All’ultima Mostra del cinema di Venezia si è discusso molto di margini possibili per nuove forme di cinema. Soprattutto: ci sono ancora i margini possibili? Ci si affanna molto nel tentativo di trovare un nuovo modo di narrare attraverso le immagini. Non è neanche una cosa così nuova, tutt’altro. Ricordo che nella stessa Venezia, saranno stati venticinque anni fa, quando ancora frequentavo i festival, si discuteva della stessa cosa, in piena riflessione (tardiva) sul postmoderno e sulle sue ricadute nell’universo audiovisivo. Scrissi anche una cosa, piuttosto lunga, dal pomposo titolo Riflessioni sulla preponderanza della forma, non ricordo per chi, per quale rivista, ma chissenefrega, erano tempi ancora ingenui in cui credevo che scrivere una cosa seria prima o poi mi avrebbe garantito lustro e stima. Pensa te.
Quindi, discorso non nuovo, che ciclicamente ritorna. Qualche addetto ai lavori, probabilmente scorato dopo tanto affannoso pensare, si è arreso, affermando che le nuove forme, di fatto, non esistono. O perlomeno non esistono più. Che fare d’altro, che inventarsi? Dopo l’introduzione del sonoro, l’avanguardia degli anni Venti e Trenta, il montaggio sovietico, l’underground di Jonas Mekas & Co., le varie declinazioni nazionali di Nouvelle Vague, la finta rivoluzione della Hollywood Renaissance e la tenera rivolta della New Wave newyorchese, le immagini scintillanti, esorbitanti e ipercinetiche della postmodernità e la realtà virtuale, che cazzo bisogna ancora inventarsi? Tanto per intorbidire le acque e rinvigorire il dibattito, nella stessa Venezia Harmony Korine ha presentato Baby Invasion con l’estetica di un videogioco sparatutto non interattivo (cioé, te lo vedi e rincoglionisci come un adolescente brufoloso, con in più la frustrazione di non poter intervenire direttamente), in linea con la tendenza già inagurata lo scorso anno fa con Aggro Dr1ft, realizzato con un disturbante filtro a infrarossi.
Sono queste le nuove forme? ‘nnamo bene. Chi attualmente cerca nuove forme, ma spesso, molto spesso, anche prima, di solito ricorre a immagini gridate, fini a se stesse, che intendono sorprendere ma senza possedere una solida base teorica o un forte elemento connotativo. Anche le strutture, dopo Tarantino, tranne alcune eccezioni motivate dallo sviluppo della storia (Se mi lasci ti cancello, Donnie Darko, Mulholland Drive, il cinema di Nolan, anche se Tenet potrebbe essere un esempio della deriva che vi aspetta dopo la chiusura di questa parentesi), non sono state altro che una scomposizione e susseguente ricomposizione di pezzi del meccano proposti per soverchiare e rendere più interessante una storia talvolta priva di vero appeal (pensate a tutto ciò che è successo a Shyamalan dopo Il sesto senso).
Probabilmente il confine delle nuove forme è stato oltrepassato solo dalle serie tv, che hanno obbligato anche il cinema a fare i conti con una caratterizzazione più intensa e approfondita dei personaggi e con uno sviluppo del racconto più elaborato e giustificato nei suoi snodi (non a caso, solo a questa edizione di Venezia sono state presentate quattro serie d’autore, Disclaimer di Alfonso Cuarón, Families Like Ours di Thomas Vintenberg, Los años nuevos di Rodrigo Sorogoyen, M. Il figlio del secolo di Joe Wright, dalla tetralogia di Scurati). Conseguenza di questo è stato l’aumento del minutaggio dei film: sempre più lunghi nel tentativo di replicare le serie nella complessità della costruzione, visto che il nuovo pubblico, quello della generazione Z, è tarato sulle piattaforme, non sulla sala. Vero anche che dopo questo tentativo, non sempre riuscito, non sempre adeguato, il film lungo è rimasto tale anche evitando di siluppare nel dettaglio ogni aspetto della storia ma indugiando su singole componenti narrative, esorbitando espressionisticamente dalla restituzione della vicenda e fissandosi sulla frammentarietà degli elementi e delle situazioni. Film che in alcuni casi sono indimenticabili, in altri portano a un’implosione della forma, perché talvolta fondata su bolle speculative del racconto.
