Questo blog si sta trasformando in un necrologio. Manca solo l’etichetta. Che non farò. Perché voglio evitare che si trasformi davvero in un necrologio costante. Ma non mi posso esimere. Vista la caratura del personaggio. Non è Silvio B., nonostante la concomitanza. Anche lui molto amato. Adesso, grazie alla riscrittura agiografica del potere, che lo celebra mentre sospira perché se l’è tolto dai coglioni, ancora di più. Tuttavia, non amato da me, perché io ho ottima memoria. E il ricordo si lega a cose molto personali. Più personali che politiche, perché le politiche le ricordano tutti, anche se adesso pare brutto raccontarle e così Silvio B. sembra essersi trasformato, nella vulgata delle varie televisioni, in un padre della patria. Vicende molto personali, come l’essermi spaccato definitivamente il ginocchio lo stesso giorno del suo primo insediamento in Parlamento, nel ’94. Il ginocchio era quello di destra, come i missini che entravano per la prima volta in un governo della Repubblica (ci avremmo fatto il callo, ma solo 34 anni prima le piazze d’Italia insorsero soltanto per l’appoggio esterno dell’MSI al governo Tambroni. Altri tempi). Io rimasi bloccato sul letto, con la gamba rigida, mentre Irene Pivetti in diretta tv giurava come Presidente della Camera e cominciai a rimpiangere quegli stronzi della Democrazia Cristiana. Pensa un po’. Oppure, altro ricordo intimo, come quella sera del gennaio 2013 in cui fece il confronto televisivo con Travaglio nella trasmissione di Michele Santoro, “Servizio pubblico”, regalando un momento di grandissima televisione, lui che la televisione la conosceva meglio degli altri due messi insieme. Lui che era politicamente spacciato e che grazie a quel confronto recuperò un sacco di punti in vista delle elezioni, perdendo per un’incollatura ma rimanendo attaccato al carro quando invece si auspicava la sua eliminazione definitiva. Confronto che non riuscii a vedere quella stessa sera perché poco prima dell’inizio mi telefonarono dall’ospedale per comunicarmi che mia mamma non avrebbe superato la notte. Ironia della sorte, entrambi del 1936: una si spegnava, l’altro risorgeva. Ma nonostante abbia spesso pensato, come moltissimi altri (un mio vecchio amico romano aveva in serbo una bottiglia di champagne da trent’anni che adesso potrà stappare), che la situazione politica dell’Italia potesse risolversi solo con la sua morte, quella sera non mi augurai nemmeno per un istante un ipotetico e impossibile scambio. Troppo facile, quando ci si sente più vulnerabili. È la vita e bisogna accettarla: e poi, non sono mai stato così merda. Se invece volessimo riferirci al cinema, ancora prima di Medusa, la sua casa di produzione e distribuzione, la mente va all‘offesa che vibrò al Parlamento europeo contro l’incredulo Martin Schulz (ma lo spettacolo fu la faccia ancora più incredula di Fini, seduto accanto a Silvio B. mentre faceva la sua tronfia battuta), definito indirettamente un kapò. In realtà occorrerebbero due brevi riflessioni al volo, visto che al tempo tutti cercarono di sfruttare l’infelice battuta per la propria causa ma nessuno ragionò sul piano logico. 1. Di che cazzo di film stava parlando Silvio B., quando disse che un produttore ne stava montando uno sui campi di concentramento? Buh? Non si è mai saputo. E per di più un film sull’argomento non è mai uscito successivamente (e menomale, visto che il film sarebbe stato di produzione italiana). Minchiata detta ad arte, quindi. Ma c’è di più e, forse, è ancora più grave. 2. La battuta fu infelice soprattutto perché storicamente approssimativa. Il kapò era un prigioniero che svolgeva mansioni di controllo sugli altri prigionieri. Quasi sempre era un delinquente condannato per reati comuni e talvolta poteva essere anche un ebreo. Era spietato perché ambiva ai pochi privilegi ottenuti (razioni più abbondanti di cibo, talvolta avere una compagnia) e per timore della rappresaglia dei nazisti se avesse disobbedito. Ma non era un nazista. Per cui, Silvio B. aveva dato a Schulz del detenuto, forse dell’ebreo, ma non del nazista nemico della libertà. Strano che nessuno all’epoca lo avesse rilevato.
