Come molti dei film distribuiti da Netflix, esce in sordina e poi si perde nel calderone delle proposte indistinte, nel cui palinsesto la miniserie su sei omicidi capitati in una famiglia indiana vale quanto il film d’autore di Fincher (o di Iñárritu o di Baumbach). Difficile stare dietro a tutto. Se non si è attenti o non si rientra nelle farlocche percentuali di compatibilità si rischia di perdere roba interessante, come ad esempio Hanno clonato Tyrone, thriller/sci-fi allegorico razziale di Juel Taylor, un’opera prima che tra l’altro vi consiglio caldamente, qualora foste rimasti vittime di quanto sto dicendo. Ma forse lo scopo di Netflix è proprio solleticare il target dei non attenti e di non proporvi mai niente di nuovo che esuli troppo dalle visioni precedenti, giusto per sapere chi siete. Perché sapere chi siete, categorizzarvi in una tipologia, è utile per programmare. E programmare significa, per voi, non godere di scelta autonoma. Per cui il discorso, nella sua folle incongruenza, potrebbe tornare. Però, regolatevi un po’ voi: sia stando attenti, sia incrociandola per caso, qualcosa va necessariamente vista. Ed è proprio il caso di vedere La società della neve, uscito il 4 gennaio. Si tratta, in pratica, della stessa storia raccontata trent’anni fa da Alive – Sopravvissuti di Frank Marshall: ve lo ricordate il film in cui alcuni giovani marcantoni di una squadra di rugby uruguagia si ritrovano sulle Ande dopo un incidente aereo, cercando in tutti i modi di restare aggrappati alla vita? Quello. Non tanto un remake, ma la rielaborazione della stessa storia. Storia vera, successa nell’ottobre 1972. Ma La società della neve è fatto decisamente meglio della versione americana. Anche perché il regista è interessante, si tratta di quel J.A. Bayona che, a parte Jurassic World: il regno distrutto, che fu un’oggettiva vaccata, ha azzeccato tutti gli altri film, slalomeggiando tra i generi, dall’horror di El orfanato al mélo-catastrofico The Impossible, passando per il fantasy (sempre con profonde increspature mélo) Sette minuti dopo la mezzanotte.
L’impasto di La società della neve è un survival movie che però si apre presto allo sviluppo individuale, forte di una voce narrante che introduce, testimonia, accompagna, pondera e illude prima di spiazzare (non vi posso dire altro, abbiate pazienza). Coinvolge nella tensione perché mostra un tenace lavoro di squadra, nel raggiungimento di una meta (visto che si parla di rugby) che appare irraggiungibile. Il merito di Bayona è però quello di far letteralmente immergere lo spettatore nel dramma, rendendolo claustrofobico, privo di sbocchi. E per far questo gioca dapprima sul contrasto, poi sul soffocamento. Da un lato mostra le enormi distese della cordigliera delle Ande al confine tra Argentina e Cile, il paesaggio maestoso ma annichilente fatto di un’unica candida superficie che si perde nell’immensità del paesaggio, talmente ampio da rendere invisibile ai soccorsi anche il relitto dell’aereo. La Natura che impone il suo peso sull’esiguità della dimensione umana. Dall’altro, nell’angustia dello spazio necessariamente condiviso per solidarietà verso i feriti e per tentare di non morire di freddo durante le escursioni termiche notturne, Bayona e il suo direttore della fotografia Pedro Luque (è uno bravo, fidatevi) cambiano totalmente gli obiettivi e strozzano la prospettiva con un grandangolo che smette di mostrare per costringere il pubblico a penetrare e condividere dall’interno il dramma dei superstiti. Una scelta forte, che su grande schermo avrebbe spaccato, ma funziona lo stesso anche sullo schermo di una tv da un po’ di pollici, se dotati di discreta immaginazione.
Un’immersione che diviene asfissia, in un film che punta metaforicamente a riemergere e a conquistare spazi, fino a scavallare, a invertire la tendenza mestamente indirizzata: una narrazione che non perde colpi in oltre due ore (12 minuti sono di titoli di coda: pazzesco) e che dopo l’abilissima costruzione anche visiva della tensione, come abbiamo detto, e una riflessione tutt’altro che banale sui limiti morali della sopravvivenza, si libra in uno slancio lirico finale che non guasta, che non fa crollare banalmente la a tratti cinica narrazione, ma sa tanto di inevitabile catarsi, giunti alla fine di tanto penare. Loro e anche nostro. Ed è per questo che il film funziona e merita di essere visto. Nella sestina dei migliori film in lingua non inglese del Golden Globe (battuto da Anatomia di una caduta) e candidato per la Spagna ai prossimi Oscar. Lo so, non vuol (più) dire niente, ma comunque sempre meglio di un calcio nel culo.