Mentre anch’io m’infingevo in tutta questa riflessione sulla forma, ho pensato se ci fosse qualcosa di davvero diverso all’interno di questo vasto panorama di originalità pretesa e diffusa. Qualcosa oltre il Nolan che sonda i complementi di tempo ibridandoli con la fisica quantistica o il Gaspar Noé che realizza sempre un film estremo, diverso dai suoi altri, ma su cui incombe perennemente il sospetto di stilizzazione in funzione sensazionalistica, mai così profonda e sganciata da una vera necessità tematica. E pensandoci un bel po’, gli unici che abbiano resistito a un impietoso setaccio sono un gruppo di misconosciuti registi argentini, brillanti, scanzonati e indipendenti, riuniti in un collettivo che ormai ha 22 anni ed è conosciuto con il nome di El Pampero Cine.
Nessuno se li cagava, fino a quando, recentemente, hanno cominciato a comparire su alcune delle più attente e lucide riviste attualmente esistenti, come «Cinema Scope», «Film Comment», «MUBI Notebook», «Sight & Sound» e «Senses of Cinema» e allora un mondo, quello stesso mondo che li aveva ignorati perché mai incontrati prima, si è dischiuso. Avrete sicuramente sentito parlare di Trenque Lauquen; lo abbiamo citato anche su queste pagine come quarto miglior film del 2023, mentre i Cahiers lo hanno incoronato come il migliore in assoluto (sì, immagino che del nostro quarto posto se ne possa anche fottere). La regista è Laura Citarella, una dei quattro. Gli altri sono Mariano Llinás, Agustín Mendilaharzu e Alejo Moguillansky. Eccoli, ve li presento.
Fin dal 2002, quando sono nati, sono votati a un’indipendenza totale, quasi monastica, che nel loro caso, in un’Argentina squassata perennemente dalle crisi, ancora più da quando quel folle parruccone sudaticcio di Milei si è abbattuto con la sua motosega manco fosse il Leatherface di Non aprite quella porta per spingere l’intero paese verso l’ennesima recessione, non è neanche un impedimento, poiché non hanno mai ricevuto un finanziamento statale. Limitati per vocazione e delimitati per necessità, ma questo si traduce in una libertà totale rispetto alle questioni di forma, perché del tutto privi di alcun vincolo.
E allora sì, qualcosa di davvero nuovo, anche se ha già 22 anni e quindi è nuovo solo per la nostra globale ignoranza, c’è. Provate a guardare uno dei loro film, anche se non è per niente facile scovarli. Prendete il più celebre, Trenque Lauquen, 4 ore e 22 minuti, oppure La Flor (2018) di Mariano Llinás, 14 ore e 50 minuti, di cui gli ultimi 40 di titoli di coda: sembrano tempi filippini, ma sono (anche) l’emblema di una forma non irregimentabile, varia, che si ciba del tempo di cui pensa di avere bisogno (La vendedora de fósforos di Alejo Moguillansky dura nemmeno un’ora e dieci, El affare Miu Miu di Laura Citarella, appena rilasciato su Mubi, solo mezz’ora).
È un movimento composito ma le costanti sono simili, frutto di una riflessione ed esigenze espressive comuni. I film sono labirintici, squilibrati nello sviluppo del racconto, con mille porte scorrevoli che si aprono per dare vita a una serie di storie che si originano e traggono nutrimento da altre storie. Si vede la mano esterna che progetta ridendo, divertendosi, indovindando la reazione smarrita ma incuriosita del pubblico. E le mille porte si aprono anche per dialogare con altre forme d’arte: musica, piuttura, fotografia, danza, teatro, letteratura, tutto si espande in una dimensione nuova, che parte dal cinema e al cinema ritorna, ma dopo un processo di mescolanza capace di fornire un prodotto nuovo, multiverso, nel senso delle diverse possibilità di lettura, non della virtualità.
