Tre gradi di tensione

Tre gradi di tensione

Scusate. Lo sapete che quasi sempre questo blog segue logiche che sono solo sue. Quindi spesso incomprensibili. La responsabilità è tutta di un’inerzia languida che fa propendere per parlare di qualcosa e di tralasciare qualcos’altro, magari più centrato o attuale. Capita quando lo scopo è farsi leggere solo da chi voglia veramente e di fottersene di rincorrere numeri più corposi e incoraggianti. Ma noi, qua, siamo un club, un circolo esclusivo di scazzati in cui il patto è manifesto e accettato un po’ da tutti. Per questo si scrivono post anche nella mattina di Ferragosto — come oggi — solo perché si è in attesa di eliminare le scorie della notte per poter andare in spiaggia ad ammollare come i merluzzi (e poi ci si ammolla talmente che il post si completa una settimana dopo).

E dunque, visto che le logiche latitano, è qualche giorno che penso a un nucleo di tre film e al loro diverso modo di generare tensione, accomunabile soltanto perché li ho visti uno dietro l’altro e perché hanno del tutto casualmente tre modalità complementari, come se facessero parte di un’ipotetica rassegna sull’attualità del brivido. Due di questi (Longlegs e MaXXXine) sono usciti contemporaneamente negli Stati Uniti (se scrivessi dagli States avrebbe una logica, ma a ‘sto giro scrivo dal litorale laziale) ed entrambi stanno guadagnando bene: il primo uscirà in Italia il 7 novembre, il secondo fra qualche giorno, il 28 agosto. Il terzo (Trap) è già uscito a inizio agosto e molti di voi lo avranno già visto.

Non sono film inappuntabili, ci mancherebbe. Però, sapete come la penso; certo, non con la stessa acrimonia del western, ma quasi, ossia che gli horror buoni sono rari come i membri intelligenti della maggiornaza dell’attuale governo (escludo Tajani giusto per la proposta sullo Ius scholae). Devi saperli fare, non basta fare un buh! dietro al culo, quello che gli sgamati sui social chiamano Jump Scare. La tensione va costruita. Accuratamente. Tanto più che i tre film di cui vi voglio magari anche schematicamente parlare, visto che l’ammollo ha fatto il suo corso anche sulle facoltà cerebrali, non sono horror in senso stretto. Perché, ça va sans dire, affinché ci sia horror dev’esserci l’aspetto soprannaturale, che qua c’è solo in Longlegs, perfettamente integrato però in una struttura mystery. Gli altri due sono thriller. Perché non hanno il fantasma (o il vampiro o lo zombie o l’anima de li mortacci di chicchessia) o l’elemento irrazionale (le sceneggiature incongrue scritte di merda non contano) e possiedono precisi criteri di rilascio delle informazioni a uso del pubblico.

L’accostamento è certamente forzato, ma appare comunque ugualmente legittimo, volendo, perché avendoli visti nel giro di tre giorni, il pensiero si è sovrapposto, si è intrecciato e si è predisposto inevitabilmente al confronto. Il modo peggiore per riflettere sul cinema. Ma tanto questo blog non ha ambizioni di sorta. Cazzeggia. E quindi lo può fare fottendosene. Fare cosa? Guardare velocemente come ognuno di questi film costruisca la tensione in un modo interessante. Non del tutto nuovo, ma con prerogative personali e diverse dagli altri due. Vediamole, va’.

Lui è il figlio di Anthony Perkins. Osgood, detto Oz. Sempre brutto sentirselo dire, “figlio di”, anche se non seguito dal mestiere più antico del mondo. Lui, però, sarà anche “figlio di”, ma fa horror dall’inizio della sua carriera. Un genere con cui tuttavia, nel corso degli anni, ha dovuto riconciliarsi, perché quando era piccolo suo padre realizzava film di genere ormai talmente scadenti da indurlo alla convinzione che l’horror esistesse solo di quell’infimo livello. Non sempre i suoi tre film precedenti sono apparsi riusciti, per carità. Ma quest’ultimo, Longlegs, rischia davvero di esserlo. Perché abbandona la classicità a cui ha spesso attinto (case infestate et similia, addirittura far sublimare l’incubo soggiacente nelle fiabe, come in Gretel e Hansel) per truccare la materia che gli è più consona con un velo di mystery tassidermizzato. Privo di qualunque atmosfera, glaciale; a volte, grazie in quest’ultimo caso anche alla performance catatonica di Maika Monroe nei panni del detective Lee Harker, addirittura ossessivo e trasognato. A lei è assegnato il cold case di un serial killer con il quale scoprirà di avere un legame particolare.

