Qualcuno era comunista

Qualcuno era comunista

Mi sembra una vita che non aggiorno il blog. Mi sembra, perché in realtà sono soltanto un paio di settimane. Praticamente dalla notte degli Oscar (o era LOL 3?). L’impressione di abbandono del nostro dialogo è netta perché nel frattempo sono stato impegnato in un po’ di cose, ma non voglio tediarvi con notazioni personali, anche se questo blog spesso dice le cose intime senza che paia davvero farlo (o sembra davvero farlo senza che le dica sul serio? mmmm, decidete voi che ormai avete compreso il perverso meccanismo). Velocemente, la risolviamo con una foto (qui sotto) e un link, giusto per tenervi aggiornati, qualora foste davvero curiosi.

Moi et Jaco Van Dormael al ristorante La Ciotola di Bergamo (ottimo il brasato di manzo al vino rosso con polenta taragna) dopo due bottiglie di delizioso chardonnay.

Tutte cose carine da raccontare che però, non avendole scritte di getto, come questo blog fa sempre, si sono perse nell’ampio calderone degli aneddoti ormai superati dallo scazzo di far partecipe qualcun altro, ben sapendo che non sono più partecipe neanche io (o pensavate che questo blog ponderasse tutto ciò che vi compare sopra? Ahi, come siete fuori strada. Se ponderasse davvero, non esisterebbe: non sarebbe più così divertente tenerlo. Qua predomina l’Es, mica il Super-io).

Quindi, mentre ero alla ricerca di qualcosa di cui parlarvi, in attesa, forse la prossima volta, di dedicare il post a una serie stupenda che sto attendendo finisca per averne una visione globale, il 21 marzo, a 92 anni, che è sempre una bella età se ci arrivi lucido e non a pezzi (entrambe le mie nonne ci sono arrivate), è morto Francesco Maselli. Citto per gli amici. Pardon, per i “compagni”.

Citto Maselli, per i compagni.

E sì, perché nel mondo di qualche anno fa, quando ancora significava un forte senso di appartenenza, Maselli era comunista. Fa effetto, vero? Sembra quasi si dica che è stato un pretoriano sotto Augusto o un crociato guidato da Goffredo di Buglione. Eppure in Italia ce n’erano tanti, tantissimi, più che negli altri paesi europei ad eccezione di quelli affiliati al Patto di Varsavia. Non hanno mai governato, come invece ha raccontato per anni un ex presidente del consiglio più interessato alle grandi labbra che alla politica; e non mangiavano i bambini, come dicevano i democristiani alla fine degli anni Quaranta, tenendosi strette le loro creature armate di rosario. E non si può usare come offesa, cosa che invece fanno molti dei miei allievi quindici-sedicenni, convinti che l’Italia sia sempre stato un paese socialista, liberato dai bolscevichi solo dall’avvento di Salvini e Meloni con le loro schiere di follower su Instagram. Che culo.

A me, tra l’altro, parlandone da vivo, Maselli come regista non è mai piaciuto. Gli imputavo soggetti laschi (malgrado Moravia ne Gli indifferenti) e una regia spesso gridata ma priva di una vera personalità. Se parliamo dell’ambito politico, gli ho sempre preferito Elio Petri, che era nato a poco più di duecento metri in linea d’aria da via delle Botteghe oscure e che raccontava storie con un maggiore vigore narrativo e con una definizione dei personaggi più sensibile. Però Citto beccava tutte le contraddizioni della sinistra e le stigmatizzava. In questa prospettiva capiva le cose meglio di molti altri. Ecco, quello che sto scrivendo sembra quasi un coccodrillo e invece no, non me ne frega un cazzo, non è questo il punto. È che la settimana prima che morisse, in una di quelle sere in cui non devo vedere niente con uno scopo preciso, mi sono rivisto Lettera aperta a un giornale della sera, che è un film solo di qualche mese (quattro) più anziano di me.

