Volevo aggiornare il blog ma ero indeciso di cosa parlare. Allora ho pensato che potevo anche parlare di tutto, se voi doveste avere la consueta pazienza di leggere ciò che scrivo. Sarò breve, giuro, malgrado questo impeto onnicomprensivo.
Non l’ho visto appena uscito. Non era tra i film che attendevo spasmodicamente, diciamo. Ma poi, come si soleva dire una volta, a grande richiesta, un po’ di persone, tra cui una delle due maestre di mio figlio, hanno iniziato a chiedermi cosa ne pensassi e qualcuno mi ha anche domandato perché non ne scrivessi qua. E allora, a quel punto, visto che pareva che fossi l’unico a non averlo ancora fatto, sono andato al cinema. Sto parlando, l’avrete capito, di C’è ancora domani, esordio alla regia di Paola Cortellesi. Sarò netto e tendenzialmente brachilogico, come questo blog non è mai. Premessa, non intendo essere snob, carcate di capirmi, sto facendo un discorso più ampio: C’è ancora domani è il film fatto apposta per chi non va abitualmente al cinema. È l’evento con il grande personaggio, simpatico a tutti (la Cortellesi), parla di un argomento impegnato (la condizione delle donne alla vigilia del loro primo voto in quella che non era ancora la Repubblica italiana – lo sarebbe diventata anche e soprattutto grazie a loro: alle urne andarono in quasi 13 dei 25 milioni di votanti) e si veste di tonalità arty, con quel bianco e nero su muri scrostati che richiama immediatamente l’epoca neorealista (così come il soldato americano di colore fa subito Paisà). Perché ho citato il target, invece che il film? Perché se non vai spesso al cinema il film è bellissimo, ricco di toni e sfumature, divertente, commovente, da ricordare, raccontare e convincere gli altri a vederlo. Ma se invece al cinema ci vai e sei abituato a vedere film, suona tutta una serie di campanellini d’allarme che non puoi ignorare. Prima di tutto la solita sceneggiatura all’italiana, solo un po’ meglio. Poco. Lo so, sembro Stanis La Rochelle, che tra l’altro è uno dei personaggi meglio scritti della storia del cinema e della televisione, ma non è colpa mia che me la prendo con gli italiani, sono loro a esserlo, italiani. Nella prima mezz’ora qualunque battuta di dialogo, qualunque rimostranza (giustificata) contro il genere maschile, è assolutamente prevedibile e didascalica, tendenzialmente stereotipata: non può che andare in quel modo, non può che dire le cose che senti, al punto che potresti anticiparle nella tua testa precise precise come poi saranno recitate. Come dite? Era la società a essere stereotipata intorno a ruoli ben definiti? Vero anche questo. Però il film crea un manicheismo tra uomini e donne che sarà stato pure così, è provato, le nonne lo hanno raccontato fino a quando non si sono spente (non le mie, ad ogni modo), ma è mostrato in maniera troppo perentoria, senza nuance e mezze tinte. Sembra Schindler’s List, non un film sulla forza di emancipazione delle donne. E anche in questo ambito, la contraddizione: se il patriarcato intende mostrarsi così assoluto, perché far interpretare il marito violento a Valerio Mastandrea, il cui passato cinematografico, la cui figura, la cui spontanea e riconosciuta simpatia renderanno sempre il suo ruolo nel film piuttosto straniante, interrompendo la cosiddetta sospensione dell’incredulità, consapevoli che sì, sta a menà, ma è Mastandrea, non può farlo veramente, eddài!
Quindi se dovesse ricapitare che qualcuno mi chieda cosa ne penso, anche se ormai non me lo chiederà più nessuno perché sono stato registrato come quello-che-non-lo-ha-visto, potrei dire: sì, è un film importante, perché – e seguite il sillogismo, per cortesia – siccome piace alla gente che non va al cinema e la gente che non va al cinema è la stragrande maggioranza, veicola un messaggio, una denuncia storica, che può propagarsi ed è giusto che lo faccia. È un film che alza sensibilmente un livello, quello del cinema italiano? No. Solo poco, giusto per una regia di buon livello e per l’argomento scelto, sicuramente più furbo dell’eroismo semi-progressista di un comandante di un sommergibile durante la Seconda guerra mondiale dotato di un imbarazzante accento del nord-est.