Perkins lavora principalmente sulla dialettica tra passato e presente, una relazione che sul piano narrativo funziona da sempre, perché il confronto tra prima e dopo, tra situazioni aperte che necessitano una chiusura drastica o un conto da saldare o, peggio ancora, come in questo caso, di traumi che si proiettano senza che se ne comprenda l’oscura natura, al cinema e non solo nell’horror, indubbiamente ripaga (e se ci pensate, i rapporti elencati sono propri di qualunuqe genere: in ordine, melodramma e racconto di formazione, western e noir). Succede la stessa cosa anche in MaXXXine ma deprivato di ogni metafisica, tirando in ballo il piano formativo e il conseguente strappo da un passato soffocante e moralista.

Perkins ha uno stile particolare, che spesso lo ha fatto accusare da certa critica americana di essere troppo lento, ma in Longlegs la cosiddetta lentezza non è altro che incombenza, circostanziata preparazione alla rivelazione oppure, peggio, attesa procrastinata per una tensione che si allunga come un elastico. Ma senza arrivare a un punto di rottura. Ciò di cui si era potuto accusare Oz nel passato era di essere un regista d’atmosfera, capace di creare un ambiente ma di non essere poi davvero in grado di svilupparne le implicazioni drammatiche. Qua non è così, finalmente. Perché la regia scruta, s’inocula, avvolge e prima di mostrare, cela. Anche se dovrebbe rivelare il grande nome in cartellone, anche se, come vi ho già accennato indirettamente in passato, quello stesso nome è diventato più un meme che un cameo nobilitante e quindi si rischia il grottesco, soprattutto se si presenta con una maschera da mostro. E invece osa. E lo fa nell’unico modo possibile per far riaffiorare un trauma che ha segnato una vita (della protagonista) pur restando opaco: lo mozza visivamente, portandolo alla prospettiva parziale di una bambina che capisce e ricorda, ma solo fino a un certo punto.

Shyamalan lo conosciamo. Ne abbiamo anche già parlato qualche anno fa. Negli ultimi anni ne ha azzeccati pochissimi. Forse solo Split e Bussano alla porta. Per gli altri ha sondato spesso gli abissi del ridicolo, come quando in Old ha fatto allontanare la giovane Eliza Scanlen per qualche istante per poi farla tornare incinta di nove mesi, pronta al travaglio, momento che ringrazio solo di non aver visto quando ero adolescente e particolarmente impressionabile, altrimenti mi avrebbe condizionato l’intera vita sessuale. Per cui ogni volta che esce un nuovo film di Shyamalan lo si vede, ovviamente, ma sapendo che ci sarà sempre qualcosa che lo manderà in vacca. Anche Trap presenta i suoi problemi, sarebbe inconcepibile il contrario, e qualcuno lo ha stroncato senza pietà. Effettivamente, il gioco ormai consunto di spiazzamenti, false piste e colpi di scena, per non parlare poi delle enormi incongruenze che da sempre caratterizzano le sceneggiature del buon Shyamy, è sempre lo stesso e proprio per questo risulta prevedibile, anche nelle stronzate. Ad esempio: è normale che la polizia circondi un’arena durante il concerto di una diva pop alla Lady Gaga (ma è la figlia di Shyamalan, Saleka) per trovare un serial killer tra 20.000 persone del pubblico, di cui, diciamo, un 2000 maschi adulti, sapendo solo che questi ha su un braccio il tatuaggio di un animale e che è sicuramente là dentro perché un’enigmatica profilatrice dell’FBI ha avuto un’intuizione? Sì, è assolutamente normale. Come diceva John Ford, quando gli chiedevano come mai gli Apaches non sparavano ai cavalli per fermare la diligenza, «perché altrimenti finirebbe il film».

Io di Trap ho trovato invece interessanti un paio di cose in particolare. Uno: la capacità di ribaltare la prospettiva, facendo evolvere la storia cambiando il regime di focalizzazione (per farla breve: escludendo il killer, cioé colui con cui lo spettatore ha condiviso nella prima metà del film sguardo e volontà — sembra sorprendente ma è una procedura tutt’altro che nuova — per relegarlo fuoricampo e concentrare spazio e attenzione su chi ha il compito inatteso di risolvere l’intera situazione). Due (ma collegato all’uno): Prendere lo sfondo (il palco del concerto) e, con un’abile, progressiva e ideale correzione della messa a fuoco, metterlo al centro della vicenda per farne lo snodo da cui, anche metonimicamente (grazie alla presenza della diva pop), si sviluppa la soluzione (si fa per dire) dell’intreccio. C’è questo di diverso dai soliti film di Shyamalan degli ultimi quindici anni (con l’eccezione di quelli citati): visto in una certa prospettiva, qualcosa che alla fine funziona c’è.