No, la dipartita di cui vi voglio parlare è quella di un maestro. Un maestro schivo e riservato. Rimasto misconosciuto in Italia almeno fino a quando i fratelli Coen decisero di trarre un fortunato film dal suo romanzo Non è un paese per vecchi. Cormac McCarthy. Fin da quando l’ho scoperto, diciamo alle soglie del 2000, è entrato prepotentemente nel mio empireo di scrittori della vita. Gli scrittori che si amano visceralmente perché non solo scrivono dannatamente bene, ma provocano vere emozioni. Quelle che ti segnano e che poi ricerchi anche negli altri libri di quello stesso autore, perché sai che ha aperto una porta in te con chiavi di cui dispone solo lui e altri quattro o cinque, forse sei, non di più. La scrittura come sconvolgimento dell’anima. Ci sono un sacco di scrittori che si apprezzano, chi si leggono e si rileggono, di cui si sottolineano i brani, commentandoli a margine, riempendoli di riferimenti, note, rimandi (è per questo che preferirò sempre la carta a quel cazzo di kindle ― anche se in casi estremi lo uso), ma solo quel ristretto nucleo di scrittori ti segna per sempre. McCarthy è uno di questi. Ed è in buona compagnia, con altri due americani, un francese e uno svizzero. Il sesto potrebbe essere un canadese, ma solo perché in Canada ci è nato. Manca l’italiano, altrimenti sarebbe una barzelletta di Silvio B.. Uno solo di questi è ancora vivente, ma ha i suoi anni.
Avevo finito da una decina di giorni il suo penultimo libro, Il passeggero, come al solito mirabilmente tradotto da Maurizia Balmelli, la quale con un precedente volume dello stesso McCarthy, Suttree, pubblicato da Einaudi nel 2009 (ma era uscito negli Stati Uniti trent’anni prima, nel ’79), vinse il prestigioso premio Gregor Von Rezzori per la traduzione (e si tratta anche della stessa Maurizia che, quando ancora viveva a Torino, aggirandosi per una festa pensò bene di farmi sapere tramite la mia fidanzata di allora che ero un «grandissimo stronzo». Non credo ci sia stato un problema di Lost in translation, ma vi giuro che non ho mai capito il perché). Il passeggero è un romanzo che inizia come un thriller metafisico e si trasforma man mano in un incubo paranoide sul riverbero del rimpianto. Parte con un aereo caduto nelle profondità della baia del Mississippi con nove passeggeri, ovviamente tutti morti, come verificano i due sommozzatori incaricati del recupero, uno dei quali è Bobby Western, il protagonista. Western, come i quattro romanzi che hanno reso celebre McCarthy. Ma i servizi segreti cercano la decima vittima, che non si trova. E il problema è che l’aereo è ermeticamente chiuso e i due sommozzatori non sono riusciti a entrare. Quindi? Leggetelo e vedrete. O forse, leggetelo e non vedrete. Dwight Garner, il critico del «New York Times» ha candidamente detto che «altri scrittori saccheggeranno queste pagine per farne epigrafi per i prossimi 150 anni». Perché ogni frase ha la forza di una sentenza scolpita su pietra, è letteratura sintatticamente minimalista che gode di vitalità propria. Un paio di esempi, per farvi capire: «Il cordoglio è la materia della vita. Una vita senza cordoglio non è affatto vita. Ma il rimorso è una prigione. Una parte di te cui attribuisci grande valore resta per sempre impalata a un bivio che non riesci più a ritrovare né a dimenticare» (pag. 139). Oppure, lapidario come sempre: «La bellezza fa promesse che non può mantenere» (pag. 181), che si rispecchia quaranta pagine dopo in «Perché la bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccettabile alle altre tragedie» (pag. 221). E ancora, per definire con distacco il fervente zelo del protagonista, «sei uno che uscirebbe dalla doccia per pisciare» (pag. 236), cosa che avrei adorato dire a qualcuno con le stesse caratteristiche ma che non avrebbe avuto un effetto così immediato in questo mondo molto più pragmatico di quanto non sia quello letterario.
A settembre uscirà il romanzo complementare, Stella Maris, ambientato otto anni prima de Il passeggero e con protagonista la sorella di Bobby Western, Alicia, presenza costante ma ectoplasmatica del primo romanzo. Novità post mortem, poiché mai una donna era stata protagonista di un suo libro.
