Sono qua, pochi giorni dopo l’ultimo post. Solo perché il sottotitolo del blog recita “per parlare di cinema, ma solo quando è il caso”. Ed è il caso. Quindi mi perdonerete. Tranquilli, stavolta parlo di cinema, non vi racconto aneddoti personali. E di chi vi devo parlare? Di chi ha detto la stronzata della settimana, che per una volta non è Salvini ma molto più banalmente Pierfrancesco Favino. Il re dei trasformisti, quello che «una volta c’erano i ruoli per gli attori. Adesso li fa tutti Favino», come diceva Nando Martellone in Boris, «bellissimo e bravissimo», come ha detto una volta mia cognata.
Lo sapete tutti qual è stata la polemica della settimana: Favino sbotta contro il film su Enzo Ferrari di Michael Mann, prendendosela con la scelta di far interpretare il ruolo del protagonista ad Adam Driver e non a un italiano. Sia chiaro, sarebbe stata una dichiarazione da ignorare fin dal minuto successivo in cui è stata pronunciata, se alla fine ognuno non avesse sentito il bisogno di dire la sua (compreso questo blog, come state vedendo) e le reazioni non si fossero estese a macchia d’olio. Sapete bene cosa pensi dell’attuale cinema italiano, per cui potrei fare anche a meno di scrivere. Però, visto che qualcuno ha davvero preso sul serio queste parole e qualcun altro gli ha pure dato manforte, ci tengo a circostanziare.
Diciamolo subito: Favino ha detto quello che ha detto perché giocava in casa, alla Mostra di Venezia. Se si fosse trovato a Cannes, gli sciovinisti francesi l’avrebbero spernacchiato e sarebbe finito tutto lì, con grande scorno e senza alcuna eco. E invece, a Venezia, molti suoi colleghi ne hanno condiviso la protesta e i giornali ci stanno vivacchiando da una settimana. Grazie al cazzo. Per la maggior parte di quelli che erano d’accordo con lui, il nome di Michael Mann è mitologia pura, un sogno in una carriera ormeggiata tra giovani registi di belle speranze che sono tali fino a quando non resta che il ricordo della speranza che fu, artigiani che non sono mai decollati e vecchi marpioni alle prese da decenni con sceneggiature talmente fragili da sembrare liofilizzate. Certo, prima di morire fare un film con Michael Mann legittimerebbe un’intera carriera. Quindi: Prima gli italiani!, come diceva il triste motto del già citato Salvini, ma in politica e poi da certe teste me lo aspetto, anzi, non mi aspetto nient’altro. Essere italiano ti dà il diritto di impedire che chi non lo è possa fingere di esserlo? È cinema, è il regno della finzione, non è un’attribuzione di cittadinanza. Altrimenti non avremmo avuto il migliore dei Mussolini interpretato da Rod Steiger (in Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani), ma da Claudio Bisio.
«I Gucci avevano l’accento del New Jersey, non lo sapevate?», ha poi continuato Favino, condendo le sue dichiarazioni con spruzzate di diffusa ironia. Il riferimento era ovviamente a House of Gucci di Ridley Scott, un film che tra i tanti difetti mostrati, l’ultimo a cui penso è proprio il diritto di nazionalistica appartenenza. È recitato comunque in american english, non in italiano, a chi volete interessi l’eventuale accento di uno stato che comunque NON sarebbe stata la Toscana di Maurizio Gucci o il milanese di Patrizia Reggiani? E poi, parlare di accento. Eddài. L’avete sentito l’accento di Favino in Nostalgia di Martone? Tutti a lodarlo, ma è totalmente straniante. Perlomeno nelle prime sequenze, in cui pare abbia il palato ustionato e invece s’è inventato una dizione riassuntiva della sua natura di migrante che, dopo aver abbandonato Napoli, ha vissuto in Libano, Sud Africa ed Egitto. Tanto, chi potrebbe contraddirlo? Conoscete un napoletano che ha vissuto tot anni ripartiti tra il Medio Oriente, il nord e il sud Africa, sapendo che il napoletano, di solito, perde i capelli, fa la muta, perde anche la pazienza sfogandosi con un chitemmurt’, ma l’unica cosa che non perde mai è proprio l’accento? E che anzi, piuttosto, pretende che tutti i libanesi, tutti gli egiziani e tutti i sudafricani, boeri, Zulu, Swazi e Tsonga compresi, imparino il napoletano per poter comunicare con lui.
Lo sapete quanto è costato Ferrari, il film di Michael Mann? 110 milioni di dollari. Un film americano raramente è arte, nella quasi totalità dei casi è un investimento. Quei 110 milioni devono diventare almeno 200. E lo possono diventare con Toni Servillo al posto di Adam Driver, trasformando Ferrari in una sorta di Jep Gambardella della bassa modenese, oppure, peggio!, scritturando Valerio Mastandrea o Adriano Giannini (ebbene sì), che era il terzo presente quando la mano di Favino, accompagnando lo sfogo, ha incluso anche loro nel novero degli attori possibili, giusto per non farsi accusare che la polemica nascesse dalla frustrazione di non essere stati minimamente considerati? Eppure Favino a Hollywood ha lavorato, ma il massimo risultato lo ha raggiunto interpretando Clay Regazzoni in Rush di Ron Howard: seguendo il ragionamento, un ticinese. Interpretato da un italiano, non da uno svizzero. Ma, a quanto ne so, nessuno in Svizzera s’è incazzato.
