Rodrigo Sorogoyen. Segnatevi questo nome, anche se a moltissimi non dirà assolutamente niente, e cercate i suoi film, perché è uno dei registi più interessanti dell’intero panorama europeo.
Quarant’anni ieri (ma è casuale, quello che segue non è una ricorrenza), insieme ad Alberto Rodríguez rappresenta la voce nuova proveniente dalla Spagna, molto più del paraculismo di Álex Pina e de La casa de papel (dopo essermi esaltato nelle prime due stagioni, aver patito la terza, sperato che uccidessero tutti nella quarta, il volume uno della quinta è un giocattolone action in cui tutti sparano, i muri si sbrecciano, le smorfie si sprecano e i coglioni dello spettatore scivolano lemme lemme verso lo schermo). I suoi film arrivano ma passano inosservati, passano inosservati anche per molti di coloro che si occupano di cinema e lo erano anche prima del covid e della chiusura delle sale. Forse qualcuno avrà avuto modo di vedere Che Dio ci perdoni (e se non l’avete fatto guardatelo su Amazon Prime), secondo l’etichetta un thriller, in realtà uno scavo nella profondità umana inframmezzata da una complessa indagine, ma legare questo film a un preciso percorso di un autore pressoché sconosciuto è cosa piuttosto ardua. Questo perché se ne parla poco, praticamente niente in confronto ad altri celebrati registi che con due suore col sigaro in bocca, un paio di adolescenti alla scoperta del proprio pube e magari, per stare ai tempi, una donna e un’auto che copulano come manco Rocco Siffredi (questa la reazione di Nanni Moretti all’oscena congiunzione) raggiungono il grande pubblico in un’aura di intoccabilità su cui ci sarebbe moltissimo da discutere. Hélas pour lui, dicono i francesi, che l’autorialità nel cinema l’hanno inventata (e poi ci hanno sguazzato, arrivando a negarla quando ormai tutti la celebravano: maledetti snob).
Un peccato, sì. Perché Sorogoyen, grazie anche al lavoro della sua abituale sceneggiatrice Isabel Peña, è un regista dall’ottimo senso della narrazione e con una spiccata capacità di avvolgere ― letteralmente ― lo spettatore a ciò che sta mostrando. Difficile trovare in questo momento, pensandoci mi verranno in mente solo una decina di nomi, qualcuno che abbia una così forte cifra stilistica senza che tale cifra, per quanto evidente, vada a scapito del racconto, diventando puro funambolismo della macchina da presa. Guardare per credere. Sorogoyen ti porta dentro il film, ti stempra e ti sfinisce, perché ti obbliga a viverne lo stesso ritmo, in un nuovo concetto di identificazione, che non passa più soltanto attraverso la consueta fisiognomica dello sguardo e delle reazioni del volto ma è condivisione di traiettorie per aderire agli obiettivi, ai desideri e alle paure, fissandosi spesso impropriamente sulla nuca dei personaggi, in un convulso movimento che è insieme inseguimento del carattere dell’individuo e tentativo di accesso al bisogno che la narrazione ha sollecitato. Così è ne Il regno, incursione a tempo di jungle, come solo il primo Darren Aronofsky si era azzardato a fare, nella malapolitica spagnola ― ma come diceva Giovanni 8,3, tutto il mondo è paese ― vissuta insieme a un politico (Antonio de la Torre) che cerca strenuamente di salvare se stesso facendo saltare tutto il malaffare di nani, ballerine, ruffiani e pezzi di merda che gli ruota attorno. Così è nella serie, inedita in Italia (ma i primi due episodi sono stati proposti dall’ultimo Torino Film Festival), Antidisturbios, che inizia con uno sgombero di uno stabile occupato da alcuni immigrati da parte di un reparto della polizia e sprofonda in una voragine di corruzione, doppio gioco, apparenze e realtà, pronte a ribaltarsi senza alcune soluzione di continuità, in una serie infinita di colpi di scena che alla fine ti fa parteggiare per quelli che due puntate prima avevi condannato.