La locandina di Lettera aperta a un giornale della sera

Un film dalle doti divinatorie, che ci spiega con oltre cinquant’anni di anticipo la fine che ha fatto la sinistra in Italia, una fine talmente di merda da permettere a una Repubblica fondata sul lavoro e sull’antifascismo di eleggere un governo di fascisti, pressapochisti, incoscienti, revisionisti, razzisti e omofobi di cui un paese civile avrebbe il dovere (verso se stesso, soprattutto) di fare a meno. E la colpa è tutta della politica scriteriata della sinistra, il cui ideologo per eccellenza, Tafazzi, l’ha condotta da un autogol all’altro lungo gli anni, fino a quando la gente s’è cagata il cazzo e ha pensato che i diritti dei più deboli potessero essere difesi solo da quegl’altri, che non sono davvero fascisti, hanno solo il busto del duce in stanza e gli fanno un salutino (romano) prima di uscire di casa. Ma i germi di questa contraddizione si perdono nel passato, appunto. Perlomeno dai tempi in cui la sinistra è diventata un’élite culturale e ha guardato tutti dall’alto in basso, disprezzandoli pure, perché alla fine quello puzza, quell’altro non sa coniugare il congiuntivo, quello non sa neanche applicarsi un cazzo di preservativo e sforna figli che poi non può mantenere.

Lettera aperta a un giornale della sera è un sorprendente elogio del paraculismo di una sinistra (comunista, ma da osservare in un inevitabile sviluppo diacronico che nella modernità ha fatto i conti con la fine delle ideologie e il crollo dei muri) che mostra una totale discrasia tra l’idealità delle intenzioni, la prassi politica e la vita reale. In breve, un gruppo di intellettuali di successo, durante una delle tante serata a casa di uno di loro a discutere dei massimi sistemi, decide di scrivere una lettera aperta a un quotidiano per prendere posizione contro la Guerra del Vietnam, promettendo a scopo provocatorio di partire per combattere al fianco dei Vietcong contro l’esercito imperialista americano. Bene. Come si diceva una volta, “armiamoci e partite”. Dunque. Quella che era nata come una sfida dopo un bicchiere di buon vino pregiato di troppo, per una serie di curiose vicissitudini diventa realtà e un settimanale la lettera la pubblica davvero, mandando l’intera intellighenzia da salotto in crisi totale: e adesso?, come si può partire e abbandonare gli agi della propria più che confortante posizione per infangarsi nella sporca guerra del sudest asiatico? E poi, con quale addestramento militare, che al massimo di molotov si è parlato solo tra un Amarone Quintarelli e un Barolo riserva Falletto? Così, tra primi piani smarriti che si avvicendano tra loro con zoom e veloci messe a fuoco, il gruppone discute, cerca di resistere, confligge e si disgrega, come la storia della sinistra insegna. L’individualismo sopravanza l’interesse collettivo, l’egoismo la lotta di classe. Si salvi chi può. La mente non può non correre al celebre ritrovo del 14 gennaio dello stesso anno, il 1970, in un attico di Park Avenue, quando la moglie di Leonard Bernstein, Felicia Montealegre, organizzò una serata di raccolta fondi per le Black Panther con l’alta borghesia newyorchese, permettendo a Tom Wolfe di consegnare alla storia uno splendido e caustico articolo per il «New York Magazine» e il termine ossimorico riassuntivo che fu l’inizio della fine: Radical Chic.

La copertina del «New York Magazine» con l’articolo di 29 pagine di Tom Wolfe.

Come vedete, il vulnus ha origini lontani. La storia della sinistra (e del comunismo che della sinistra italiana è stato il cuore pulsante e massimalista) è stata una progressiva delusione, una serie infinita di compromessi verso il basso iniziati con il secondo dopoguerra e culminati con la morte di Berlinguer, che hanno portato all’azzeramento delle speranze degli elettori e all’appiattimento delle aspirazioni di poter veramente incidere sulla società. Il cinema lo ha capito molto prima dei politici, o perlomeno lo ha rivelato apertamente, quando invece i membri del partito non avrebbero mai potuto ammetterlo senza mettere in discussione la loro stessa funzione. Non solo Maselli, ma capolavori della commedia all’italiana quali Una vita difficile, con lo schiaffo di Sordi al magnate della stampa Claudio Gora da intendersi come illusoria consolazione dei perennemente afflitti; C’eravamo tanto amati, con le tre anime della sinistra (proletaria, intellettuale e borghese) in perenne conflitto tra loro e la sostanziale impotenza delle stesse persone protagoniste di Lettera aperta vista attraverso il filtro sarcastico de La terrazza, ci avevano avvisato con un margine grandissimo rispetto a ciò che avremmo vissuto. Per cui, ora non lamentatevi per le dichiarazioni deliranti («335 persone innocenti massacrate solo perché italiane», parlando giusto ieri delle Fosse Ardeatine), per i morti in mare dovuti a una stupida presa di posizione (vedi Cutro), per la discriminazione verso le minoranze, per gli atteggiamenti da bulli delle periferie romane. Ma cosa pretendente? Loro sono fascisti e per quanto fingano di essere rispettabili, sempre fascisti di merda sono. La colpa è nostra. Siamo noi, gente di sinistra, a esserci staccati da tutto ciò che avremmo dovuto difendere, ad accettare quello per cui sarebbe stato necessario lottare, a tentare di zigzagare quando la merda ci stava per sommergere. Il cinema ce l’aveva detto e noi abbiamo avuto la colpa di guardarlo come se fosse solo un film, con lo stesso distacco critico o magari ridendo di quelli che riconoscevamo come i nostri stessi difetti.

