A Torino non succede mai niente. MAI. Sono stato a Napoli, recentemente, e lì il Tg regionale dura 40 minuti. Di notizie dense e drammatiche. Qualcuna anche sconvolgente. Qua per arrivare al canonico quarto d’ora, dopo il tram in ritardo per una macchina parcheggiata male, c’infilano l’intervista al priore dell’abbazia di Novalesa, l’intervento dell’assessore di Carmagnola in vista della sagra del peperone e l’ennesima iniziativa dell’associazione commercianti di via Di Nanni riguardo alla via pedonale. Meglio così, eh. Mica mi lamento. Constato.
Così, quando mi arriva nella casella di posta l’avviso dell’arrivo di Martin Scorsese in città per il ritiro del premio Stella della Mole, lo leggo due, tre volte. Una volta anche il giorno dopo. Davvero? A Torino? Non a Milano o a Roma? Ho letto bene? Be’, Stella della Mole, per forza qua dev’essere. E pensandoci, mi fa la stessa sensazione che deve aver fatto un paio di millenni fa a un abitante di Gerusalemme quando ha visto entrare sul dorso di un asino quel noto personaggio che fu poi protagonista di un film dello stesso Scorsese considerato blasfemo.
Pazzesco. Non siamo mica abituati, da ‘ste parti. Il glamour è un’invenzione dei milanesi, i bogia nen non sanno come posizionarsi, quando succede (basterebbe dare un’occhiata a com’erano vestite le autorità e le rappresentanze alla serata di ieri, 7 novembre, quando al Teatro Regio la Stella della Mole gliel’hanno allungata nelle mani). Fatto sta che Scorsese, nome deformato dagli americani che quando il nonno arrivò in America da Polizzi Generosa, Palermo, non capirono che si chiamava Scozzese (a mio nonno Alfonso a Ellis Island cambiarono il nome in Alfano, come Angelino), a Torino non solo prende il premio che pareggia il numero degli Oscar vinti (per The Aviator, a riprova della nostra vecchia teoria sull’Academy; ma non vi stupisca: Welles e Hitchcock non l’hanno mai vinto. Vi pare normale?), ma tiene anche una Masterclass, che è il nome figo per l’incontro con il pubblico di una volta. Parbleu! Qua si fa impegnativa.
I biglietti vanno a ruba in pochissime ore. Io che vivo in un ritardo perenne, ovviamente li ho mancati, ma il Museo del cinema mi è venuto in soccorso organizzando una live via zoom per la stampa, anche se ufficialmente dal 2015 non faccio più parte dell’Albo e non ho mai avuto grande stima per la categoria (e comunque, dopo essere rimasto fortemente deluso dai cowboy, sono ancora alla ricerca di una categoria da stimare. Forse i medici delle zone di guerra?). In pratica, ho assistito alla Masterclass come se avessi guardato Scorsese all’acquario di Genova. Così.
Non male, dài. Non male neanche lui, che è vero che è artisticamente immortale, ma ha pur sempre 82 anni. Ad arrivarci! Arrivarci facendo grande cinema, poi, e avendo ancora gli stimoli per scovare nuove storie possibili, è ancora più difficile. Ma lui è Scorsese e… com’è che diceva Sordi ne Il marchese del Grillo? Vabbe’, andiamo oltre. Il buon Martin è sceso in mezzo al pubblico e lo ha illuminato con il suo verbo. Ha parlato di un sacco di cose, ovviamente, incalzato dal direttore (uscente) Mimmo De Gaetano e da Grazia Paganelli, partendo dal suo primo film, Chi sta bussando alla mia porta?, passando per la temperie culturale della sua giovinezza e la libertà dagli Studios che gli esempi di Cassavetes, l’underground, Mekas, le Nouvelle vague di un sacco di paesi, Francia in testa, le indipendenze newyorchesi mostravano finalmente possibile, fino a giungere alla sequenza del radiodramma che chiude Killers of the Flowers Moon. Un’intera carriera in un’oretta e mezza o poco più. Ma a noi del resoconto fedele non interessa un bel niente, per quello vi basterà comprare «La Stampa» o leggere domani le pagine torinesi della «Repubblica» o del «Corriere» e troverete sicuramente tutto. E siccome, come vi ho detto, mi sono dimesso dall’Albo, niente riassunto.