Pierre Bayard è un brillante scrittore e psicanalista francese. Le sue opere in Italia non sono tradotte (quel dommage!), ma non per questo sono meno sorprendenti e interessanti, sempre sul filo del paradosso. Come quando ha scritto una guida per lettori frettolosi (Comment parler des livres que l’on n’a pas lus? che si potrebbe consigliare caldamente al ministro della cultura Sangiuliano per evitare alcune incommentabili figure di merda). Bayard, inoltre, ha coniato il concetto di “critica interventista”, ossia una precisa posizione del lettore all’interno del romanzo, che si deve affrontare con spirito attivo e analitico, per trovare quei buchi del racconto e gli eventuali punti ciechi che potrebbero sovvertire l’intera struttura dell’opera. E coerentemente con ciò che sostiene, l’ha fatto con Agatha Christie, dimostrando che il giudice Wargrave non era il vero assassino di Dieci piccoli indiani (La Vérité sur “Dix petits nègres”, 2019), e anche con Shakespeare (Enquête sur Hamlet. Le Dialogue de sourds, 2002), facendo dubitare che il colpevole dell’omicidio del re in Amleto sia l’usurpatore del trono Claudio.
Lo ha fatto anche da poco più di un mese con un grande classico come La finestra sul cortile. Hitchcock s’est trompé (Hitchcock s’è sbagliato), questo il titolo del libro, tratta di fatto il povero “Jeff” Jefferies interpretato da James Stewart come un suo paziente e scava nelle profondità del film per dimostrare che più che un attento osservatore, il reporter bloccato su una poltrona della sua stanza è un maniaco ossessivo che si è inventato un omicidio per riempire la sua estate fatta di inedia. Bayard sostiene che l’unica uccisione conclamata, poiché il cadavere della moglie di Raymond Burr alla fine non si troverà, è quella del cagnetto disturbatore, interrato per evitare problemi accessori; e che tutta l’architettura della tensione sia un costrutto mentale (e quindi visivo) del protagonista, che con l’uxoricidio della finestra di fronte in realtà sta proiettando l’idea negativa del matrimonio, resa evidente dalla resistenza opposta ai tenaci tentativi di sposarlo della fidanzata di sempre, Grace Kelly.
Stuzzicante. Come dire che la madre di Norman Bates è ancora viva e magari è lui a essere stato partorito dalla sua mente. Però c’è un piccolo problema. Quasi insignificante. Ma c’è. Bayard analizza il film nella sua interezza, ma non lo analizza come film, lo analizza come racconto. Le notazioni sulla messa in scena sono pressoché nulle, come se il cinema non avesse un suo linguaggio specifico a fare la differenza nella narrazione. Per capirci, un personaggio non significa la stessa cosa se inquadrato in Primo piano o in Campo medio. Non c’è bisogno di Godard (vedi il finale di Questa è la mia vita) o di Chaplin («La vita è una tragedia se vista in primo piano, ma è una commedia se vista in campo lungo») per saperlo. Si sa, si capisce, basta aver visto due film e incrociarne le sensazioni.