Non si può neanche dire che in Ferrari ci sia un ostracismo nei confronti degli italiani: Valentina Bellè (tenetela d’occhio perché è davvero brava) e Lino Musella ci lavorano. Certo, nessuno dei due interpreta Enzo Ferrari, come avrebbe voluto Favino, ma in un’industria nella quale ― storicamente ― il divo è colui su cui si costruisce meticolosamente l’intero progetto (lui ne dovrebbe sapere qualcosa), direi che è piuttosto comprensibile.
Ci si potrebbe chiedere anche perché di fronte a tale rigurgito di orgogliosa italianità non si sia attivata una produzione italiana, con sceneggiatori italiani, atmosfere italiane e attori italiani, tra cui il protagonista, il tanto ambito volto per Enzo Ferrari. Lo hanno fatto, qualche anno fa. Miniserie televisiva Mediaset dallo stesso titolo del film di Mann: Ferrari, anno di grazia 2003, regia di Carlo Carlei; dove Enzo Ferrari era interpretato dal Favino di quegli anni, Sergio Castellitto, già Fausto Coppi e padre Pio da Pietralcina, ma non ancora Aldo Moro e Gabriele D’Annunzio. Non ve la ricordate? Perché era la solita biografia innocua: infanzia, sogno, maturità e affermazione di un grande uomo: sempre la stessa ricetta. Non un conflitto, nessuna analisi di un bisogno da colmare, zero antagonismo. Un’agiografia, che tradotta in termini comprensibili è l’ennesima rottura di coglioni delle fiction italiane. Ironia della sorte, c’era anche Favino, ma in una piccola parte: neanche in quel caso aveva interpretato Ferrari. Forse perché già lo interpretava un italiano che in quel periodo andava più di lui. Anche se somigliava maledettamente ad Arnaldo Forlani.
Ma il grande, fantastico autogol, Favino lo fa parlando di «appropriazione culturale» da parte di Hollywood. Che non è un termine che si possa usare ad mentula canis, perché ha un significato e una ricaduta precisi. Significa impadronirsi di una cultura come effetto di un colonialismo intellettuale (innegabile, lo si diceva fin dai tempi di Nando Moriconi in Un americano a Roma), perpetrato nei confronti di una società minoritaria (l’Italia, dunque), e rappresenta spesso un elemento di oppressione, oltre che di spoliazione della propria tradizione. Se Hollywood tenta di guadagnare i soldi investiti in un film, dobbiamo avvertirlo come un mezzo per opprimerci culturalmente o per sfruttarci economicamente? Il brand Ferrari è ancora un marchio appartenente all’Italia, quando il suo scopo è sempre stato l’internazionalità, l’uscire dal provincialismo per conquistare il mondo? Nel 2022 la Ferrari ha venduto 13.211 auto, rispetto all’anno precedente c’è stato un incremento di oltre il 20% nel continente americano e di più del 70% in Cina, Hong Kong e Taiwan. Bisogna quindi incazzarsi se vediamo un cinese che ne guida una, sperando invece che le comprino soltanto i 7-8 italiani che se le possono permettere?
E tornando a riflettere sul cinema: che cosa ha fatto Sergio Leone negli anni Sessanta? Ha preso il western, lo ha stiracchiato da tutte le parti, lo ha ribaltato e reso iperbolico, ne ha dilatato i tempi e ha inventato microconfigurazioni stilistiche che ancora adesso ammiriamo. Gli americani hanno gridato all’appropriazione culturale? Hanno chiesto che Gian Maria Volonté fosse sostituito con James Stewart o John Wayne? No. Hanno osservato con curiosità, hanno capito che potevano copiare qualcosa senza snaturare se stessi e hanno continuato a realizzare western; come prima, a volte anche meglio di prima. Eppure Leone era romano, non del Kansas e quando ha raccontato agli americani di una gang di giovani ebrei a Williamsburg, New York, durante gli anni del proibizionismo, gli americani hanno applaudito e si sono divertiti, non hanno detto «giù le mani dai nostri delinquenti di Brooklyn!».
Perché la verità è sempre e solo la stessa: una volta sapevamo fare cinema e ci ammiravano dovunque, ora che non lo sappiamo fare difendiamo posizioni protezionistiche che ci rendono dei cazzo di rosiconi. Preferisco, perché se invece la mentalità meloniana fosse diventata una lunga scia pronta a condizionarci culturalmente, sarebbe molto, ma molto più grave di continuare a produrre dei film di merda.
Credo ad oggi (da quando ti leggo) sia il primo articolo in cui condivido pure la posizione delle virgole. Ora lo spammo. Lo mando pure a Favino con la PEC.
ahahahahhahhaha
a.
È stato un lungo e faticoso cammino quello che mi ha portato a farti condividere tutto.
Oggi è un grande giorno.
Posso anche chiudere.
😉
bello et condivisibile in tutto e per tutto. Mi fermo per nanna et perché ho MIEDO che il messaggio svampi/svanisca come altre volte in passato.
mar.mo (uscente da tunnel? x ora solo in parte).