena del film che l’attore girò trent’anni prima è particolarmente melodrammatica: ha appena riportato a casa la figlia che un ebreo sefardita lo aveva incaricato di ritrovare. Il film di trent’anni prima si collega con la saletta cinematografica del presente, in cui è seduta la vera figlia dell’attore, anche lei non riconosciuta dall’uomo. I campi e controcampi del film si raccordano con i campi e controcampi del presente, nel quale i personaggi si girano per osservare le reazioni dell’attore senza memoria per carpirne qualche segno di riconoscimento, qualche traccia mnestica sfuggita alla cancellazione totale. Le inquadrature si fanno più brevi, tutti lo osservano, lui è in primo piano, attonito, poi sembra quasi reagire di fronte alla scena della figlia ritrovata o forse del suo ultimo atto in un film prima dell’oblio. O forse è solo una variante dell’effetto Kulešov. La sorpresa di una recuperata identità pare però che debba emergere da un momento all’altro, man mano con l’attesa che monta. Dài, ti ricordi, vero? Dài che ti ricordi. L’attore chiude gli occhi. È commosso? Ha recuperato la memoria? È addolorato per il tempo che ha perso? Taglio. Nero. Fine del film. Prima di lasciarsi andare in un «ma che cazzo», che pure ci vorrebbe, pensateci, perché è magnifico ciò che ci sta dicendo Erice, lui stesso piuttosto dimenticato dalla storia ufficiale (guarda caso non faceva un film intero dal ’92, Il sole della mela cotogna): il cinema non ravviva la memoria delle cose, la visione è cieca in chi non ha coscienza del passato. Forse, addirittura, si spinge fino a suggerire l’impossibilità di comprendere la natura delle emozioni, se non in una dimensione intima, raccolta, totalmente personale. La negazione del cinema nella sua dimensione sociale e collettiva, e un riferimento alle nuove possibilità di fruizione individuali, nell’era delle piattaforme domestiche. Chi lo sa davvero? Pensiamoci.

L’attore era sparito trent’anni prima, Erice non girava un film da trent’anni (eccetto corti e partecipazioni in pellicole a episodi) e anche io, nel mio piccolo, durante il film, stavo per mandare completamente a puttane trent’anni di onorata carriera in soli tre secondi. La sera della proiezione di Cerrar los ojos nella sala riservata alla stampa era la stessa in cui stavano giocando Real Madrid e Napoli in Champions League. Dopo un’ora di un film che ne durava quasi tre e in un momento in cui la narrazione stava seguendo un percorso piuttosto prevedibile, m’è venuta l’insana voglia di guardare qualche immagine della partita, giusto per vedere se i napoletani stessero già perdendo. Armeggio sul telefono e improvvisamente, tra l’altro in un momento di silenzio sullo schermo, parte ad altissimo volume la telecronaca della partita in inglese. Per di più su un sito pirata. Riesco trafelato a far scomparire il video e mi abbasso dietro gli schienali per evitare che gli spettatori capiscano che sono stato io (davanti a me c’era anche la prestigiosa firma di uno dei dizionari di film più venduti). Uno furbo che cosa avrebbe fatto? Avrebbe evitato di rifarlo. Io no. Forse perché non lo sono, anche se m’illudo sia perché ho una propensione al rischio originata dalla curiosità di vedere che cazzo può succedere ancora. E ovviamente è successa la stessa cosa, stavolta a un volume più alto, perché si era appena verificata un’azione pericolosa o particolarmente spettacolare. A quel punto, di fronte alle nuche che si giravano e incurante di chi avessi alle spalle, mi sono alzato e sono fuggito dalla sala, per poi rientrare qualche istante dopo come se niente fosse, con il telefono spento e senza sapere neanche il risultato della partita. Serafico, quasi commentando sdegnato «ma chi è ‘sto cafone?»

2ª istantanea: dagli USA. The Holdovers.