Il problema di Bayard è che, così facendo, ignora le notazioni più strettamente teoriche del cinema di Hitchcock, perché tutti i personaggi di Hitchcock sono vittime del loro stesso sguardo. TUTTI. Mica solo Jefferies, per il quale la metafora è solo completamente scoperta. Per cui, nella misura della critica interventista propugnata dallo stesso autore, verrebbe da dire: grazie al cazzo. Il protagonista è un ossessivo costrutture di mondi dettati dal suo sguardo come lo sono tutti i personaggi di Hitchcock. Cosa fa infatti Cary Grant in Intrigo internazionale se non creare sulla base di una serie di supposizioni l’inesistente Kaplan, dal quale si sente costantemente minacciato? Come fa un onesto e noiosissimo borghese in vacanza come James Stewart ne L’uomo che sapeva troppo a rimanere coinvolto in un caso intercontinentale intricatissimo, con tanto di rapimento del figlio innocente, se una banda di manigoldi non avesse scambiato una morte avvenuta nei suoi pressi per la rivelazione di un preziosissimo segreto? E ancora, l’apice, come farebbe lo stesso James Stewart ne La donna che visse due volte a pensare alla “resurrezione” dell’amata kim Novak se non rimanesse intrappolato nei suoi stessi piani soggettivi, in particolare al museo, quando entra come personaggio nell’inquadratura coincidente in precedenza con il suo sguardo per seguire una donna che in realtà non è Madeleine? (e qua mi prostro e mi scappello davanti al genio di Hitchcock, capace, con le sue intuizioni, di rendere merda tutto ciò con cui si cerca di confrontarlo. Per farvi un’idea veloce, guardate qua).
Può Bayard aver ignorato un’evidenza concettuale così marcata, inficiando tutto il brillante castello costruito per analizzare au contraire un capolavoro di Hitchcock? Evidentemente sì. Rien d’autre à dire.
Il 7 novembre è uscito Abel, il nuovo libro di Alessandro Baricco, del quale ci compiacciamo di registrare la ritrovata forma fisica, dopo l’ultimo difficile paio d’anni. Qual è il motivo per cui lo citiamo qua? Semplice, è un’anomalia, perché Abel è un western. Incurante delle mode (chi se lo caga adesso il western? I nostalgici senza speranza. Ce l’eravamo già chiesti circa un anno fa. Ma anche dei nostalgici non frega un cazzo a nessuno), evidentemente disinteressato al mercato, perché privo di una reale necessità di dover scrivere, come pure ha raccontato su Repubblica, ha preso un genere già definito, che in sé contenga tutti gli altri e ci ha scritto sopra una storia metafisica, secondo dichiarazione d’intenti; navigando a vista, per di più, vedendo cioé quanto una scrittura episodica lo avrebbe portato lontano. Abbastanza, verrebbe da dire, dopo averlo letto praticamente d’un fiato. Duplice premessa: non amo particolarmente il Baricco scrittore, perlomeno non quanto lo apprezzi come narratore e divulgatore dal vivo (uno dei due che apprezzo veramente, ma forse lui di più. O forse pari. Insomma, chissenefrega); e se non sei McCarthy, leggere romanzi western adesso, benché abbia amato tantissimo il genere, mi fa sentire un inguaribile babbone. Per cui eviterei di farlo. Eppure l’ho fatto, questa volta, e anche di gusto. Semplicemente perché è scritto in modo magnifico. E io adoro i libro scritti magnificamente. Per dirvi, ero reduce dalla lettura di L’altro nome di Jon Fosse, fresco vincitore del premio Nobel per la letteratura: scaduto l’interesse per lo stile particolare – di cui si è abbondantemente parlato sui giornali all’indomani del premio, vale a dire flusso di coscienza infinito, mai un punto, scavo psicologico alla radice dell’io più profondo – ossia, dopo una trentina di pagine, ho sperato nelle successive 250 che la vicenda personale del pittore Asle evolvesse in qualche modo, che non girasse continuamente intorno ai soliti tre cazzo di concetti (l’immagine ispiratrice, la solitudine, il doppio e la sovrapposizione), espressi in un mantra ossessivo con un linguaggio depauperato, fatto di dialoghi minimali il cui unico verbo conosciuto è «dice», salvo poi rassegnarsi a veder vorticare il racconto su se stesso come la maionese impazzita, al punto che nelle ultime pagine mi sono trascinato talmente che in questo momento, benché non mi sentiate, vi sto scrivendo con la voce bianca, per i coglioni che ho perso e che non ho più ritrovato. Lo so che state pensando «ah be’, ammetti di non aver capito un cazzo perché il livello è troppo alto per te!». Lo ammetto, ma tenete Jon Fosse lontano il più possibile da me per il resto della mia vita. Acchiappatevelo voi che capite tutto.
