The Loneliness of the Long Distance Spectator

The Loneliness of the Long Distance Spectator

Tra i film visti nell’ultima settimana, ho visto anche Halloween Kills, ma ovviamente non è di questo che vi voglio parlare. Perché non vi voglio tediare ma soprattutto perché c’è niente da dire. Il tentativo di Universal e Blumhouse di rinverdire il fasto della serie seguita al successo di Carpenter (quelli che hanno una parola per tutti lo chiamano reboot) non ha prodotto risultati apprezzabili, né nel primo di tre anni fa, né in questo sequel. Faceva strano tre anni fa e fa strano anche adesso che a sviluppare quest’operazione sia stato chiamato David Gordon Green, che nacque regista indipendente (e vinse anche il fu Festival Cinema Giovani nel 2000 con George Washington), si creò uno stuolo di ammiratori soprattutto tra la giovane critica e proseguì in modo assolutamente accidentato (io, personalmente, conto solo due film davvero degni di interesse in tutta la sua filmografia, George Washington e Joe), realizzando una serie di enormi puttanate (Strafumati, Lo spaventapassere, Sua maestà) senza mai diventare un nome veramente affidabile, se non per produzioni dalle poche pretese. Un solo momento interessante, in questo Halloween Kills: l’idea metaforica che il panico provato di fronte al pericolo comune getti un’intera comunità nella paranoia più aggressiva e autolesionista, come troppo spesso accade (anche qui da noi). Idea comunque mal gestita, perché perde per strada quei due spunti di opposizione che pur all’inizio aveva suggerito (lo sceriffo nero che nelle prime scene entrava in aperto contrasto con la folla belluina poi non si sa più che fine faccia, per esempio). Il primo Halloween di Carpenter, nel 1978, aveva costruito un autentico regime di sguardo, fornendo gli assi con cui il pubblico avrebbe dovuto percepire la storia in modo partecipe, condividendo la colpa e rispecchiandosi nell’orrore. Tutto ciò che ne è seguito ha smarrito totalmente questo senso. E l’Halloween di David Gordon Green non è altro che il solito teen horror in cui il BUH! improvviso da dietro l’angolo entra in un deprimente connubio con lo sforzo di rendere le morti il più cruente possibili. Solita roba, insomma.

Mike Myers in attesa dietro la siepe dal 1978 che qualcuno faccia un remake furbo

Ma come dicevo, non voglio parlare di questo. E nemmeno della morte accidentale del direttore della fotografia ucraina Halyna Hutchins (vero cognome: Androsovych), uccisa accidentalmente da un colpo esploso dalla pistola di Alec Baldwin durante le riprese di un altro inutile western giunto oltre il tempo massimo, Rust, che per un attimo mi ha fatto balenare l’idea di scriverne per giocare sulla metafora pressoché definitiva della morte del western, che è già in decomposizione almeno dal 1992, anche se gli appassionati del genere (i reduci tra quelli che non sono ancora morti, ovviamente) si ribelleranno facendo tintinnare le ossa osteoporotiche. Ma poi ho pensato due cose. Uno: prima che (dis)Sequenze comparisse su queste pagine e in questa forma, esisteva come rubrica seria nella versione online di «Cineforum», e aveva fatto il suo esordio nel 2015, alla chiusura della precedente rubrica di cui mi occupavo, Sangue, proiettili e ottani, che trattava degli scampoli e rimasugli western nel cinema contemporaneo. Scampoli e rimasugli sempre più esigui da sembrare coriandoli, per cui, data la difficoltà nel reperire materiale interessante su cui scrivere, avevo deciso di chiudere la rubrica anche perché annusavo il fatto che i lettori potessero essere meno dei 25 odierni (a dire il vero, quando annunciai sull’ultimo articolo l’addio con la stessa sobrietà dell’eroe solitario che si allontana sul cavallo nel rosso in technicolor del tramonto, qualcuno nei commenti protestò pure ― e mi fece anche piacere, ma pensando potesse essere uno degli osteoporotici di cui sopra, diedi comunque il colpo di grazia definitivo). Ergo: se questo blog nasce dalle ceneri di ciò che è stato, perché tornare indietro? Seconda cosa, brevemente: non volevo correre il rischio di associare nessuna delle vaccate che solitamente mi lascio scappare qui sopra a una tragedia di questo tipo. Come direbbe Aretha: Respect. Anche perché la pistola che spara un colpo vero fa sempre clamore, ma se si parla delle condizioni di sicurezza su un set western, nonostante di western se ne facciano sempre meno, mai sottovalutare il pericolo rappresentato dai cavalli.