Priscilla, ultimo lavoro di Sofia Coppola, presentato a Venezia, dove la protagonista, Cailee Spaeny, ha pure vinto la Coppa Volpi come miglior attrice, invece non si sa ancora quando uscirà in Italia. Ma siccome siamo freschi del post sui film in difesa dei diritti delle donne, Priscilla casca a fagiuolo, come si suol dire. Sapete chi è Priscilla, anche senza nominare l’ingombrante cognome una volta sposata: la moglie di Elvis Presley. E se sei la moglie di Elvis Presley qualche mal di pancia lo devi mettere in conto. Soprattutto se ti ha preso quando hai quattordici anni e lui è già la vecchia lenza che flirta a favore dei flash sui set. Una vita di merda, diciamolo, anche perché al ritmo di rock ‘n’ roll ci vive solo lui. Tu te ne stai a casa, perché il tour e Hollywood non sono posti per una donna e te ne resti bloccata in una gabbia dorata senza neanche ruggire. Questo il principio su cui lavora Sofia Coppola. Un principio che potrebbe essere meramente illustrativo e già basterebbe, ma Sofia ci mette del suo e il suo è la personale visione autoriale, che da sempre caratterizza il suo cinema.
Se avete voglia e avete un paio di minuti liberi, pensateci un attimo: tutti i film di Sofia sono su personaggi che vivono all’interno di una casa di bambola. Non solo Marie Antoinette e le sue brioches, cosa fin troppo palese, ma tutti paiono imprigionati e osservati all’interno di un acquario. Non capite? E allora guardate questa lenta zoomata tratta da Bling Ring, perché è quasi un manifesto programmatico:
Capito cosa intendo? I protagonisti sono in una scatola e sono mossi come bamboline secondo l’uso drammatico di cui si avverte il bisogno. Talvolta in modo antidrammatico: pensate solo a cosa succede in quello che ancor oggi è il suo capolavoro, Lost in Translation, in cui prevale l’erosione organica dell’azione. Di qualunque azione. Sempre osservata placidamente dall’esterno, frontale. Come se fossero pesci che boccheggiano.
Priscilla ha una disposizione naturale. Avete presente l’equivalente coniugale di Elvis the Pelvis in the Memphis? È Priscilla the chicken in the kitchen, la pollastra relegata in cucina: lei è la moglie che sta a casa e se fa tanto così per uscire, Elvis ce la rimette, perché non gli par vero di fare a qualcun altro quello che il Colonnello Parker faceva a lui. E per Sofia è ovviamente occasione ghiottissima. Sarebbe sufficiente raccontarla, poiché è già drammatica in sé, come dicevamo prima, e invece il merito del film è di proporre una biforcazione nella disposizione dello sguardo. Ossia, estetizzare una condizione da sfigata. E penso sia un merito, sia chiaro (non la condizione in sé, naturalmente, ma operare una scelta espressiva che renda plastica la condizione).
I due sguardi proposti da Sofia entrano in palese conflitto. Quasi si scontrano. Lo sguardo che aspira e lo sguardo che confina, frustrando. Da un lato, c’è lo sguardo di Priscilla, che vede Elvis nella sua aura dorata di star a cui lei può avere accesso soltanto quando il divo le si concede. Diversi sono i piani in cui la giovane moglie lo osserva allontanarsi nella profondità di campo oppure contornato da fans, amici, approfittatori vari che pongono tra sé e il marito una barriera invalicabile. Alla prospettiva opposta c’è Priscilla, schiacciata da uno sguardo esterno, a sua volta di duplice natura, quello delle persone che la osservano come la principessa, promessa sposa del Re, la ragazza da invidiare e un po’ anche da compatire, ma soprattutto quello con cui il film la filtra per proporla al pubblico (una volta i colti dicevano l’istanza narrante, ma se lo dici adesso ti riempiono giustamente di Buuuuuuuu!). Ed è uno sguardo impietoso, malinconico, isolante, perché imprigiona Priscilla nello spazio della villa di Graceland facendola diventare un pezzo da collezione, un soprammobile, un complemento d’arredo. Anche lei bambola dentro la sua Dollhouse, libera di muoversi in uno spazio ampio ma delimitato, in cui gli obiettivi e i tagli delle larghe inquadrature (osservate di nuovo l’immagine con cui abbiamo aperto) la reprimono e la distanziano da sé e da chi osserva, incastonandola in una solitudine che è simbolo di una crisi e probabilmente anche di una scommessa iniziale rivelatasi sbagliata.
Quello che mette in scena Sofia è un percorso di emancipazione condotto lungo un tragitto visivamente doloroso. E lo sguardo diventa una questione morale ed esistenziale, il metro con cui la sofferenza prende corpo, si sostanzia e sedimenta, giorno dopo giorno, un’inquadratura circoscritta dietro l’altra, quasi Priscilla fosse un bersaglio. Ricordatevelo, quando avrete la ventura di vederlo. Ma anche doveste dimenticarlo, farete in fretta a notarlo.
Martedì prossimo, il 16, sarò alla Feltrinelli di Piazza CLN (per chi non è di Torino: è la piazza con le due grandi statue-fontane di Profondo rosso): faremo due chiacchiere con Enrico Giacovelli e Simone Tarditi sul libro da lui appena pubblicato su Via col vento. Rossella O’Hara, Clark Gable, l’incendio di Atlanta, Melania «quanto è brava!», «Domani è un altro giorno» (era lei, non Ornella Vanoni, tra l’altro in una delle canzoni più belle della storia della musica leggera italiana, molto più bella dell’originale di Tammy Wynette) ecc. Se non sapeste proprio cosa fare intorno alle 18, ci trovate lì.