
Immagino vi siate ritagliati quelle quattro orette di tempo per guardare The Brutalist, e avete fatto benissimo, poiché è sicuramente uno dei film più importanti dello scorso e del presente anno (dipende dalla latitudine della distribuzione). Ma non è proprio questo quello di cui vi voglio parlare. Lo farei, perché meriterebbe una trattazione lunga e distesa, ma non lo farò, mi limiterò solo a un’indicazione di 10 righe o poco più in coda a questo post. Ne approfitto quasi unicamente come pretesto. Avete presente i dialoghi in ungherese tra Adrien Brody e Felicity Jones? No, perché non avete ancora preso le ore di permesso per vedere il film? Ok, il protagonista, un architetto di orgine ungherese immigrato negli Stati Uniti dopo la deportazione a Buchenwald, interpretato da Adrien Brody, oltre all’american english che parlerà per esigenze narrative (del film) e per sopravvivenza (nel film), parla ovviamente anche ungherese, la sua lingua madre. Ora, io non so l’ungherese, ma uno dei momenti di meraviglia di The Brutalist, a quanto dicono gli ungheresi o i giornalisti che hanno interpellato dei veri ungheresi cultori della loro lingua, è la pronuncia perfetta dei due attori. Senza errori e senza sforzi.
Adrien Brody e Felicity Jones sono sicuramente due ottimi attori, lo sappiamo, ma il merito è soprattutto di Respeecher, un software di una ditta ucraina che corregge la a volte problematica inflessione di chi parla o recita in una particolare lingua. Ovviamente s’è scatenato il dibattito. La correzione fonetica dell’ungherese fatta dall’Intelligenza artificiale fa di Brody e Jones due artisti da criticare al punto da discuterne i premi presenti ed eventuali, visto che il film di Brady Corbet è candidato un po’ ovunque, Bafta e Oscar compresi (Brody ha già vinto il Golden Globe)? Oppure l’AI è un valido ausilio per lavori sempre più complessi che aspirano alla perfezione assoluta? Cosa ne pensate? [Faccio solo gentilmente notare, se non avete visto il film in lingua orginale, che al di là della correzione artata della pronuncia, l’hungarianenglish di Brody e Jones è davvero pazzesco] Sappiate che in quello che seguirà non prenderò una posizione, perché non ho una vera posizione da assumere. Non mi scandalizza e non mi esalta, è solo una normale evoluzione. Forse ci siamo dimenticati delle discussioni all’inizio del nuovo Millennio sulle integrazioni digitali che riempivano gli schermi di presenze virtuali, passando dal carrello + dolly all’indietro della stazione di Atlanta in Via col vento al Colosseo esaurito in ogni ordine di posti del Gladiatore o alle navi degli achei nell’Egeo in Troy. Anche là indignazione, urla disperate sulla morte del profilmico, sulla degenerazione della creazione numerica e poi, progressivamente, l’eco si è spenta e ora è ritenuta assolutamente normale. Anzi, se non c’è, ci si incazza pure.

Però, pensare che un problema etico non si ponga è eludere il problema. Mark Hamill fatto ringiovanire dalla Lucasfilm per la serie Mandalorian grazie all’opera dello youtuber Shamook, autore di alcuni sorprendenti video deepfake; la moda del de-aging, diventato celebre grazie al ringiovanimento di De Niro e Joe Pesci in The Irishman di Scorsese ma già utilizzato nel 2006 per togliere anni dalla loro sessantina a Patrick Stewart e Ian McKellen nella sequenza di apertura di X-Men: The Last Stand e celebrato recentissimamente sui volti di Tom Hanks e Robin Wright in quel capolavoro un po’ troppo ignorato che è Here di Robert Zemeckis. Laddove il cinema usava protesi, lattice modellato e parrucche per creare un’immagine credibile della giovinezza, la tecnica digitale ha fornito ai registi una nuova serie di opportunità molto più fotorealistiche (mi perdonerete l’ossimoro). È l’artigianato che lascia il posto al virtuale, ma il principio finzionale è coerente. Più o meno.

