Sugar Baby and Bitter Life

Sugar Baby and Bitter Life

In questa tarda primavera in cui dolce è il naufragar nell’ozio canicolare, un paio di titoli di rilievo tra tutti gli altri, spesso inutili: Shiva Baby e The Killing of Two Lovers.

Immagino che molti di voi abbiano presente cosa sia una famiglia meridionale. Quanto possano essere invadenti i parenti che ti si avvicinano quatti quatti chiedendo notizie sul tuo futuro, lavorativo e sentimentale, che ti danno consigli perché l’unico percorso da seguire è quello che loro hanno predisposto per i loro figli e che cominciano a nutrire seri dubbi sul tuo stato mentale perché la risposta evasiva ricevuta non si conforma a ciò che si aspettavano. Bene, prendete quello che può succedere durante il matrimonio di un cugino o in una visita a nonna a Ferragosto in una qualunque famiglia campana o pugliese, calabrese oppure siciliana (per dire, a me capitava in Campania, perché in Puglia nessuno pareva preoccuparsi realmente del futuro come eventualità) e trasponetelo su una famiglia ebrea newyorchese: quello che avrete passerà da uno sketch comico vernacolare a una commedia di costume di ascendenza letteraria (chiedete agli scrittori o a qualunque stand up comedian americano di origine ebrea, cioè, a quasi tutti, perché ci hanno edificato sopra le loro intere carriere).

Il cast di Shiva Baby con la regista esordiente, Emma Seligman, in basso

Ed è su questo aspetto che si fonda un piccolo gioiellino che rischia di perdersi tra una fine di stagione che in realtà, con le riaperture, è pur sempre un inizio, e le proposte in streaming, le quali, se non sono pubblicizzate a tappeto, si vanificano direttamente negli anfratti dell’algoritmo, sempre pronto a consigliarvi sulla base dei vostri gusti, se non fosse che, conoscendovi solo de relato, lo stesso algoritmo, principio primo di ogni scelta non fatta da voi, spesso vi porta completamente fuori strada (e nessuno va così fuori strada come Netflix, ve l’assicuro). Il gioiellino in questione è Shiva Baby, opera prima di Emma Seligman che espande un suo corto di tre anni fa e che si svolge durante un ricevimento funebre (uno Shiva, appunto) in quel di Flatbush, Brooklyn, New York. La protagonista, Danielle, è splendidamente interpretata da Rachel Sennott, che rende perfettamente tutta la gamma di sensazioni che intercorrono tra l’apparente sfrontatezza e il soffocato candore. Lei è la Shiva Baby del titolo, allusione alle Sugar Baby, le minori o pressoché tali che vendono la loro compagnia a uomini più maturi (detti Daddy; papi, in pratica) in cambio di regali che non sono una tariffa, ma poco ci manca. Le “Ruby rubacuori” e le “olgettine” di qualche anno fa, quando il problema dell’Italia era ancora la figa. Eh, bei tempi.

Dunque, il film inizia con un preambolo esplosivo, perché la ragazza del titolo sta smaniando dal piacere o dalla finzione di esso mentre smorza una candela con un tizio. Si riveste in fretta, prende il cachet per la sua partecipazione e preannuncia il suo impegno successivo al tizio di cui, fino a poco prima, era aderente copula. È un funerale pomeridiano, un funerale yiddish, che sul piano culturale è già di suo una miccia accesa su una polveriera, pensate a cosa può succedere se in quello stesso funerale arriva, con tanto di moglie Wasp bionda e perfettissima e figlio fresco di conio, il tizio che prima fungeva da candela. Ciò che rende Shiva Baby una commedia scoppiettante è la qualità della scrittura, nell’assenza quasi totale di uno struttura che non sia quella della scansione secondo i colpi di scena che si avvicendano sullo schermo. Ritmo indiavolato, botta e risposta, sapiente movimento dei protagonisti nello spazio circoscritto e utilizzo funzionale dei topoi culturali per creare situazioni d’attesa e di relativa suspense pronte a deflagrare in grasse risate. Ma grasse solo in apparenza, perché dietro la satira del costume c’è il bisogno di rivolgersi verso l’altro, l’ardua ricerca di una propria identità (anche di genere) ancora in formazione, la necessità di recidere cordoni nell’impossibilità antropologica di essere davvero autonomi e indipendenti. Perché alla fine Shiva Baby, pur con il suo stile ripiegato su una sorta di kammerspiel in cui la cinepresa si muove con abilità ma con un ritmo ancillare rispetto ai dialoghi, è una commedia sulla solitudine e sul bisogno di un contatto e sulla disagevole strada da compiere affinché quello stesso contatto giunga a compimento, malgrado gli errori, le false piste e le pericolose soste fuori strada a contemplare troppo da vicino il fondo del baratro.