Cast & Crew di Rust al completo in un momento di ottimismo: Halyna Hutchins è indicata dalla freccia

Per cui la cosa di cui vi voglio parlare, dopo questo preambolo che è più lungo di quello che seguirà, c’entra con Halloween Kills ma solo tangenzialmente. C’entra perché sono entrato nella sala per vedere questo film di cui non ha senso parlare ed ero mortalmente SOLO. Just Me. In una sala da 200 spettatori in una cittadina della prima cintura di una città del nord Italia con una vocazione industriale ormai smarrita (e con un nuovo sindaco, dopo la sbornia dell’uno-vale-uno, ‘anvedi che illusioni che a volte dà la politica del dissenso). Mi era già capitato altre due volte, ma una volta la sala era più piccola, nell’altra occasione si sono scusati ma per un solo coglione (tra l’altro non-pagante) non avrebbero sprecato la corrente della proiezione (perché mi è capitato così tante volte? Vedo talmente tanti film che sul piano statistico diventa possibile o vedo film di merda che nessun altro vedrebbe? Ci penso con calma e poi vi farò sapere). La cassiera di questo cinema magnifico, invece, uno dei soli tre cinema torinesi che ho sperato non chiudesse dopo il lockdown, non Stefania, l’altra, la ragazza sempre sorridente ― Victor Hugo non c’entra, è proprio gentile: ne esistono ― mi ha anche chiesto, mostrandomi sul terminale la pianta della sala, dove volessi sedermi e io non capivo se fosse ironica o mi stesse prendendo amabilmente per il culo. In quel momento si è scatenato nella mia testa in cui furoreggia sempre un vento alla Victor Sjöström un ragionamento perverso ma che doveva essere immediato, più che altro per la mia credibilità di persona dotata di senno, se non proprio per la coda che alle mie spalle, ovviamente, non c’era. Ah, vero: non mi ha chiesto neanche il recapito telefonico perché ero l’unico a poter creare un cluster con me stesso, per cui, in case, sarebbero stati solo cazzi miei. Dunque, il ragionamento in una frazione di secondo: uno dei testi sacri degli studi cinematografici di venticinque anni fa diceva che la migliore posizione in una sala doveva essere la poltroncina posta a una distanza pari a una volta e mezzo la larghezza dello schermo, manco si dovesse tirare un calcio di rigore, al punto che tutti gli studenti, se fossero stati ligi a quel dettame, si sarebbero impegnati in una corsa matta per accaparrarsi quell’unico posto e fare, insieme a tutti gli altri giunti contemporaneamente, una torre umana come i castell nelle feste catalane. Bollandola già allora come un’emerita stronzata, ai tempi dell’università optavo per la spalmata sotto lo schermo, perché faceva tanto cinephile français e t’illudeva di non mischiarti con il resto del pubblico così volgave ed evitarne così i commenti, ma poi assistetti a un film nella Piazza Grande di Locarno, in prima fila, spostato sulla sinistra, con lo schermo largo 26 metri e alto 14, per un totale di 364 metri quadrati e un’arena all’aperto che alle mie spalle vantava un magma di circa 8000 persone che commentava, sì, qualcuno a sproposito, qualcuno invece no, ma che vedevano tutti il film decisamente meglio di me che pensavo fosse una storia di giganti oblunghi, e quindi capii che forse stavo diventando troppo chinephile e allora smisi (è possibile che il film fosse il dimenticabile Prima del tramonto di Stefano Incerti, ma per i motivi di cui sopra non ci giurerei). Meglio mettersi dietro, nelle ultime posizioni, pronto a sgattaiolare via nel buio dei titoli di coda come faccio nei (pochi) festival (uno) che ancora frequento per non incontrare persone con cui poi sarei obbligato a parlare del film? Ma poi, vedendo davanti a me solo posti vuoti, avrei avvertito un enorme senso di horror vacui, che avrebbe potuto anche traumatizzarmi, facendomi sentire l’ultimo uomo sulla terra. E subito dopo una pandemia basta un attimo per farti rivivere i fantasmi dello sterminio di massa. Meglio di no. Mentre la cassiera continuava a sorridermi, ovviamente senza alcuna fretta, ho indicato vacuo un posto sullo schermo, più o meno al centro della sala e poi, una volta entrato, mi ci sono piazzato esattamente nel mezzo, settima fila delle tredici, ottavo posto dei diciassette, manco avessi tracciato le diagonali, in modo da sentire l’energia provenire da ogni lato come se fossi un cazzo di seguace new age o perlomeno uno scoppiato della stessa devastata matrice. Però mi sono allargato sulla poltroncina come se fossi l’uomo vitruviano (calvo) reclinato lungo tutto l’asse dello schienale. Ah-Ahh!