Però mi voglio soffermare su un aspetto, che è quello che mi ha incuriosito di più; il resto è roba risaputa con cui Scorsese riempie abilmente i suoi fantastici documentari sulla Storia del cinema e che in qualche modo rientra anche nell’ispirazione di molti dei suoi film più celebri. A precisa domanda, Scorsese ha spiegato accuratamente che lo stile di ogni film e il tessuto emotivo che ne scaturisce è sempre dettato dalla caratterizzazione del personaggio. BUM! Bellissimo. Non quindi da idee cartesiane preconcette o da una grammatica che mira a imporre uno sguardo d’autore, ma dall’eventualità narrative di un personaggio in trasformazione. Vediamo un attimo. Ha preso come esempio Taxi Driver, un film qualunque (che cazzo di capolavoro!). Lui e Paul Schrader (che assomiglia in modo impressionante a mio cugino Tonino, anche se Tonino s’è occupato di ascensori e non di regie e sceneggiature) sapevano che non sarebbero mai riusciti a restituire l’alienazione di Travis con le parole, che queste sarebbero state insufficienti o, se invece fossero state ridondanti, stucchevoli. E allora hanno iniziato a costruire le immagini sulla sagoma di De Niro, sui suoi movimenti e sull’energia introiettata all’interno che ne scaturiva. Tutto il disorientamento del personaggio doveva essere comunicato al pubblico esclusivamente dalla sua prospettiva, dal suo punto di vista (ad esempio, vi sembra abbastanza disorientante rendere così tanto protagonista un’aspirina? Forse solo il caffè di Godard in Due o tre cose che so di lei).
Oppure, sempre in Taxi Driver, ha continuato Scorsese, la scena in cui Travis richiama al telefono Cybil Shepherd dopo averla portata come primo appuntamento in un cinema porno per poi meravigliarsi che sia rimasto anche l’unico, di appuntamento (non imitate niente di quello che fa Travis, anche se siete innamorati del personaggio o pensate che Trump sia un pericolo per il mondo. In America non sta andando benissimo). Coerentemente con quel cinema libero che propugnava riferendosi al fermento culturale dei suoi anni giovanili, la macchina da presa si sposta dal corpo di Travis e va verso destra a inquadrare il corridoio. Vent’anni prima avreste atteso qualcuno da quel corridoio, una presenza o una minaccia, un qualche evento che si sarebbe dovuto verificare solo per aver “creato lo spazio per farlo accadere”, altrimenti il movimento non si sarebbe in alcun modo giustificato. Nel corridoio di Taxi Driver, invece, la macchina da presa si muove indipendentemente dal movimento del personaggio, lo fa in autonomia perché stare su di lui, dice Scorsese, «sarebbe stato troppo doloroso», visto il rifiuto della ragazza. La macchina da presa si allontana con un movimento pietoso, per andare oltre e lasciare Travis allo sconforto e alla solitudine. Al suo senso di vuoto e alla conseguente follia.
Non è che il resto della serata non sia stato interessante, ci mancherebbe, anche l’idea che l’utilizzo della musica nei suoi film abbia avuto origine dalle immagini di quotidiana violenza che vedeva da piccolo nel Lower East Side o sulla Bowery e che associava a un brano che fuoriusciva da una delle radio che vomitavano canzonette a tutto volume dai palazzoni antistanti è un’idea inebriante. Come se uno vedesse una mostra fotografica di Weegee mentre nella sala espositiva si sente la musica dell’orchestra di Tommy Dorsey (e a ben pensarci, è proprio così. Ma con un tocco di grande ironia). Così come ritaglio dall’ora e mezza anche la citazione che forse sarà passata inosservata di quel grande film che è Blast of Silence di Allen Baron, nominato come mirabile esempio di indipendenza newyorchese (fu fatto con 3000 dollari) e che è un noir ingiustamente ignorato malgrado le atmosfere soffocanti, il ritmo sorprendente e la violenza visionaria.
A me sarebbe bastato solo sentire tutto questo per essere felice e invece ho avuto una teofania. Certo, l’ho avuta attraverso uno schermo del computer in un collegamento zoom, ma anche l’eclissi di Sole, nel suo splendore, va vista attraverso un vetrino. Se no ci si acceca. Mi consola questo. E la grande lezione di cinema a cui ho assistito. Con una postilla, però fondamentale: in tutta l’ora e mezza in cui ha parlato, è emerso il solito grande e viscerale amore per il cinema e per la sua storia. Scorsese è Scorsese, lo sappiamo, ma pur con tutto l’amore espresso e la diretta connessione con quanto da lui realizzato, non ha mai detto, neanche per sbaglio, «il mio cinema». Per Scorsese il cinema è il cinema, non c’è un suo cinema, ci sono solo vari modi di farlo, più o meno riusciti.
Una lezione anche questa.
La messa è finita, andate in pace. Rendiamo sempre grazie per quello ha fatto.
Scorsese era meglio prima. Comunque giusto premiarlo sempre
Sicuramente avrà fatto scorpacciata di funghi …almeno quello