MaXXXine è il terzo film della trilogia di Ti West iniziata con X: A Sexy Horror Story e proseguita con Pearl. MaXXXine è più vicino a X che a Pearl, è la sua conseguenza logica e concettuale. Se X ci diceva che il porno (che si girava nel film) e l’horror condividono le dinamiche voyeuristiche, MaXXXine dà per scontato questo aspetto, ricordandocelo (il cartello di un manifestante bigotto all’esterno degli studi in cui si sta realizzando il film del terrore girato dalla protagonista riporta l’equazione horror = porn) e proseguendolo tramite Mia Goth, l’attricetta porno sopravvissuta in X che cerca di sfondare nell’horror di serie B hollywoodiano. West guida lo sguardo del pubblico attraverso una pornografia della violenza splatter, facendo preciso riferimento ai classici dell’expolitation, alla tradizione inglese della Hammer e a Dario Argento.

West, soprattutto in questa trilogia, mostra sempre una marcata intenzione metadiscorsiva. Che riguarda l’allegoria dello sguardo, come in X, oppure gli eccessi del melodramma anni Cinquanta alla Douglas Sirk in Pearl. In MaXXXine è la parabola spietata del divismo che non scende a compromessi e non fa vittime, raccontata come in un thriller anni ’80 con tanto di neon, transizioni con tendine e split-screen. Se qualcuno ci vedesse il De Palma o il Michael Mann dello stesso periodo, non avrebbe di certo le traveggole, però filtrati, appunto, da eccessi slasher, alcuni dei quali particolarmente divertenti, apparentemente grossolani ma sottilmente arguti, come il (letterale) caplestamento fallocratico dell’estremità erotica di un sosia di Buster Keaton.

West è immediato, non grossolano. La sua costruzione della tensione è perfettamente logica, anche se può sembrare elementare: personaggio losco (e nel sottobosco di Hollywood ce ne sono parecchi) uguale minaccia; protagonista sola uguale minaccia. Non solo quando avviene nel buio, non solo in scenari screziati dal neon che ricordano i videoclip dei Frankie Goes to Hollywood, ma anche in piena luce, all’interno degli studi Universal, con un sole accecante a fare da netto contrasto e infastidire per la sua contraddizione in termini, mentre per sfuggire al pericolo ci si scapicolla sulle scale dell’abitazione di Norman Bates. Ve la ricordate, quella casa vista dal Motel in cui si sentiva la voce della madre presunta assassina in Psycho? Quella. E lei, Maxine, ci si rifugia. Pare un controsenso ma il significato, pensandoci, è fin troppo evidente: ciò che le dinamiche drammatiche dei singoli film pongono come pericolo è mondato dall’essenza salvifica di ciò che nel cinema è diventato storia. Senza contare che il padrone di quella stessa abitazione era il padre di Oz, il regista del primo film di cui abbiamo parlato oggi, nonché “figlio di”. Giusto per chiudere il cerchio.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

12 Risposte a “Tre gradi di tensione”

  1. ho visto solo Maxxxine dei tre film citati come della trilogia parimenti citata di Ti West. sulla tensione più che elementare direi depauperata, nel senso di priva di qualsivoglia brivido o sussulto. sulla scena del triste (e dopo quanto gli accadrà, tristissimo) Buster Keaton, ho riso. e un analogo brusio si è mosso in sala, non per chissà quale rigurgito da revenge ultrafemminista ma proprio perché cosí assurdo da sembrare una parodia.

    aspetto dunque il 7 novembre. il buon figlio di… è più nelle mie corde.

    a presto.

  2. Rimane il dubbio di come oggi il genere potrebbe funzionare se non fossero esistiti i vari Lang, Hitchcock, Tourneur, Fregonese … vero?

  3. Gianni, il genere non ha avuto più nulla da offrire proprio partendo da loro

  4. Comunque Mia Goth in questi film è una bambola bombabilissima (nessun* femminista si senta offes*)

    1. al di là della considerazione, dalla quale mi devo per forza di cose dissociare, immagino che l’abbiano scelta proprio per stimolare pensieri di questo tipo.

  5. Infatti non c’è nulla di male. Siamo figli di un cinema che ha indotti determinati pensieri. A me va benissimo così.

  6. Speriamo che West si fermi. E che la trilogia rimanga tale. Una quadrilogia sarebbe inutile.
    Cosa ne pensi del resto della sua carriera?

    1. Credo sia un regista diseguale. Ho apprezzato “Nella valle della violenza” per l’effetto domino che s’innescava all’inizio della storia e anche “X: A Sexy Horror Story”, per i rimandi interni ed esterni e per l’allegoria ovvia ma ben sviluppata sulla deriva dello sguardo. Mi è spiaciuto molto per “The Sacrament”, perché aveva l’ambientazione giusta e la storia complice per ottenere un bel risultato (adoro il Southern Gothic), ma invece ha sprecato tutto con una serie di banalità piuttosto sconcertanti.

    1. Piaciuto è una parola grossa. Non l’ho trovato disprezzabile, anche se piuttosto prevedibile.
      C’è però un aspetto che mi ha sorpreso molto e le anticipo che sarà l’argomento del prossimo post.
      cordialmente.

I commenti sono chiusi.