Studenti di cinema accorsi per accaparrarsi la poltroncina distante una volta e mezzo la larghezza dello schermo

E poi, vuoi mettere? Già qui vi avevo decantato i vantaggi della visione casalinga e solitaria durante il lockdown: nessun tamarro che urla durante i primi minuti del film per divertire gli amici o la ragazza-del-primo-appuntamento più acefala di lui perché ha accettato l’invito, nessuna madamina del pomeriggio che ripete ad uso dell’amica coi capelli cotonati e probabilmente dura d’orecchi ciò che avviene sullo schermo, nessun odore stomachevole di popcorn o di fegato alla veneziana (cit.), nessun cellulare che squilla, nessun coglionazzo che risponde e dice con una voce bassa che fa vibrare la poltroncina «non posso parlare, sono al cinema! Ah, sì, dimmi…», nessuno che tenti di seviziare qualcuno approfittando del buio (come successe una ventina di anni fa a una malcapitata durante la proiezione del mattone Ararat) e, di contro, nessuno che urli di aver subito una sevizia durante la proiezione del mattone Ararat prima di fuggire strepitando dalla sala senza lasciare traccia alcuna. Uuuhhh, che bello. Più che pensarmi come l’esperimento sociale occorso all’infermiera Lisa Enroth, unica invitata in sala ad un festival in Svezia durante la pandemia, per un attimo mi sono sentito come il tycoon hollywoodiano che, sigaro in bocca, guarda con malcelata noia il film del suo regista e nel cono di luce fumosa prodotto dal proiettore agita una mano urlando con disprezzo «Cut, son of a bitch!». Ma poi è subentrato il senso di colpa antropologicamente cattolico che pervade tutti noi italiani, come diceva Pasolini, per gli amici della borgata “giacchepalance” (per la sua somiglianza con Jack Palance), e ho cominciato a sentirmi in difetto. Perché tutti nel cinema erano troppo gentili, perché alla fine sono un portoghese legalizzato e non pago, perché quando è arrivato il consueto intervallo per permettere di consumare uno snack non sono sceso al bar ad acquistare i popcorn o a bere la coca cola per poi esplodere in una digestione vulcanica e gratificante, come pur ho sentito fare nella sala uno semipiena di quello stesso cinema. Per di più, tanto per farmi sentire ancora più a disagio nella mia sensazione abusiva, il proiezionista mi ha pure chiesto se avrei preferito tagliare l’intervallo per riprendere la visione e lì è stato il momento in cui ho avuto il delirio di onnipotenza cinematografica. Come un Commodo lascivo e supponente ho alzato la mano sinistra e guardandolo con la coda dell’occhio, senza girarmi del tutto, con un gesto del mignolo ho detto «Prego, procedi pure…» e la proiezione è proseguita.

