Faccio un’eccezione rispetto al mio torpore estivo, che poi in realtà tanto torpore non sarebbe, solo perché il Maestro non è più tra noi. Notizia di meno di un’ora fa. Non sto parlando di Andrea Pirlo, che la salute lo conservi per altri cent’anni, ma di Ennio Morricone. Prima o poi sono cose che capitano, ma se capitano a 91 anni e mezzo con un discreto stato di salute, considerata l’età, che dire? Meglio evitare le frasi già approntate dalla retorica, ben sapendo che sì, è vero, sono sempre i migliori che se ne vanno ecc. ecc.
Non voglio farla lunga e neanche scrivere il solito coccodrillo. Per quello aprite qualunque giornale online, anche la Gazzetta dello Sport (pensa te: finalmente un pezzo serio). Ognuno ha un suo ricordo di Morricone, soprattutto se non l’ha conosciuto (chi l’ha conosciuto vi potrebbe raccontare che carattere difficile avesse ma che genio fosse, per cui andiamo avanti), fosse anche solo per l’impatto dei film di Sergio Leone nella sua vita.
Anche io ne ho uno. Mi sembrava magico allora, ancora di più adesso. Ve lo dico subito, non l’ho conosciuto, così se qualcuno pensasse di leggere la millanteria di un’amicizia decennale, può smettere subito e dedicarsi ad altro. Però ho visto una cosa che raramente noi umani. Più di dieci anni fa, credo undici. Concerto alla Reggia di Venaria Reale, alle porte di Torino. Palco regale, anche perché sarebbe stato impensabile contenere le dimensioni dell’orchestra in uno appena più piccolo. Immerso in un giardino in cui pareva essere l’unica cosa esistente nel raggio di chilometri. Un po’ come Epidauro, ma postmoderna. Eppure classica, ormai. Musica che si materializzava in immagini: il dolce del piccolo Patsy, mangiato sulle scale prima di arrivare alla vera Ciliegia cui ambiva inizialmente per Poverty, gli spari sui titoli di testa di Per un pugno di dollari, il Final duel di Per qualche dollaro in più su cui anni e anni fa improvvisai un testo appositamente dileggiante per far incazzare mio padre, riuscendovi ben oltre le intenzioni. Musica, film, vita personale, tutto intrecciato. Inevitabilmente. Fino a quando, in lontananza, ma neanche tanto, cominciarono a splendere minacciosissimi lampi intermittenti tra stracci di nubi nere. Sempre più frequenti. Luce alla luce del concerto. Ma anche timore che quello a cui stavamo assistendo potesse essere interrotto sul più bello, tipo coitus interruptus non da una scelta di prudenza ma dallo scampanellio del corriere Amazon.
Si alzò improvvisamente un vento fortissimo, improvviso. Merda, è la fine, pensai. Sul palco, altrettanto improvvisamente, il rullo di un timpano. Noooo! Pianoforte cupo e subito dopo oboe. Boato del pubblico. Nooooooooo!!! Proprio adesso! mentre in mente si affacciava la scena in cui Tuco corre freneticamente tra una tomba e l’altra alla ricerca di Arch Stanton schiaffeggiato dalla macchina da presa. Suspense: sperare che la burrasca arrivasse un secondo dopo quei tre minuti che stavano diventando una questione esistenziale. Dài, dài, dài, resisti! Ma la tempesta arrivò. Durante. Il vento infuriava dovunque, facendo volare fogli, volantini e brochure. Sul palco era comparsa Susanna Rigacci, il soprano, un secondo prima della tempesta. Lungo vestito rosso che ora svolazzava ampio, armonico dietro il microfono, come in Priscilla, la regina del deserto.
Lampi, sempre più insistenti, vento tumultuoso e la voce della Rigacci, impassibile, intenta a creare volute che fendevano la tempesta. Un duello tra l’infuriare degli elementi e la potenza del falsetto, mentre intorno sembrava che cadesse il mondo senza che nessuno se ne preoccupasse. Mancavano solo i quattro cavalieri dell’apocalisse come ce li ha proposti Vincente Minnelli. E pareva davvero l’apocalisse, sentendo il coro alle spalle del soprano, sempre più svolazzante, sempre più rosso, sempre più intenso. Un’apocalisse epica che stava sfruttando la realtà per farne sontuosa scenografia.
I quasi quattro minuti finirono e francamente non ricordo che cosa successe dopo, se il temporale si fermò o distrusse tutto. Credo si sia arrivati alla fine, ma non ci giurerei. Neanche m’interessava granché. Dopo quei quasi quattro minuti conclusi a quel modo, nei due giorni seguenti mi ero convinto di aver raggiunto l’immortalità.
Grande Giampiero, una di quelle serate che non si dimenticano e l’hai raccontata col piglio dello sceneggiatore esperto nel ricreare la suspense ( del resto è un tema che ti appartiene 😉 )
io invece mi pento di non aver mai partecipato a un suo concerto, nonostante ne avessi adocchiati diversi (ma poi, per una ragione o per un’altra, ho sempre lasciato correre)…
E, ovviamente, un grazie di tutto al Maestro.
p.s.: a proposito di coccodrilli, a me Veltroni sta abbastanza simpatico, ma se scrive che Mission è di De Palma forse ha scritto un po’ troppo di fretta il suo pezzo 😀
Ciao Vincenzo, ho letto anche il vostro saluto su L’ultimo spettacolo e ho rivotato il vostro sondaggio perché nel frattempo ho cambiato computer.
A me Veltroni non è neanche così simpatico, forse non gli perdono l’aver spartito il tifo per la Juve con quello per la Roma quando era sindaco (bella paraculata).
ho visto il pezzo sul Corriere e l’idea che mi sono fatto è che abbia cercato aiuto sul web a una dimenticanza e che il primo Mission incontrato (che era Mission Impossible) l’abbia fottuto.
ciao, grazie. ci vediamo presto, spero.