Perché tutto, nel cinema del collettivo, è insieme materico e metafisico, terragno ed etereo, ed è questa atmosfera tra l’emotivo e il trasognato a spiazzare completamente. Una sorta di realismo magico a cui non è estranea la lezione di Borges, soprattutto se si guarda a due film di Mariano Llinás, Balnearios (2002) e Historias Extraordinarias (2008; 4 ore e 12 minuti), in cui stile crudo da documentario, voci over che rintuzzano le immagini, trovate letterarie ed elementi stranianti, insieme a un avvicendamento tra toni e generi all’interno dello stesso film danno la precisa misura di una libera espressione, di una costruzione drammatica che pare farsi da sé, seguendo il flusso, il respiro stesso delle immagini. Prendiamo il più celebre del lotto, Trenque Lauquen. Inizia come L’avventura di Antonioni, perché una donna sparisce e due persone a vario titolo si mettono alla sua ricerca. Ha un’aura da mystery, ma presto, parcellizzando le prospettive, diventa uno studio di caratteri, sempre con il mistero che aleggia. Ma ce ne si dimentica, perché il film fluttua in ogni dove e vive anche la vita della ragazza scomparsa. A un certo punto si matrjoskizza e ricostruisce la vicenda testimoniata da una serie di fotografie che diventano presto un’ossessione per la sfuggente protagonista e poi, quando finalmente, dopo quattro ore e passa, sembra che si stia per svelare il mistero e spiegare come e perché la ragazza sia scomparsa, le immagini svelano tutta la portata metafisica del loro limite nel rivelare la verità, esaltando contemporaneamente il potere infinito delle possibilità della narrazione.
El Pampero Cine contiene in sé il caos, la spontaneità, l’imprevisto e tutta la disponibilità a trasformarlo in immagini. Non ha regole, se non quelle di una narrazione che si apre a una moltitudine di possibilità. Non ha vincoli, non ha padroni, perché è amatoriale quanto basta per fottersene di qualunque finanziamento istituzionale e per questo è completamente libero di essere al contempo profondo e naïf, incurante di arruffianarsi il pubblico. È trasversale ed espanso, tutt’altro che isolato, perché il cinema è il contenitore interdisciplinare per altre arti e anche per questo è metanarrativo, visto che ogni singola sequenza mostra la realtà quotidiana lasciando intravedere le condizioni attraverso cui questa stessa realtà è scelta, ritagliata e proposta nell’inquadratura e nell’intera scena che la ospita. Non usa alcun artificio, non promette sequenze pirotecniche e spesso rallenta i tempi laddove, in altri luoghi, si attuarebbe un’accelerazione. È probabilmente questo suo carattere in totale controtendenza a creare il paradosso di un cinema diverso, apparentemente sobrio ma in realtà ebbro, smisurato, pronto a rivelare più livelli sovrapposti da guardare e interpretare secondo un alto grado di autocoscienza. Una forma duttile, malleabile, gassosa e incomprimibile, forse l’unica vera novità, peraltro non del tutto definibile, all’interno di un dibattito sempre alla ricerca di impossibili e sconvolgenti rivelazioni.
è sempre fantastico scoprire di aver visto cose che … che poi tu dici essere meritevoli di qualcosa. ho visto Historias Extraordinarias al Tff tanti anni fa e ricordo che quando uscii dopo le 4h12 avevo voglia di vederne ancora. una sorta di dipendenza bulimica per la quale ne avrei viste tranquillamente altre 4h. e tutti che mi prendevano per pazza per incitarli a vederlo.
Senza prendere per pazzo nessun altro, per chi volesse ripetere l’ipertrofica esperienza: (parte prima) https://www.youtube.com/watch?v=dXcYvm5Vuig. (seconda parte) https://www.youtube.com/watch?v=CXfkplzoShw. (terza parte) https://www.youtube.com/watch?v=Dos7BMl6nyY.
No, grazie.
🙂