Poco più di una settimana fa ci ha lasciato Peter Bogdanovich. Nello stesso giorno di Sidney Poitier e non solo. Di Sidney Poitier avrete letto sui giornali, sentito servizi televisivi, visto le sequenze dell’innocuo Indovina chi viene a cena spacciato per un film rivoluzionario sulla questione nera (non è molto più significativo La parete di fango?). Di Peter Bogdanovich un po’ meno, perché, alla fine, pur avendo girato sedici film per il cinema, alcuni documentari (uno, stupendo, su Tom Petty, Runnin’ Down a Dream) e film per la televisione, è ricordato essenzialmente per due lavori, quegli stessi lavori citati e tritati in tutti i coccodrilli che si sono succeduti sulle pagine dei quotidiani: un capolavoro che appare oggi ancora più lontano della nostalgia che pure raffigurava, L’ultimo spettacolo, e un’ottima pellicola, Paper Moon, interpretata da una bambina aspirante diva (Tatum O’Neal), figlia a sua volta di divo (Ryan “Barry Lyndon” O’Neal), diventata poi moglie per una dozzina di anni di un altro divo, questa volta del tennis, John McEnroe. Roba degli anni Settanta, però, fossili cinefili di un tempo che fu. Qualcuno se lo ricorderà anche nei panni del dottor Elliot Kupferberg nella serie che ormai fa parte dell’archeologia televisiva di questi ultimi vent’anni che ci siamo fumati come un mozzicone di sigaretta, I Soprano, con i suoi occhiali dalla montatura di corno che portava anche nella vita reale.
Bogdanovich, però, è stato anche un grandissimo amante del cinema classico, affrontato sempre con un afflato lirico e crepuscolare che nelle sue mani diventava quasi un brand, e un autore di testi che hanno spesso rappresentato riferimenti critici mirabili, basterebbe ricordare quelli dedicati a Orson Welles, di cui divenne anche grande amico, a Fritz Lang, a Howard Hawks, a Hitchcock e a John Ford, al quale invece non fregava di diventare amico di nessuno. Poiché questo è un blog spesso sguaiato, incapace di piegarsi a raccontare cose sobrie e costumate come richiederebbe un coccodrillo, seppur giunto oltre il tempo consentito, e siccome Bogdanovich ha incarnato un amore per il cinema nel quale questo stesso blog e tutti i flussi di pensiero che lo compilano spesso si sono totalmente riconosciuti, pensiamo di fare cosa gradita nel raccontare qualche aneddoto curioso della carriera del buon Peter e non le stesse minchiate che abbiamo letto per due giorni, articolo dopo articolo, come se le avesse scritte la stessa persona ciclostilandole di testata in testata. Due coglioni che non vi dico.
Dunque, episodio uno. Bogdanovich, figlio di un talentuoso pianista serbo, Borislav, era un bambino ossessionato dal cinema e se ne fotteva di una possibile carriera come musicista. Fin da piccolo aveva preso l’insana abitudine da sfigato, tanto per candidarsi a vittima designata degli atti sadici dei bulli della propria classe, di scrivere appunti su tutti i film che vedeva. All’età di dodici anni aveva già raccolto ben 5316 foglietti con i suoi giudizi di merito, tra i quali spiccavano Quarto potere, Il fiume rosso, Un dollaro d’onore (indubbiamente il ragazzo aveva gusto). In quanto ossessivo, Bogdanovich è anche un po’ pedante e si infiltra sui set come giornalista per vedere i grandi maestri girare e apprendere i loro segreti. La sua carriera inizia però con Roger Corman, che alla fine degli anni Sessanta era una delle tre possibilità che avevi per poter diventare regista, come ho ciclostilato io stesso praticamente tutte le volte in cui ho parlato seriamente di cinema americano degli anni Settanta, cosa che a questo punto della mia vita mi piacerebbe non fare più ma che probabilmente dovrò fare almeno ancora una volta (le altre due possibilità erano: studiare cinema all’università come Scorsese, Coppola, De Palma, oppure fare la gavetta nelle serie televisive, come Spielberg o Altman). Corman, che per chi non lo sapesse era il profeta del low budget, anche per i tempi celerissimi di realizzazione (una pellicola girata per più di una settimana era considerata un kolossal), lo promuove regista della seconda unità per il suo film del 1966, I selvaggi. I selvaggi non solo in qualche modo anticipa e ispirerà Easy Rider (perché ci sono i moticiclisti e perché Peter Fonda ne era il protagonista, mentre Dennis Hopper bazzicava nella scuderia Corman tra una canna e un acido), ma è anche il film in cui Corman, tirchio come al solito, decide di utilizzare dei veri Hell’s Angels per interpretare la banda di motociclisti su cui è incentrato il film. Come forse saprete, gli Hell’s Angels non sono proprio la stessa cosa del gruppo Caritas della parrocchia e allora, durante le riprese, cominciano a montare una rabbia repressa perché iniziano a capire che il ritratto che Corman sta dando del loro gruppo non è dei più lusinghieri (quanto ci misero a capire una cosa così evidente non è dato sapere). Andavano a protestare e Corman li rimpallava abilmente. Ma tutti vedevano con sempre crescente sospetto quello che stava al suo fianco e li guardava in silenzio, al punto che cominciarono a pensare che forse lo stronzo fosse lui e non Corman e quindi lo riempirono di botte, facendogli davvero male. Quello accanto a Corman, neanche a dirlo, era Bogdanovich, come a dimostrare che l’abitudine di schedare i film visti non fosse pericolosa solo a scuola.