Diverso è il discorso se questa stessa realtà, modificata, ma chiara nei suoi principi, viene occultata per trasformare la base di partenza. Al di là del cinema, di cui discutiamo con serietà (non qua, ovvio) e intensa partecipazione emotiva ma pur sempre di cinema stiamo parlando, il pericolo è, banalmente, quando si inventano notizie, dichiarazioni o, peggio, quando si revisiona artificalmente la Storia. Nel cinema non siamo ancora a questo punto, le manipolazioni interessano la fiction e sono palesemente leggibili, anzi in alcuni casi (vedi Bastardi senza gloria) spiace quasi che non abbiano un concreto effetto retroattivo. Il problema riguarda soprattutto l’atto creativo e l’attribuzione dei relativi meriti, più che l’eventuale accettazione dello spettatore, ancora intento a sdegnarsi solo per mancanza di abitudine.

È uno dei due motivi principali (l’altro sono sempre i soldi, non più conformi allo sfruttamento perpetuo delle piattaforme streaming) per cui dal 2 maggio del 2023 gli sceneggiatori americani hanno scioperato: ora, grazie all’AI, è possibile, anzi, addirittura auspicabile, analizzare in un solo clic tutti gli script mai realizzati e idearne uno nuovo e originale, mai scritto prima ma che si basi su tutti gli altri senza incorrere nel reato di plagio. I vantaggi per l’industria sono evidenti: carico di lavoro quasi azzerato, rischi di azioni legali pressoché nulli, velocità di esecuzione di fatto istantanea, innata capacità di sussumere l’intera Storia del cinema (e delle serie tv) facendola evolvere in un soggetto che ha in sé tutte (tutte!) le altre storie mai create, ponendosi oltre. Vertiginoso. E pericolosissimo, se si pensa che degli 11.400 sceneggiatori iscritti alla Writers Guild of America (WGA) la stragrande maggioranza già prima si barcamenava con l’equivalente di uno stipendio da impiegato appena assunto (e alcuni anche con molto meno). Impiegato italiano, ma costo della vita losangelino, sia chiaro.
Non tutti però pensano che l’AI nel cinema sia il male. Paul Schrader ha paragonato il momento in cui ha realizzato che ChatGPT fosse più intelligente di lui (di lui che ha scritto Taxi Driver, vi ricordo) a quando Kasparov nel ’97 perse con il computer Deep Blue, magnificandone le enormi potenzialità, stupendosi per la velocità e raccontando di aver chiesto consiglio per una sua sceneggiatura arenatasi tre anni prima e averne ricavato dei suggerimenti e delle idee miracolose, migliori di qualunque osservazione di un dirigente degli Studios. Ovvia la conclusione: perché sforzarsi per mesi di trovare una buona idea se l’AI potrebbe trovartela in pochi secondi? Apriti cielo. Poi se lo scrivi su Facebook, ognuno si sente legittimato a svuotare l’intero pitale di merda sotto pressione che cova dentro di sé.
Di fatto, vi dovete chiedere se siete più romantici o pragmatici. Se pensate che la creazione artistica discenda unicamente dall’artista demiurgo che tutto forgia grazie al suo talento oppure se per voi, ferma restando l’importanza creatrice, il cinema sia una questione industriale, per cui il risultato, alla fine, giustifica il mezzo. I primi inorridiranno, i secondi troveranno lo spiraglio di un’ampia giustificazione.