Io adoro Alexander Payne. Mi piace proprio. Trovo che sia un regista molto abile e che racconti storie con un’arguzia che non possiedono in moltissimi. Ho apprezzato tantissimo perfino Downsizing che tutti hanno invece disprezzato. E mi è piaciuto molto anche The Holdovers, che è la storia di un intenso contatto tra tipi umani caratterizzati da fortissime mancanze (uno studente abbandonato dalla madre nelle vacanze, una capo cuoca che ha perso il figlio in Vietnam, un insegnante più avvezzo a occuparsi delle civlità antiche che delle relazioni contemporanee), costretti a stare insieme all’interno di un prestigioso liceo svuotatosi completamente per il periodo natalizio. Se pensate sia la solita storia nella quale i personaggi suppliscono alle mancanze appianando le divergenze e arrivando a conoscersi, sì, avete ragione, è davvero la solita storia nella quale i personaggi suppliscono alle mancanze appianando le divergenze e arrivando a conoscersi. Però la differenza è sempre come lo racconti e Payne sa raccontare, indubbiamente. E i personaggi sono dei bei personaggi: un Paul Giamatti con un occhio sbilenco, affetto da trimetilaminuria, ossia la sudorazione che fa puzzare quanto il pesce marcio, causa della sua inadeguatezza nel rapporto con le donne e della sua seppur coltissima solitudine; una Da’Vine Joy Randolph nei panni di una Big Mama, donna di grande saggezza e riflessività malgrado il dolore che la attanaglia, e il sorprendente Dominic Sessa, esordiente su grande schermo, brillante e amareggiato, un ribelle che chiede solo la necessaria dose di affetto smarrita da tempo.

Del film si dovrebbe parlare diffusamente ma l’ho già fatto altrove per cui vi risparmio, dico solo che sì, Payne ha perso un po’ del cinismo che lo caratterizzava, soprattutto quando rappresentava in controluce i tanti vizi d’America, però la cosa che mi preme sottolineare è che non è vero che abbia realizzato un film derivativo, ispirandosi al cinema americano anni Settanta e guardando qua e là ad Hal Ashby, Mike Nichols, Arthur Penn o Milos Forman, come si discuteva subito fuori dalla sala al termine del film (che tra l’altro, forse vi ricorderete, è la cosa che più odio dei festival). Payne, per raccontare nel 2023 una storia ambientata nel Natale del 1970 ha proprio fatto un film della New Hollywood, incurante delle mode e fottendosene di tutto, rispondendo solo a un’esigenza personale. Per tutto il film è una sensazione diffusa, grazie ai tagli peculiari delle inquadrature, ai colori densi e pastosi, ad almeno una zoomata vertiginosa all’indietro che pare teletrasportare il pubblico fino a Il laureato e quindi il dubbio che l’intera operazione possa vivificare su uno strato costante di riferimenti e citazioni è fin troppo lampante. Ma quando scattano i titoli di coda, la cui grafica sembra quella di un film di Jerry Schatzberg, la sensazione di prima diventa la certezza di aver davvero visto un film Seventies per estetica, tonalità e scoramento esistenziale. E io, che ho le mie debolezze, mi sono davvero esaltato.

Per farvi capire. Quella stessa mattina, uno dei miei editori mi aveva proposto di scrivere un libro sulla Storia del cinema italiano. A me. È evidente che non legga questo blog. Ma non importa. Per tutta la giornata ho pensato all’ipotesi e la possibilità, devo ammettere, mi ha cullato parecchio, anche perché la proposta era convinta ed entusiasta. Non odio il cinema italiano, odio solo gli ultimi quarant’anni, dei quali salvo comunque qualcosina, tipo Teatro di guerra di Mario Martone. Poco, eh? Vabbe’, però sono un grandissimo amante della Commedia all’italiana, sulla quale più di dieci anni fa avrei dovuto scrivere qualcosa per una casa editrice torinese nobile decaduta, ma poi non se ne fece più niente perché il progetto fu sostituito da un altro che mi occupò i successivi due anni (e fu il grande flop editoriale della mia vita, anche se lo rifarei altre mille volte). Mentre mi crogiolavo in questi pensieri e nella perenne convinzione che un libro vada scritto esclusivamente sulla base di un’urgenza intima che in qualche modo collimi con un vuoto editoriale (per dire: ami Tarantino o Kubrick. Ma ci sono monografie su Tarantino e Kubrick? Un fottìo. Quindi niente libro su Tarantino e Kubrick), ho visto la spessa grana settantesca di Holdovers e ho ripensato a tutti i capolavori, uno dietro l’altro, che hanno caratterizzato quel magnifico periodo, probabilmente ineguagliabile. Ridevo da solo. Felice. Morale: sono tornato a casa e ho risposto alla proposta: no, grazie molte, ma scrivere un libro senza il necessario influsso di legittimo amore proprio non posso farlo.