Episodio due. Bogdanovich s’innamora del romanzo L’ultimo spettacolo di Larry McMurtry, uno dei mostri sacri della narrativa western e padre dell’attuale trobadour americano James. Vuole portarlo al cinema per realizzare il suo secondo film dopo Targets, il suo esordio su un serial killer che spara da una torre sulla città, ispirato alle vere gesta di Charles Withman, un folle che dopo aver ucciso la moglie e la suocera si mise a sparare all’Università del Texas uccidendo un fottio di persone. L’indipendente BBS (gli stessi di Easy Rider ma con un nome diverso) glielo produce, sottopagandolo e obbligandolo ad almeno una scena di nudo – sarà di Cybill Shepherd, colei che andrà al cinema porno con De Niro in Taxi Driver e la donna per la quale Bogdanovich lascerà la moglie Polly. Bogdanovich vuole come attore Ben Johnson, all’epoca 53enne e da sempre amico di John Wayne, che inizialmente rifiuta perché in sceneggiatura è prevista la parola «pisciare» e non vuole che la mamma lo senta dire tali sconcezze (vero, non è la solita stronzata di questo blog – ops, sorry, Mrs. Johnson). Fortunatamente accetterà, grazie anche all’intercessione di John Ford, che Johnson lo conosce bene, e vincerà un Oscar. L’altro Oscar del film lo vince Cloris Leachman, che per capirci è la Frau Blücher di Frankenstein jr (segue nitrito)! Orbene, per quanto ambizioso e cinefilo, Bogdanovich è pur sempre al suo secondo film e la gavetta l’ha fatta, come abbiamo detto, su set in cui si girava in fretta e furia per questioni di budget risicato, e quindi, quando deve realizzare la scena in cui Timothy Bottoms e Jeff Bridges si scazzottano in mezzo alla strada, si trova davanti a un problema. Voi m’insegnate che una qualunque scena d’azione che si rispetti, a meno che non si faccia avanguardia, si gira alternando i piani ravvicinati dei due contendenti con quelli più ampi, detti d’insieme (in gergo Master Shot), che contestualizzano l’azione. Nella zuffa de L’ultimo spettacolo no: la macchina da presa è a ridosso dei personaggi, sui loro volti stretti a muso duro, sull’alone del loro testosterone, sulla bottiglia che s’infrange sulla faccia del povero Timothy Bottoms, come se lo spettatore fosse direttamente implicato nella scazzottata. Una scena che fu citata mille volte come lodevole esempio di uno stile cinematografico Seventies che si stava rivoluzionando, quando in realtà, a distanza di tempo, e pur al netto di un film stupendo, sarebbe stato più giusto ascrivere il risultato all’inesperienza di Bogdanovich nelle scene d’azione piuttosto che a una felice intuizione, prova ne sia che per correggere le aritmie del montaggio del film fu chiamato l’esperto Donn Cambern, che diede una forma compiuta al tutto.
