Per un pugno di film nel Giorno della memoria

Per un pugno di film nel Giorno della memoria
Schindler’s List

Giorno della memoria, un po’ in ritardo. Quest’anno, per chi, come me, al mattino assume gli austeri panni di un insegnante, nessuna commemorazione comunitaria, causa pandemia. Per cui, nessun incontro con i reduci dei reduci, saggisti, testimoni, esperti, eruditi e cabalisti, alberi della memoria, riflessioni sulle pietre d’inciampo, vivaci happening teatrali o avventurosi arrangiamenti per pianola e flauto sulle note di canti tradizionali, sempre tristissssimi. Niente. La memoria, quest’anno, è una questione privata. Interiorizzata all’interno della propria classe. Poi, se ti capita di avere una classe la cui ricettività è quantomeno discutibile, anche se le parole che uso solitamente per descriverne le performance non sono esattamente queste, la responsabilità di una possibile trasmissione di una traccia, di un piccolo lampo di coscienza, è ancora maggiore.

Fai una breve parentesi, perché nel programma sei arrivato alla Rivoluzione d’ottobre e non tolleri che qualcuno possa mettere sullo stesso piano comunismo e nazismo, come farebbe qualunque leghista particolarmente evoluto che vada di poco oltre il fonema gutturale. Introduci il discorso, ruoti intorno alle parole Soluzione finale, Shoah, spieghi la differenza rispetto all’ormai demodé Olocausto, spieghi cosa si sia deciso a Wannsee e come operava herr Zyklon, quale fosse la gestione di un lager, senza dimenticare di chiarine gli obiettivi economici. E quegli stessi allievi per i quali Reinhard Heydrich ha tutta l’aria di essere un esterno del Borussia Dortmund fuori forma da almeno un paio d’anni, ti ascoltano fissi, senza fiatare (e, sia detto per onestà, probabilmente alla loro stessa età Heydrich per me non sarebbe stato un esterno del Borussia soltanto perché conoscevo TUTTI i giocatori del Borussia, mica per altro). Allora ardisci. Vai oltre, ci provi, senti che devi osare, la palla è solo da spingere in rete. E gli fai vedere Notte e nebbia. Che è vecchio di 65 anni, è in odore di pensione anche senza quota 100, è un documentario e loro sono abituati quasi esclusivamente alla fiction e neanche a quella raffinata, ma all’azione tipo Fast & Furious, quelli con i numeri alti della saga; è in francese con i sottotitoli e temi che siano troppo veloci per il perenne sospetto di dislessia, sempre aleggiante sulle eventualità di piena comprensione; la versione per di più è anche lievemente sbiadita per gente che contempla solo l’HD. Eppure.

Notte e nebbia

Sarà stata la calda voce narrante, con quel francese recitato e ipnotico di Jean Cayrol, che da quegli stessi campi era tornato e su cui si era soffermato spesso nei suoi romanzi. Sarà stata l’eccentrica architettura dei campi di sterminio, il limite invalicabile delle rete di recinzione e il filo spinato a negare qualunque ipotesi di fuga. Sarà stato il susseguirsi delle immagini di quei corpi, smarriti, rasati, tatuati, snudati e umiliati, sezionati e torturati, disfatti e smagriti prima di essere gettati senza riguardo alcuno in fosse comuni, ma è scesa pesante (e insolita, in quella classe) una cappa di silenzio che improvvisamente mi ha dato l’impressione di essere rimasto da solo. Nessuno parlava. L’allievo su cui solo qualche ora prima mi ero sbizzarrito a scrivere un pessimo giudizio di condotta al termine del primo quadrimestre, era avvolto nelle sue braccia conserte con la testa sul banco. Sembrava dormisse, in realtà ― è stato sufficiente vedere un solo lembo di volto ― nascondeva gli occhi lucidi per non perdere la sua indiscutibile leadership all’interno della classe. Grande vecchio Resnais, funzioni sempre, anche se per trent’anni hai fatto impazzire tutti quelli che tentavano di capire nei tuoi film quale fosse il presente e quale il passato!

Per una generazione cresciuta e assuefattasi quasi esclusivamente alla successione vorticosa di immagini, la potenza iconica è sempre insuperabile. Anche se il linguaggio e lo stile parrebbero sorpassati, anche se il commento non è in italiano e richiede un (grande) sforzo supplementare di attenzione, anche se la continuità è data spesso dal susseguirsi di fotografie. Le quali però sono shockanti, talmente vere che non sembrano tali a chi è educato alla sola finzione. Ed è in questo che l’immagine si riappropria di tutto il suo valore di testimonianza trasformandosi realmente in memoria. Una memoria che a causa del tempo trascorso non può più certo essere diretta, ma può giungere al compromesso di essere mediata da una cinepresa e filtrata da un racconto inteso come exemplum. E qualcuno lo è sicuramente più di altri. Perché più adatto, perché stilisticamente più pregnante, perché capace di smuovere emozioni talmente profonde da proporsi in qualità di modello.

Non sono tanti i modelli possibili sulla Shoah, pur in una continua proliferazione di lavori che dicono tutti la stessa cosa nel medesimo modo. Il che, in sé, non è realmente un male: più film, anche se in fondo indistinguibili l’uno dall’altro, funzionano allo stesso modo delle tabelline, più le ripeti, più alleni la memoria. Quella memoria. Tuttavia, se i modelli si dovessero racchiudere in un pugno ricorrendo a un principio empirico derivato da anni di riproposizione nelle classi e di risposte particolarmente positive (tranne un anno, in era pre-registro elettronico, ma quel caso non è omologabile, perché la responsabilità fu di chi gli allievi li aveva lasciati da soli a guardare un film di tre ore e un quarto per computare affannosamente le medie alla scadenza del quadrimestre), il numero dei titoli davvero funzionali sarebbe piuttosto limitato. Senza bisogno di ampliarlo per forza.