Greetings from Kanosh, Utah

C’è invece un altro film, ancora inedito in Italia (e tale potrebbe rimanere, suppongo), che di contro utilizza lo stile come segno distintivo di una storia basata invece su dialoghi rarefatti ed essenziali. Si tratta di The Killing of Two Lovers di Robert Machoian, regista già al suo quarto film nonostante in Europa non se lo fili praticamente nessuno (e neanche negli States, ad essere sinceri). Lo stile di Machoian è da irriducibile, perché guardandolo si sente il lezzo romantico dell’indie anni Novanta, quando il Sundance non si era ancora glamourizzato e la più meritevole delle case di produzioni indipendenti, la A24 (di cui magari un giorno parleremo, se mai avrò voglia di farlo), non essendo ancora nata, non aveva spostato così in alto l’asticella da realizzare prodotti più curati di molti di quelli delle major. Titolo fuorviante, The Killing of Two Lovers, e inizio ancora di più, anche se pare coerente, perché il film racconta la storia (autobiografica) della separazione di una coppia con quattro figli in un paese (Kanosh, Utah) che è un buco di culo impossibile da usare anche come eventuale fioriera e nel quale tirarsi un lecito colpo in testa apparirebbe come una festa patronale. Nella prima scena, il marito tiene sotto tiro la moglie e l’amante con cui il marito è stato sostituito mentre questi dormono: uno pensa al titolo e crede che il marito stia lì lì per tirare il grilletto, ma lo scroscio di uno sciacquone lo fa tornare improvvisamente in sé. Taglio nel montaggio e un dubbio, sempre con riferimento al titolo: si tratta di contigua dislocazione spazio-temporale o di un’ellissi sospensiva? (per chi avrà legittimamente alzato le sopracciglia al cielo e giusto per ribadire che c’è sempre una possibilità di scrivere in modo più chiaro: sta scappando perché uno dei figli era nel cesso o ha ucciso i due amanti e il film ha deciso di non mostrarci l’atto, comunque sgradevole, per giocarci sopra?)

Ecco, non ve lo dico. Però lo stile, questa volta, è il fondamento del progetto. Perché sulle separazioni troverete lavori orchestrati narrativamente meglio (Storia di un matrimonio di Baumbach, probabilmente il migliore), più problematici (Una separazione di Asghar Farhadi), più sofferti (Dopo l’amore di Joachim Lafosse o Blue Valentine di Derek Cianfrance), più metaforicamente cinici (Loveless di Andrey Zvyagintsev), più prospetticamente rivelatori (La scomparsa di Eleanor Rigby di Ned Benson) e con una maggiore concessione a derive mélo (il classico Kramer contro Kramer), ma nessuno di quelli citati [è ambientato in un posto così di merda e] ha la stessa rigorosa ortodossia nella costruzione della messa in quadro. Ogni singola inquadratura, infatti, è una dichiarazione d’intenti allegorica, perché con il suo desueto formato Academy (1,37: 1, il classico quadratino) si stringe intorno al corpo del protagonista togliendogli l’aria, rendendo ancora più asfittica ogni sua azione volta a tentare di ovviare alla crisi che ha attanagliato il suo matrimonio. Oppure, di contro, in una perfetta antitesi estetica, la cinepresa rimane distante dal gruppo familiare, si priva dei dettagli per privilegiare le chiare dinamiche di un insieme che insieme più non è per registrarne i flussi, le variazioni, le forze disgregatrici. Machoian lavora anche su un sonoro che abbandona i codici del realismo per farsi incubo soggettivo, talmente personale e chiuso su se stesso che il dubbio su quella stessa prima sequenza resta fino alla fine, quando un ennesimo campo lungo restituisce un’apparente unità comunque minata da una componente acustica tutt’altro che pacificata.

Ammesso che qualcuno qui da noi lo veda, sicuramente The Killing of Two Lovers tra un paio d’anni non sarà citato in un’ipotetica divorce film list, perché la vera indipendenza è sporca e in certi casi puzza pure. E sarà un peccato, perché è vero che i film sul divorzio viaggiano sempre su toni dolenti, ma se vi separate a Kanosh, Utah, con un piano ravvicinato sempre intorno al collo come se fosse un cappio e le distese di nulla che vi ricordano costantemente chi siete davvero, Dustin Hoffman nei panni del povero Kramer vi parrà Tootsie, in confronto.

Un abitacolo più stretto della Smart, con il formato 1.37: 1

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.