Episodio tre. Parallelamente a L’ultimo spettacolo, Bogdanovich prepara una lunga intervista al suo mito John Ford, poi diventata documentario (Directed by John Ford) e poi ancora libro. John Ford era piuttosto anziano, sarebbe morto un paio d’anni dopo, ma conservava gran parte dello smalto da Irish son of a bitch che aveva sempre avuto. Avete presente se per qualunque motivo si tentasse d’intervistare un monumento? Parlandone cioè fuor di metafora, intendendo proprio un monumento di marmo a cui fare le domande. Ecco, è quello che più o meno accadde. Bogdanovich, animato dal suo candido entusiasmo cinefilo e da quella stessa competenza nerd che lo accompagnava fin da quando vergava i suoi foglietti d’appunti sui film preferiti, era quasi commovente per la devozione e il rispetto con cui rivolgeva la domanda a Mr Ford, circostanziandola e indorandola come solo i ferventi ammiratori (e i leccaculo) sanno fare. Ma Ford, faccia di cazzo come pochi, blasé fino al midollo, Monument Valley sullo sfondo a dotarlo di un’aura olimpica, si limitava a rispondere con evidente fastidio attraverso monosillabi, fonemi gutturali, richieste di andare oltre, lasciando intendere quanto fosse inutile e sprecata quella stessa domanda. Un esempio? Fatevi un’idea: «Mister Ford, lei ha realizzato un film, I tre furfanti, un film sui cowboys con un grande paesaggio sullo sfondo. Il paesaggio nei suoi film è fondamentale: come ha fatto a girare tutto questo?» «Con una cinepresa». Se non ci credete, guardate qua sotto. Sublime, anche se frustrante.
Episodio quattro. La tragedia. Sul set di …e tutti risero (1981), Bogdanovich s’innamora di Dorothy Stratten, che era la Playmate del 1980. Dorothy aveva solo vent’anni e aveva un compagno maquereau chiamato Paul Snider, che l’aveva scoperta, accompagnata nell’inizio della sua carriera di starlet e che, in quanto pappone, dipendeva completamente da lei sotto il profilo economico. Dorothy informa Snider che lo avrebbe lasciato, anche se Snider sa già tutto perché l’ha fatta seguire da un detective privato, e si trasferisce nella villa di Bel Air di Bogdanovich. Snider non ci sta, non ha mai lavorato in vita sua e non vuole perdere la sua gallina dalle uova d’oro. Invita Dorothy nella sua abitazione per discutere, lei arriva con mille dollari, pronta a comprare la sua libertà, ma Snider la lega a una sedia e dopo aver abusato di lei le spara in pieno volto con un fucile calibro 12, per poi suicidarsi allo stesso modo subito dopo. Bogdanovich è ovviamente distrutto, in seguito affermerà che fare o non fare film da quel momento in avanti non gli sarebbe più importato. …e tutti risero, malgrado Audrey Hepburn e Ben Gazzara nei ruoli principali, dapprima non incontra nessuno disposto a distribuirlo, poi, quando lo stesso Bogdanovich s’impegnerà finanziariamente per consentirne l’uscita, diventa un fiasco che di fatto gli compromette la carriera. Inevitabilmente, il fantasma aleggerà per sempre: scriverà un memoir sull’accaduto, The Killing of the Unicorn, e otto anni dopo sposerà la sorella minore di Dorothy, Louise, a cui sarà legato anche dopo il divorzio da una grande amicizia. Ironia della sorte, la copertina di Playboy con Dorothy playmate del 1980 uscirà due mesi dopo la sua morte, nel numero di ottobre. Da quel momento Bogdanovich smise di parlare con Hugh Hefner, editore della rivista. La vicenda fu raccontata poi nel 1983 nell’obitoriale Star 80 da quel grandissimo regista ingiustamente sottovalutato che fu Bob Fosse (chi lo cita mai parlando degli anni Settanta americani? Nessuno. Molto male. Forse perché Fosse era soprattutto un coreografo? Non mi avete convinto).
Anche questo era Peter Bogdanovich. Non è il ritratto celebrativo che si fa in questi casi, ma come avrete capito questo blog fa un po’ il cazzo che vuole e noi preferiamo ricordarlo così, raccontandoci cose.
So long, fellas.
Aneddotica molto affascinante. Proprio quella di cui è affamato chi ama il cinema e che nutre le leggende, anche sporche, “materializzando” non solo l’uomo ma l’arte. Bellissimo. Thanks!
be’, buon anno, anche se in ritardo: con un brindisi. 😉