Voi avreste mai rapporti sessuali senza essere davvero innamorati?

Insensibili.

3ª istantanea: dalla Francia. Yannick.

Quentin Dupieux si vede solo ai festival. Ed è un peccato perché ha qualcosa di davvero geniale. Nasce come produttore musicale con lo pseudonimo di Mr. Oizo (era quello della pubblicità dei Levi’s con Flat Eric, ve lo ricordate?), poi, nel 2010 tutti si accorgono di lui anche come regista, quando, in Rubber, s’inventa uno pneumatico assassino che semina terrore e morte sulle strade della California. Siccome da tempo ha l’endorsement dei «Cahiers du cinéma» sarebbe il caso di dargli il credito che merita, anche perché i suoi film hanno il più delle volte un’idea di partenza strepitosa. Che poi l’intera struttura non sempre regga il peso delle premesse è altrettanto vero, però non si può evitare di ammirare la surrealtà che caratterizza le sue storie. Ne avevamo parlato già lo scorso anno con Fumer fait tousser, che mi aveva riconciliato con l’atmosfera da festival. Quest’anno è stato la volta di Yannick, altrettanto lunare.

Brevemente. Uno spettacolo teatrale di pessima fattura intitolato Le Cocu, il cornuto, è interrotto da un giovane insistente, Yannick appunto, guardia in un parcheggio, che si lamenta della discutibile qualità artistica che lo deprime, perché non gli sta fornendo quello svago che sta ricercando, lavorando sette giorni su sette e avendo dovuto prendere un giorno di ferie, percorrere una distanza di 45 minuti in treno e di 15 minuti a piedi per essere lì in quel momento. Segue un lungo dialogo conflittuale con i tre attori in scena, fino a quando, offeso e allontanato in malo modo, Yannick torna armato di pistola e prende in ostaggio compagnia e pubblico con l’intenzione di mettere in scena uno spettacolo edificante da lui scritto e interpretato dagli stessi attori di cui ha criticato le capacità. Yannick è un film breve (solo un’ora e sette minuti) che scardina le convenzioni del teatro (l’interruzione della rappresentazione e il pubblico che diventa protagonista assoluto) utilizzandone cinematograficamente le stesse caratteristiche e facendo leva su un dialogo tra i personaggi che non accenna mai a calare di intensità e di densità comica. È un film scritto con estrema cura che ha la piena complicità della regia, capace di rendere dinamica una piéce grazie all’avvicendarsi delle rapide battute dei dialoghi e alla loro forza sovversiva.

Mentre raggiungevamo velocemente la macchina, perché dieci minuti dopo sarebbe iniziata la trasferta di Monza e il cinema spesso è bellissimo, certo, ma solo nello spazio intercorrente tra una partita e l’altra della Juve, ho spiegato a mio figlio che aveva riso tantissimo (eravamo in giro e allora, già che c’ero, l’ho portato con me al festival) come Yannick s’inserisse in tutta una tradizione teatrale che da Pirandello con Sei personaggi in cerca d’autore fino al Living Theatre di Judith Malina e Julian Beck, passando attraverso l’avanguardia dadaista, aveva abbattuto le pareti tra personaggi, attori e pubblico e che quindi il film di Dupieux era sì divertente ma occhio, perché l’idea esisteva già da un secolo, lui mi ha risposto candidamente che sì, mi ringraziava, ma che comunque lui preferiva Yannick a tutto quello che avevo appena detto. E a quel punto non sono riuscito immediatamente a decidermi se fossi diventato più un tronfio trombone, un insegnante poco coinvolgente o semplicemente un padre noioso.

Fortunatamente, l’urlo liberatorio al gol di Gatti al 94° ha azzerato quel piccolo momento di gap generazionale, tra una serie di imprecazioni irripetibili e un abbraccio raggiante perché ormai insperato.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.