E poi prendo in mano Abel perché ho bisogno di leggere qualcosa che mi riconcili con il mondo delle lettere e leggo nelle primissime righe del romanzo:
Oppure, qualche pagina dopo, un altro fulminante incipit di capitolo:
Uno slogan di consapevolezza mitologica che fa molto tardo spaghetti western (con un’ombra di Richard Matheson), quando il genere ha cominciato a ibridarsi con la parodia e la metariflessione sulla valenza eroica dei protagonisti. A cui segue un capitolo fenomenale su una sparatoria descritta con ritmo e dovizia di particolari da action movie, con un’invidiabile capacità di generare l’immagine per costruirvi sopra la tensione che ne deriva, solo evocando con impressionante precisione parole, ipotesi, rapporti, azioni e sensazioni. Probabilmente, per ammissione dello stesso autore, il libro difetta di struttura e organicità, i capitoli sono piuttosto episodici, volutamente sconnessi e dissociati, ma ognuno di essi è un grandioso esercizio di stile, un’immersione in un universo che è insieme infinito, intatto, magico, contemplativo e maledetto, come solo i western che conoscono bene se stessi sanno essere. La scelta del genere, alla fine, è solo un archetipo funzionale a un sapiente uso di lessico e sintassi, capace di prendere forma per creare un’epica distorta, fatta di piombo e sangue, polvere e merda, in quel margine di incontro mistico in cui Pigmalione plasma le fattezze di un Clint Eastwood filosofo e punk. Sto esagerando? Può darsi. Ma ero così soddisfatto, quando l’ho finito, che mi è tornata la fiducia nella letteratura come ipotesi di bellezza in questo mondo ingombro, tragico e disfatto. Troppo poco per salvarlo davvero, abbastanza però per illudersi di farlo. Perché a ben guardare, leggendo tra le righe di un protagonista, l’Abel Crow del titolo, che immagina costantemente la sua fine, questo è un romanzo concepito per esorcizzare la morte, per allontanarla il più possibile da sé puntando su un’ipotesi poetica di eternità. Tanto più in un genere in cui la morte è sempre la compagna inseparabile, una certezza con cui fare sempre i conti, prima o poi.
Bello interessante e ,come sempre, originale. Basta leggere l’analisi che non ho letto assolutamente in nessun’altra recensione ufficiale (ossia apparsa su riviste giornali ecc. cartacei o online) oppure riflessioni personali messe su Facebook per milioni di motivi che ognuno degli scriventi cela in sé(pure io sto messo così) Ti ringrazio anche per le altre 2v segnalazioni perché da Bayard mi terrò decisamente lontano, non est robba per me. Invece in quanto più nonnone senza nipoti che babbone, penso che con calma cercherò il romanzo di Baricco sulle Bancarelle di via Po. lo trovo lo accatto subito. Spero d’incontrarti in presenza al TFF 41, al Centrale sala proiezioni x stampa di sentirti telefono se hai tempo.
VALE (in senso da ex dazeglino: stai bbuono!!!!)
Magari ci vediamo al Festival, Mario, se le nostre visioni coincideranno. Tieni conto che io ci sarò la sera, per cui sarà difficile.
Ma mai dire mai, come diceva Sean Connery all’inizio degli anni Ottanta.
Comunque, da qualche parte, in qualche modo, ce la faremo.
PS: Bayard è in gamba, i suoi libri sono sempre sorprendenti e provocatori: nel caso della Finestra sul cortile ha fatto un errore concettuale in partenza, ma l’indagine che conduce è godibile lo stesso.
belle cosette, as usual.
(sto battendo le mani).
se sei in giro al festival manda un segnale!