Dopo i film, è arrivato il tracollo del consenso. E lì non c’è stato più niente da fare.

C’eravamo tanto amati: attoniti in attesa della fine

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

3 Risposte a “Qualcuno era comunista”

  1. D’accordo su tutto o quasi, soprattutto sul tafazzismo, malattia infantile e senile del Comunismo, che per me parte dal Compromesso storico berlingueriano (originato dalla paura che gli USA di Henry TheFOX* Kissinger facessero 1, 10, cento golpe Cileni). Quando poi il partito abbandonò il termine Comunismo, comunista ecc. ecc, e si lasciò infinocchiare/contaminare dal Margheritone post democristiano (alcuni esponenti degni di rispetto c’erano e sono rimasti, p.es. Rosi Bindi, vista dal Cavaliere fisicamente peggio della Merkel, definita lapidariamente INCHIAVABILE da quello specchio di virtù, di bontà, di generosità descritto di recente dall’ex Ruby Rubacuori, finalmente assolta dai giudici del BelPaese e assurta al suo ruolo vero, quello di madre,santa, vergine ecc.ecc) iniziò un processo di lento prima, velocissimo poi di decadenza, mutazione, crisi culminato nell’attuale disfacimento/dissoluzione . Su Maselli non ho le giuste (probabilmente) riserve dell’autore: mi piacquero Gli Sbandati, I delfini, il sospetto (che vorrei però rivedere) e La lettera aperta, che ho in dvd da anni, ma di cui rimando sempre la (re)visione per la mia invincibile mania collezionistica (Meglio vedere un film mai visto, magari orrendo, che rivedere film molto interessanti)…..il seguito mai……. troppo lungo il pezzo

    * il soprannome glielo do io ora, non so se all’epoca qualcuno lo fece. Certo è che nel 1973 gli diedero il Nobel per la Pace mentre agiva da Segretario di Stato del Presidente di allora, l’avvocato RICHARD MILHOUS NIXON!!!!!

  2. Passaggio orrore + sci-fi distopica: “molti dei miei allievi quindici-sedicenni, convinti che l’Italia sia sempre stato un paese socialista, liberato dai bolscevichi solo dall’avvento di Salvini e Meloni con le loro schiere di follower su Instagram”

    Passaggio tragicomico: “E la colpa è tutta della politica scriteriata della sinistra, il cui ideologo per eccellenza, Tafazzi, l’ha condotta da un autogol all’altro lungo gli anni”

    Passaggio cine-grottesco: “Quella che era nata come una sfida dopo un bicchiere di buon vino pregiato di troppo, per una serie di curiose vicissitudini diventa realtà e un settimanale la lettera la pubblica davvero, mandando l’intera intellighenzia da salotto in crisi totale: e adesso?”

    Passaggio pulp + sci-fi distopica: La copertina del «New York Magazine»

    Passaggio ideologico: “Ma cosa pretendente? Loro sono fascisti e per quanto fingano di essere rispettabili, sempre fascisti di merda sono”

    Passaggio malinconico + fantastico: “e noi abbiamo avuto la colpa di guardarlo come se fosse solo un film”

    Clap! Clap! Grande sceneggiatura, Giamp!

    a.

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