Se parliamo di modelli, Schindler’s List su tutti. Hollywood, certo. Fotografia laccata di Janusz Kaminski che un po’ stride con la crudezza della situazione, inconfutabile. Finale retorico con Liam Neeson disperato perché con uno sforzo supplementare ne avrebbe potuti salvare altri 10, 100, 1000, innegabile anche questo. Però la forza dirompente delle immagini ti scava dall’interno, la potenza di uno sdegno che quasi sempre si fa impotenza, la costruzione vertiginosa di una tensione che sfrutta il sapere storico per inoculare lo spettatore nel dramma e i sapienti tagli delle inquadrature non li ha nessun altro. Neanche il toccante ma misurato dottor Korczak di Andrzej Wajda, a cui Spielberg aveva guardato per attingere il vigore estetico di Schindler, ha lo stesso denso sapore di sangue, melma e cenere.

Ogni cosa è illuminata

Nello stesso pugno di film si possono includere le dolenti note de Il pianista di Roman Polanski, che va letto come un survival movie su scenario apocalittico, come se fosse La strada di McCarthy o l’anticipazione storica e raccapricciante del vuoto pandemico di 28 giorni dopo, e Ogni cosa è illuminata, unico film da regista di Liev Schreiber, tratto dal romanzo omonimo di quello scrittore (tanto) diseguale che è Jonathan Safran Foer. Un profluvio, quest’ultimo, di colori scintillanti, di simboli (i sacchetti, gli occhiali), di situazioni grottesche e divertenti che entrano in un paradossale contrasto con l’ultima parte, quella maggiormente patemica, in cui il peso del passato si riaffaccia tra le nebbie spesse del rimosso. Irresistibile, anche per merito delle musiche dei Tin Hat Trio e per la presenza lunare di Eugene Hutz. E per il suo valore didascalico, che in questo caso farebbe un’utile consonanza con didattico, si potrebbe comprendere nel gruppo anche l’Olocausto di Marvin J. Chomsky, la miniserie di fine anni Settanta sul dramma di una famiglia ebrea internata nei campi di sterminio che ha avuto l’indiscutibile merito di riaccendere l’attenzione sulla Shoah quando ormai pareva che nessuno, tranne i sopravvissuti, se ne preoccupasse più.

Il figlio di Saul

Quelli citati, tuttavia, sono l’esatta negazione del film che rappresenta l’estremo della rappresentazione della Shoah, Il figlio di Saul, forse il lavoro definitivo sull’orrore dei campi di concentramento. Direttamente connesso a tutta una corrente culturale che da Adorno a Elie Wiesel, passando da Claude Lanzmann e Jacques Rivette, è convinta che la “Soluzione finale” abbia prodotto un vuoto talmente ampio da non poter essere colmato con le abituali categorie intellettuali e descrittive, Il figlio di Saul è un lavoro che non commuove e non stimola l’identificazione, rifugge deliberatamente dalle passioni per porre l’attenzione su una precisa morale dello sguardo, lacerando il flusso collettivo della Storia con la parzialità dell’esperienza individuale del protagonista e relegando la tragedia dell’umanità su uno sfondo volutamente indistinto e caotico, lasciandolo insaturo e impenetrabile, perennemente fuori dai margini dell’inquadratura, anche se ugualmente insostenibile. L’ineffabilità dell’orrore, che può solo farsi evocazione e mai precisa testimonianza, così come le oltre nove ore di Shoah di Lanzmann, capitolo altrettanto definitivo del genocidio, riportato alla luce esclusivamente per mezzo delle parole dei sopravvissuti, senza l’ausilio di una sola immagine di repertorio. Lavori che dal concetto teoretico ad essi sotteso traggono la loro forza, opere dotate di un valore espressivo e testimoniale immenso, ma che mancano del requisito fondamentale del compromesso, assolutamente necessario per andare incontro alle nuove generazioni, per le quali quello stesso dramma comincia ormai a essere una risonanza sbiadita che ha bisogno della modulazione emotiva dell’immagine per potersi realizzare pienamente. Se non proprio come testimonianza, perlomeno come specchio fedele di essa, in un gioco di rifrazioni successive che dovrà sempre essere alimentato, anche con film mediocri, se si vuole davvero continare a ricordare. Come se si trattasse di un genere cinematografico, con le sue consuetudini, le sue convenzioni, le strutture predefinite, gli ambienti e i personaggi caratteristici, ora che quelli reali vanno giorno dopo giorno scomparendo. Non per cinismo rispetto a uno squarcio storico, ma affinché quello stesso squarcio si canonicizzi in una narrazione riconoscibile e definita e diventi assodata, valida come una delle prove di sè, anche se proposta come banale rappresentazione.

Schindler’s List

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

3 Risposte a “Per un pugno di film nel Giorno della memoria”

  1. per non rifuggire dalle passioni io ci aggiungerei “Au revoir les enfants” di Louis Malle.

    saluti sempre.

    elena

  2. certo, d’accordissimo. se non c’è nella stringat(issim)a lista è perché “Au revoir les enfants” è molte cose, tra cui ANCHE un film sulla Shoah.
    ciao Elena!

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