A questo punto apro una piccola parentesi per un aneddoto personale che è anche una mezza confessione di immoralità. Qualche tempo fa, costretto a scrivere una cosa la cui committenza mi aveva contrariato parecchio, ho deciso che l'avrei fatta utilizzando l'AI e che non ci avrei perso nemmeno mezz'ora. Per sdegno, più che altro. Certo, obietterete voi, avrei potuto mandare a fanculo la committenza, cosa che di solito non mi è così tanto aliena, ma questo non era il caso, sarebbe stata proprio protervia gratuita, fidatevi. Ne approfitto, autoconvincendomi, di poterne fare anche un interessante case study. Modello il prompt, lo rimodello, lo correggo per affinarlo in base alle mie esigenze e alla fine mi ritrovo con 15 stesure diverse di quello che avrei dovuto scrivere e mi facevano cagare tutte e 15. Non ce n'era una – una! – che mi potesse far essere almeno possibilista. Corrette nella forma, sbiadite nell'interpretazione, emaciate nell'analisi e tutte irrimediabilmente fiacche, stilisticamente piattissime. Senz'anima alcuna. Come tentare di avere un rapporto sessuale con il robot domestico di Io e Caterina (ve lo ricordate il film di Sordi? Questo e non Her di Spike Jonze perché almeno là la voce era di Scarlett Johansson, che pur qualcosa è. E nemmeno l'attuale Companion, ora nelle sale, perché in questo caso, Sophie Thatcher, potrebbe non andare per niente male). Morale della tentazione immorale: dopo aver perso almeno un paio di giorni per trovare un'oscena sintesi tra le 15 insoddisfacenti versioni, mi sono deciso e in due ore e qualcosa ho scritto ex novo quello che poi ho consegnato e che per di più mi rendeva piuttosto soddisfatto. Perlomeno in confronto. Ma forse il mio è stato solo un moto di vacuo orgoglio.
Non solo sceneggiature o idee per arricchirle, sia chiaro. Il dominio dell’AI è ormai spaventosamente ampio, totalmente invadente, al punto che la domanda giusta da farsi è: quanto è giusto, quanto figlio del suo tempo è rimanere oltranzisticamente ancorati alla propria posizione romantica, ignorando velocità e praticità per abbracciare un principio di certa attribuzione dell’opera? (Sempre ammesso che un film abbia una chiara paternità d’autore: chi lo era durante la Hollywood classica, tanto per dirne una?) E perché scandalizzarsi adesso, se anche la stessa immediatezza fotografica, il cui movimento è l’essenza del cinema, è da almeno vent’anni che viene corretta nei colori e nelle tonalità in postproduzione per essere resa impeccabile? È tanto peggio di un software come l’AI Powered Media Workflow dell’azienda Strada che crea automaticamente l’editing con uno stile programmato, basandosi su un archivio storico di montaggio potenzialmente infinito? I vostri montaggi su CapCut di cui fate gran vanto sui social, non funzionano con lo stesso principio?
Non tutto è perfetto, fortunatamente: i controcampi sono calibrati perfettamente nelle scene a due, meno con più personaggi da equilibrare volumetricamente nel piano. D’altronde anche la Tesla ogni tanto fa un incidente perché non registra un ostacolo. Ma risolveranno presto, non dubitate. Come non esserne certi, se circolano alcuni prodigi come ENO di Gary Hustwit, un documentario generativo su Brian Eno che grazie a un archivio perennemente attivo di immagini a cui attingere si rinnova a ogni proiezione e che quindi non è mai lo stesso film (e Gary Huswit è ancora l’autore o solo il facilitatore?).

Sfido chiuque, d’ora in avanti, a dire «l’ho già visto». Ed è inevitabile, non oggi ma certamente in un imminente futuro, che muteranno anche le modalità di ricezione e quindi di proposta. Se non nelle sale, più conservatrici per esigenza di dispositivo, di sicuro sulle piattaforme di streaming. Un primo esperimento è stato nel 2018 Bandersnatch, episodio fuori serie di Black Mirror, ma il futuro è già scritto: prodotti interattivi che diventino un’esperienza e non una visione comunque passiva, per una storia che si modifica sulle scelte dello spettatore, operate con il telecomando o con un semplice comando vocale a ogni plot point, un sogno già sondato con altri mezzi da Alain Resnais in Smoking/No Smoking o da Peter Howitt in Sliding Doors (ma, come tutti i cani che si mordono la coda, è giusto citare Howitt che un autore a pieno titolo non è mai diventato?).
Ma queste sono solo suggestioni a cui ho cercato di dare un po’ di organicità e di ordine partendo da un dialogo con una perfetta dizione ungherese che così perfetta avrebbe potuto anche non essere. E il bello è che, ovviamente, in qualunque caso non me ne sarei mai accorto.
