Ritorno nel grembo femminile

Ritorno nel grembo femminile

Abbandoniamo gli impervi territori del western con la consapevolezza (ma forse sarebbe più opportuno dire “con la sorpresa”) che lo speciale dello scorso post (per il quale ringrazio tutti i preziosi partecipanti) ha perlomeno smosso un po’ le acque. Almeno da alcune delle reazioni che ha causato, tra commenti sdegnati (contro tutti: il western, i progressisti, i trumpiani, l’inutilità della critica attuale, indegna di quella di un tempo, il consiglio a trovarsi un lavoro serio ecc.) e messaggi ricevuti personalmente (invocanti una necessaria rinascita del genere). Divertito e imperterrito, il blog va oltre, perché l’attenzione per il western, ormai, dura lo spazio di un’uscita e della verifica della sua futilità. Non è detto che non ce ne si occupi ancora, dipenderà da quanto strombazzato sarà l’annuncio dell’evento e il susseguente flop. Perché di rinascita, stando a ciò che si vede, non c’è proprio speranza. Amen.

In dichiarata fuga dal testosterone, ci rifugiamo dalla parte diametralmente opposta, sia per quanto riguarda i temi, sia per i modi e sia per la concezione stessa di cinema, passando da una visione idealizzata e massimalista a una (anzi due, ma di fatto è la stessa) pragmatica e minimale. Small like depressed life. Cinema piccolo, sincero, onesto e trasparente. Di fatto una confessione intima di crisi. Totalmente indipendente, da intendere nel modo improprio in cui un imprinting estetico s’impossessa di una vocazione (necessità?) produttiva.

Due film attuali, uno più o meno visibile (per chi è abbonato a Mubi), l’altro probabilmente non lo sarà mai (ma che è stato in giro per festival lo scorso anno, tra cui Cannes e Toronto), entrambi diretti da giovani donne e che per di più li interpretano anche come protagoniste. Mettendosi a nudo. E non solo in senso allegorico. Il primo è This Closeness, secondo lungometraggio di Kit Zauhar; il secondo è il complesso (da ricordare)The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed di Joanna Arnow.

Guardandoli, li si potrebbe derubricare subito come Mumblecore 2.0, ma anche accettando la semplificazione, si avverte qualcosa di più profondo, un malessere alla base che si trasforma direttamente in materia narrativa e che si spoglia di qualunque aspetto non essenziale al senso di mestizia che intende riflettere.

This Closeness è tutto racchiuso in un appartamento affittato con Airbnb a Philadelphia, in cui si ritrovano due fidanzati newyorchesi giunti in città per la rimpatriata di lui con i vecchi compagni di liceo, da cui lei (la regista, Kit Zauhar) è fondamentalmente esclusa. Crisi di coppia, acuita da due fattori, uno prevedibile (la vecchia compagna di liceo un po’ zoccola sempre borderline tra l’amicizia e l’eventualità di un blow job per vivacizzare la serata), l’altro assolutamente inatteso e per questo particolarmente interessante: il padrone di casa disadattato, weird e sicuramente nerd, senza filtri e maniere, indiscreto anche solo per l’incomoda presenza in un’abitazione fatta di pareti di cartavelina. In The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed Joanna Arnow passa tre quarti del film nuda e sottomessa. Ha un rapporto tossico con il suo più anziano amante, con il quale ha una relazione BDSM (acronimo di Bondage, Dominazione/sottomissione, Sadismo e Masochismo, ma tanto lo sapete meglio di me), e che non sa neanche che università la ragazza abbia frequentato, nonostante lei glielo abbia rivelato più volte. Lo squallore dei rapporti sentimentali si rispecchia in una quotidianità lavorativa senza sbocchi e nella famiglia ebrea eccentrica, altrettanto soffocante (interpretata dai veri genitori di Joanna Arnow: difficile pensare solo a un risparmio finanziario in un’opera così intima). Ambiti diversi che s’intrecciano creando una relazione diretta la cui sintesi è: una vita di merda. Perché è tarata sulle spinte della volontà altrui, sulla cancellazione della propria identità e sulla coercizione accettata come condizione essenziale. E su un tempo che trascorre in modo anomalo, filosoficamente quasi ciclico, pronto a ritornare sui suoi passi e a impedire ogni possibile via di fuga.

