
È quasi sicuramente il documentario più sconcertante dello scorso anno e uno dei migliori film del 2024 (ad esempio per «Film Comment» e «Sight & Sound»). Lo so, nella mia classifica di un mesetto fa non c’era; l’ho inserito però qua, in cui ho mischiato un po’ le carte, sfruttando la libertà di distribuzione worldwide. Ora che da qualche giorno è uscito anche in Italia, colgo l’occasione. Mi viene un po’ da ridere, perché la prima intenzione era di parlarne in altro ambito, più istituzionale, diciamo, ma un’eventuale recensione pare non scaldasse così tanto gli animi. Non tanto disinteresse mirato, il complottismo lo limito ai fatti osceni della giustizia sportiva, ma solo un bel buco giornalistico. Comunque triste, in ogni caso. Perché No Other Land appartiene a quella categoria di film che non si possono ignorare. Non si possono ignorare se si è parte del consorzio umano e si è convinti che Trump o Salvini non siano quei grandi statisti che pensano di essere. E, ci tengo a dirlo preventivamente, ho iniziato a scrivere il pezzo il 27 gennaio, Giorno della Memoria. Non tanto come rimostranza, ci mancherebbe, quanto per sottolineare come la Memoria debba essere un valore umanitario condiviso, come mi pare dicano solo più Anna Foa e Moni Ovadia, non un credito storico da riscattare per legittimare nefandezze.

No Other Land è il lavoro di un collettivo ebreo-palestinese firmato da Yuval Abraham e Basel Adra, che hanno ripreso dal 2019 al 2023 il tentativo di distruzione coatta dell’insediamento palestinese di Masafer Yatta in Cisgiordania da parte dell’IDF, la Forza di difesa israeliana ben nota in quest’ultimo anno e mezzo. Yuval e Basel sono rispettivamente un giornalista ebreo e un attivista palestinese, residente nella zona contesa. Entrambi pensano che la politica del governo israeliano sia iniqua e sopraffatoria e il film è il resoconto crudo di una lotta assolutamente impari. Breve, intenso, a tratti intollerabile per il senso di prevaricazione che documenta, No Other Land non si concentra su una guerra in atto da tempo immemore, ma sulle sue strutture, sul rapporto squilibrato edificato su una legge che ha prodotto emarginati obbligati allo sgombero perché la zona deve far posto a un’area di tiro e addestramento per l’esercito israeliano. Non un caso particolare, quanto l’epitome di una situazione generalizzata, la metonimia di una tragedia umana.

Difficile anche immaginarla se non per sommi capi, una situazione del genere, impossibile immedesimarsi in un incubo costante che non ha nessuna alternativa possibile, se, come racconta Basel, uno dei due registi e anche attore all’interno del film, il suo primo ricordo nitido dell’infanzia, quando aveva solo cinque anni, è l’arresto del padre che manifestava per il suo diritto alla casa. Il concetto di tempo è un altro aspetto fondamentale di No Other Land, perché ciò che al pubblico pare insopportabile in solo un’ora e mezza di immagini e racconti, per i protagonisti è la storia di un’intera vita: indicativo, forse uno dei maggiori momenti di riflessione, è il dialogo in auto tra i due registi/protagonisti, durante il quale Yuval (a sinistra 👇🏻), il giornalista israeliano critico della politica aggressiva di Netanyahu, si lamenta perché il suo articolo non ha ancora generato alcuna reazione nell’opinione pubblica e nelle autorità, ottenendo la risposta lucida e pacata di Basel, ormai esperto e quindi totalmente disincantato, che oppone pazienza e resistenza come uniche armi possibili. Un tempo che per di più non si placa, è in continuo divenire e aggiunge sempre un tassello, come dimostrato anche dalle didascalie prima dei titoli di coda che informano ciò che è successo dalla fine delle riprese all’edizione definitiva del film.

Una visione certamente particolare, in una zona in cui la rabbia ha radici profonde perché figlia della frustrazione e dell’impotenza di una popolazione che non ha difese, che possiede diritti solo nominali tutelati da leggi di uno Stato rispetto al quale si sentono totalmente estranei e per di più vessati, incapaci di difendersi nei diritti elementari come quelli all’abitazione o all’istruzione. Immagini forti, quelle di No Other Land: sgomberi, distruzione di strutture, case, sradicamento di un parco giochi, fredda impassibilità dei soldati e minacce. E poi spari. A bruciapelo. Dei soldati, che colpiscono Harun, un residente della comunità di Masefar Yatta mentre protesta, per poi lasciarlo paraplegico, completamente inerte su un letto all’interno di una caverna, perché privato della casa dopo le continue demolizioni. E spari dei coloni israeliani, i quali, spalleggiati dall’esercito, si accaniscono sulla popolazione, armata solo della disperazione di chi si è visto sottrarre tutto.

È vero che in questi casi si sfrutta l’enorme luogo comune, da Vertov ai Collettivi Newsreel, passando per il Caméra-œil di Godard (nell’episodio del chrismarkeriano Loin du Vietnam), della cinepresa come arma di difesa e documentazione (d’altronde anche gli Area cantavano in altro ambito «Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia»), ed è anche vero che Basel e Yuval usano qualunque mezzo, ma proprio qualunque, per riprendere le voci, le manifestazioni, le proteste destinate alla sabbia del deserto, la protervia dell’esercito, l’arrivo dei bulldozer e delle ruspe, i tentativi di arresto e i colpi inferti, ai corpi e alle speranze. Se le le videocamere 4K (la Lumix GH5 usata dall’operatrice Rachel Szor) sono l’istanza narrante ufficiale e i video in VHS ricostruiscono la dimensione di una memoria sempre (ahimé, ahiloro) identica a se stessa, tutta la serie di immagini rubate con smartphone e videocamere di piccolissime dimensioni sono il segno di una testimonianza che si fa militanza, nel tentativo di mostrare ciò a cui, attraverso le sole parole e i servizi dei notiziari, siamo ormai talmente assuefatti da restare pressoché indifferenti. L’immagine si contrae e si dilata, ma sempre concentrata sul medesimo fulcro. Basel e Yuval non sono documentaristi di professione, eppure la forza del loro film, il vigore della loro coraggiosa testimonianza e la tenacia della loro resistenza, al netto anche dell’enorme problema per reperire finanziamenti erogati sempre da enti dipendenti dal governo israeliano, pone di fronte all’inadeguatezza morale di un occidente troppo passivo di fronte a un sopruso perpetrato come legge di Stato.
No Other Land è candidato all’Oscar come miglior documentario. Non vincerà, e secondo la logica da sempre portata avanti da questo blog, tanto meglio, anche se la spinta del prestigio sarebbe utile per evitare i buchi giornalistici, per dire. Non può vincere perché sapete bene come funzionano Hollywood e l’Academy. No Other Land è un film che parla di sconfitti: per quale forma di coerenza dovrebbe vincere? Ma non importa. È già un successo che ci sia stata una distribuzione. Giusto per sottrarlo a quelle sacche di invisibilità tanto simili alla cancellazione dalla Storia.
[E il fatto che io ne abbia sancito con certezza la sconfitta ne fa ora di diritto il favorito]