Il cinema di Sorogoyen è tutto racchiuso in uno spazio esiguo, tra ciò che è e ciò che invece, guardando in un’altra prospettiva, potrebbe anche essere, perché ciò che è forse non è davvero e quindi, di conseguenza, il conflitto tra le varie situazioni si risolve solo con un’angolazione differente. Prendete l’ultimo film Madre, realizzato nel 2019, presentato a Venezia quello stesso anno ma uscito solo poche settimane fa in streaming (su Sky, ma anche, volendolo acquistare, su Chili e Tim Vision) dopo aver mancato le sale ed essere stato confuso da tutti con il film omonimo di Bong Joon Ho del 2009 distribuito nello scorso luglio sull’onda lunga di Parasite: una madre si trasferisce sulla stessa spiaggia francese in cui, dieci anni prima, era scomparso drammaticamente il figlioletto di sei anni, lasciato solo dal padre per prendere alcune cose dimenticate sul camper (sono sempre i padri che fanno le stronzate, fateci caso). Orbene, questa donna, che francamente si porta dietro un carico al cui confronto la Terra dei fuochi in Campania ha avuto uno smaltimento certamente più immediato, ad un certo punto è convinta di vedere in un cliente sedicenne del bar che gestisce il figlio scomparso, perché quando dico «scomparso» non è il solito trito eufemismo per evitare di dire «seviziato e ucciso» (e perdonatemi, fa più schifo a me scriverlo che a voi leggerlo, vi assicuro), ma il figlio è proprio scomparso perché il corpo non è mai stato ritrovato (e forse questo aspetto è ancora più drammatico, ma fermiamoci qua, anche se drammaturgicamente apre alla possibilità che il sedicenne sia davvero il figlio scomparso). Allora, prima che a qualcuno venga in mente che il blog è diventato sadico, sappiate che dal momento in cui la donna si convince che il sedicenne potrebbe essere suo figlio, comincia a seguirlo, a parlargli con una tenerezza ricambiata, a frequentarlo assiduamente a dispetto di qualunque sospetto da parte di chiunque, compreso il suo nuovo compagno. La capacità di Sorogoyen e di Isabel Peña è di fissarsi in quel margine osmotico di indecidibilità in cui il criterio di focalizzazione entra in un palese cortocircuito e si manifesta in una versione double face, a seconda della prospettiva che si assume, perché non si può umanamente non empatizzare con la madre e sperare quindi che il vuoto si colmi e il dramma si ricomponga (siamo al cinema e anche se facciamo i blasé, quanto ci piace l’happy end) ma in un attimo di lucidità non possiamo dimenticare che ciò che si vede dall’esterno, dalla prospettiva della famiglia del ragazzo, ad esempio, sai com’è, è una quarantenne in atteggiamenti equivoci con un sedicenne. Perché la dolcezza, la contemplazione, il bisogno dell’altro, facendo un mezzo passo di lato diventano concupiscenza, voyeurismo e sensualità, pur senza scomodare per forza Giocasta. Non ci vogliono certo Robert McKee o il mio amico Luca Aimeri per capire che questa ambiguità è sempre, nel cinema di Sorogoyen, non solo in Madre, il sintomo di un equilibrio precario che non può far altro che deflagrare e generare conseguenze impensabili, fino, poi, a ricomporsi alla fine con equilibri nuovi e altrettanto inquietanti.
Questa marcata ambiguità si traduce nella regia di Sorogoyen in una fluidità instabile e dinamica, volta a mutare forme e situazioni lungo la continuità del tempo e la cui evidenza filmica è il piano-sequenza, condotto con tecnica magistrale e perseveranza sempre ansiogena. Senza contare i piani in continuità che caratterizzano tutto il suo cinema, nel solo Madre ce ne sono tre, lunghissimi, stupendi e asfissianti, pronti a mettere alla prova la tenuta dello spettatore, anche del più scafato. Ad esempio il primo, che è un film in sé, dura 18 minuti ed è, in pratica, la riproposizione paro paro del corto omonimo del 2017, candidato agli Oscar, da cui il Madre del 2019 si è espanso per mostrare le conseguenze dell’elaborazione del trauma: la madre del bimbo (Marta Nieto) e la nonna conversano in un appartamento, fino a quando giunge la telefonata del bambino rimasto solo in una spiaggia pressoché deserta, nella quale, ad un certo punto, sempre in assenza di quello stordito irresponsabile del padre, si avvicina uno sconosciuto, costringendo il bimbo, su invito ovviamente angosciato della madre, a fuggire e a rifugiarsi in una piccola macchia di vegetazione, in cui, dopo un po’, ahimé, cazzo!, arriva anche lo sconosciuto. Tutto vissuto attraverso la recitazione e l’audio telefonico, tutto evocato quasi fosse un radiodramma, mentre la macchina da presa ruota, s’incolla sui corpi e sui volti, aderisce alle parole ora sussurrate per la speranza ora urlate con disperazione e stringe gli spazi come una garrota (siamo pur sempre in Spagna), mentre lo spettatore ansima e annaspa, come quando si cade nel vuoto in un incubo da cui non ci si riesce a svegliare. Gli altri due piani-sequenza (uno, placido e implacabile, è il colloquio tra la madre e l’ex marito dopo anni di separazione; l’altro a casa del sedicenne, quando la situazione non può che esplodere) ve li risparmio nel dettaglio, perché ho già spiegato troppo.
È solo metà settembre, ma già da ora posso dirvi che vivrò il resto del 2021, fino a quando farò il consueto post sui migliori titoli dell’anno, nell’insana curiosità di vedere quale sarà il film così emozionante, sconvolgente, equilibrato nello squilibrio messo in scena e tecnicamente perfetto da poter scalzare Madre dal primo posto. Anche se Madre è un film di due anni fa che ha rischiato seriamente di diventare invisibile.