Rispetto a This Closeness, i personaggi di That Feeling, per quanto altrettanto asciutti, sono pressoché statici, immobili, perfetta immagine di un’esistenza intrappolata nei suoi schemi prefissati e complicatissimi da abbattere. La Arnow racconta tutto con brevi scene spesso fatte di una sola inquadratura che si pongono come vignette esistenziali drammaticamente ridicole, perché osservare alcuni momenti nella loro fissità grottesca acuisce quel senso di straniamento che è la cifra umoristica del lavoro. In tali scene, la nudità costantemente umiliata della Arnow è la metafora visiva («metafora posta in sintagma» avrebbe scritto uno della vecchia scuola che ahimé, ahinoi e ahitutti non c’è più come Christian Metz) di uno stato di malessere in cui ci si crogiola perché, tristemente, è l’unico ambito nel quale si viva al centro della situazione. E il mettersi a nudo, in un corpo splendidamente imperfetto, insolito per il cinema ma candidamente quotidiano, è il segno di una trasparenza perseguita dalla Arnow con qualunque mezzo, dal sotteso (la maschera impassibile di fronte al grottesco degli eventi) all’evidenza straripante (come potete vedere nella foto qui sotto).

Nelle prime scene di This Closeness, invece, l’atmosfera rarefatta e apprensiva apre a qualunque eventualità, dal thriller essiccato al dramma da camera. In realtà lo sviluppo è un (malgrado sia prevedibile) intelligente e progressivo scavo nel deterioramento dei rapporti e nella disponibilità verso l’inatteso e l’opposto. Quello che si condensa, all’interno di un modo di raccontare essenziale, prosciugato nello stile, dalla scenografia sobria e particolarmente economico nell’uso delle battute, è un’impressione di solitudine avvolgente che dà il senso evidente di un’alienazione urbana condizionante di ogni aspetto della quotidianità. È un ritratto intenso e sentito, perché raccontato in prima persona, della generazione dei Millennials, della loro debolezza intrinseca, dei dubbi che li attanagliano, del bisogno di essere completi solo attraverso qualcun altro. Narrazione minimalista, si diceva prima. In entrambi i film acquisisce una forza dirompente il silenzio, lo spazio vuoto tra una parola e la successiva, perché spesso ciò che si dice è inopportuno e il senso allora si sedimenta tutto nelle reazioni dei volti e nei corpi indifesi esposti allo sguardo di un pubblico che osserva da una posizione di vantaggio, perché capace di penetrare senza pudore nella vulnerabilità psicologica dei personaggi.

Una duplice dimostrazione della pulizia di tocco e della possibilità che il cinema possa raccontare davvero una parte del presente con sensibilità, intelligenza e quel pizzico inevitabile di (auto)ironia che impedisce a ogni crisi di diventare tragedia. Non è cinema che fa sognare o che possa esaltare e, a proposito di flop dello scorso post, non saranno mai e poi mai dei successi di pubblico, dato che combattono sempre con l’invisibilità. Ma sono veri, onesti e, per chi ha la ventura di riuscire a vederli, dimostrano come si possa essere ricchi sul piano espressivo, pur coltivando una necessaria frugalità.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

4 Risposte a “Ritorno nel grembo femminile”

    1. Sicuro, ma in “The Feeling That the Time for Doing Something Has Passed” la vettorialità è invertita: è il corpo a porsi (volutamente) inerme allo sguardo del pubblico. Quindi più esibizionismo un po’ martire che voyeurismo.

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