Come mi sono sentito per un attimo

I puristi della pratica sociale, gente come Dario Romano, Vivian Sobchack, Miriam Hansen o Francesco Casetti, che il tutto ha compendiato e divulgato, potrebbero obiettare: ma il rito collettivo della sala?, l’uniformità delle risposte del pubblico modellata sulle sollecitazioni estetiche della narrazione?, il gruppo sociale che si conforma a un’ipotesi di collettività? E io, pur con tutto il rispetto verso tali insigni studiosi, risponderei senza dubbio con un roboante «ma a me, che cazzo me ne frega?». Il rito sociale, meglio ancora, tribale, lo inseguo allo stadio, in cui è dolce esplodere in un simultaneo urlo di gioia al gol, magari sofferto, magari all’ultimo istante utile, perché lo stadio è il luogo di culto in cui si pratica la fede nella stessa squadra, in cui i valori (sì, calcistici, ma sempre di valori si parla) sono condivisi molto di più rispetto alla comunanza di una sala alla quale sono allineato soltanto per la contingenza di voler assistere nello stesso momento a uno stesso prodotto culturale (e neanche sempre della stessa portata culturale). Andare allo stadio e vederlo mezzo vuoto, come mi sta capitando in questo periodo, mi rattrista profondamente, mi dà l’impressione che la squadra non generi l’entusiasmo necessario al tutto esaurito; trovare il cinema vuoto mi inebria. Perché allo stadio condivido una sofferenza e la successiva gioia (certo, se tifi per la squadra per cui tifo io, che statisticamente vince più di tutti gli altri messi insieme), al cinema vedo qualcosa concentrandomi su me stesso in funzione del prodotto. Quando esco dallo stadio, saluto calorosamente i miei vicini, perché abbiamo partecipato tutti a un’ora e mezza di passione; in una sala cinematografica il mio vicino non lo guardo neanche, non so chi sia e non m’interessa saperlo, perché sono da solo, proiettato verso l’oggetto-film, estraniandomi dal contesto per entrarci e viverlo, perché se non lo facessi non sarei in grado di analizzarlo, dopo. La pratica sociale è solo un riflesso pavloviano ideale, non un effettivo valore aggiunto del cinema, in cui la comunanza è un costrutto teoretico, non un reale scambio, perlomeno nel momento della proiezione (nelle dinamiche di effettivo scambio ottiene certo un risultato maggiore la tendenza di alcuni siti di streaming di far commentare dalla community su una chat ciò che le immagini mostrano sul proprio schermo di casa. Se sei vicino a me in una sala e tenti di commentare in diretta il film rischi invece un manrovescio). Quindi, con buona pace degli esercenti, ben vengano le sale vuote, con me nel centro esatto a godermi, più che il film, la solitudine di un maratoneta del cinema, parafrasando Sillitoe: eccedendo in egocentrismo, già sottolineato dalla collocazione nella sala, mi spiace solo che un’esperienza così fantastica l’abbia sprecata con Halloween Kills e non, come ho sognato subito dopo, con Il gattopardo, Quarto potere o Il padrino. Ma forse sarebbe stato davvero troppo.

PS: è tutto vero tranne le due righe in risposta al proiezionista, al quale ho detto con la necessaria umiltà di fare come pensavano fosse il caso di fare, senza preoccuparsi della mia ingombrante presenza. Però Commodo inserito in quel punto ci stava proprio bene, credo.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.