Di McCarthy si conoscono soprattutto Non è un paese per vecchi e La strada, per via del cinema. La strada, il romanzo, gli ha anche fruttato il Pulitzer nel 2007 e John Hillcoat ne ha fatto una buona trasposizione, trasformando le parole nella plasticità di un pesaggio allegoricamente angosciante. Ma chi lo conosce bene, sa che la sua bravura si trovava soprattutto in altri romanzi. McCarthy aveva uno stile tutto suo, che ha mantenuto pressoché inalterato per tutta la sua carriera. Ed era diventato proverbiale, per chi lo leggeva e per i molti che lo commentavano, spesso altri scrittori che ne ammiravano forma e sostanza. Dialoghi brachilogici, frasi disseccate, immediate, quasi una liofilizzazione ulteriore dell’essenzialità hemingwaiana. Battute immediate, mai mediate dalle virgolette. Una frase sotto l’altra, senza indicazioni di chi parlasse o della tonalità con cui lo dicesse. Come se fosse la trascrizione di un tetro teatro della quotidianità (mi sto allitterando un po’, scusate). Frasi minimali che nella vuota vastità del rigo sembravano captate dal nulla, espresse in quel modo perché estratte direttamente da un vuoto esistenziale soffocante. Un linguaggio dinamico, un batti e ribatti lessicale che ha molto ― per l’appunto ― dello stile sferzante e ritmico del cinema (quello migliore, non quello che si parla addosso e ti spiega tutto), pronto tuttavia al contempo ad aprirsi a squarci lirici di una bellezza sconcertante. Tipo questo:
«Nell’alba fredda, tutto quello squallido mondo stava tornando alla luce, e mentre viaggiava in silenzio, sul sedile posteriore del taxi che percorreva le strade e il loro risveglio, lei stringeva a sé il relitto di legno scolpito grossolanamente e in silenzio diceva addio a tutto ciò che conosceva e a ogni cosa che non avrebbe mai più rivisto. Disse addio a una vecchia avvolta in uno scialle nero, che era andata alla porta per vedere com’era il giorno, e disse addio a tre ragazze della sua età, che andavano a messa e camminavano con attenzione fra le pozzanghere che le piogge recenti avevano lasciato nella strada, e disse addio ai cani e ai vecchi agli angoli delle strade, e ai venditori ambulanti che spingevano i carretti nella via per cominciare la giornata, e ai negozianti che aprivano le porte, e alle donne che si inginocchiavano con il secchio e lo straccio per lavare le mattonelle dei vialetti di accesso alle case. Disse addio ai piccoli uccelli allineati sui fili della luce, lassù, che avevano dormito e ora si stavano svegliando, e i cui nomi lei non avrebbe mai conosciuto.»
Città della pianura, pag. 258-59
Altro che quel tronfio trombone di Manzoni, adesso che i miei lettori sono diventati ben più dei suoi 25. 😉
Parimenti, era poi capace di improvvise eruzioni di violenza selvaggia che rendevano l’universo ottocentesco una bolgia dantesca spietata e insostenibile, soprattutto in Meridiano di sangue, del quale quel pedante cagacazzo di Harold Bloom pensava che nessun altro romanziere americano (né DeLillo, né Roth, né Pynchon) avesse scritto un libro così apocalittico, possente e memorabile. Leggete qua, per capirci (non lo fate se siete impressionabili):
«La brigata intanto si era fermata e vennero sparati i primi colpi e il fumo grigio dei fucili ondeggiò tra la polvere mentre i lancieri rompevano le file. Il ragazzo sentì il cavallo crollare sotto di sé con un lungo sospiro compresso. Aveva già fatto fuoco col suo fucile e adesso si sedette a terra e armeggiò con la giberna. Vicino a lui c’era un uomo seduto con una freccia che gli penzolava dal collo. Era lievemente piegato in avanti, come in preghiera. Il ragazzo stava per allungare la mano verso la punta di moietta insanguinata ma poi si accorse che l’uomo aveva addosso un’altra freccia, immersa nel petto fino all’impennaggio, ed era morto. Dappertutto c’erano cavalli a terra e uomini carponi, e ne vide uno intento a caricare il fucile col sangue che gli colava dalle orecchie, e vide uomini col revolver smontato che cercavano di infilare al posto giusto il tamburo di riserva carico di pallottole, e vide uomini in ginocchio che si piegavano di lato ad abbracciare la propria ombra sul terreno, e vide uomini infilzati dalle lance e afferrati per i capelli e scalpati in piedi, e vide i cavalli da combattimento calpestare i caduti e un piccolo pony dal muso bianco con un occhio chiuso emerse dal buio e cercò di morderlo come un cane e poi scomparve. Tra i feriti alcuni sembravano muti e istupiditi e altri erano pallidi sotto le maschere di polvere e altri ancora se l’erano fatta addosso o si erano gettati inciampando e barcollando sulle lance dei selvaggi. Che ora cavalcavano come in uno spaventoso fregio architettonico, cavalli che si avventavano con gli occhi bianchi e i denti mozzi e in groppa uomini nudi con fasci di frecce tra i denti e gli scudi che barbagliavano nella polvere. Risalirono lungo il fianco della schiera frantumata tra il suono dei flauti d’osso scivolando giù sul fianco dei cavalli, reggendosi con un calcagno alla correggia legata al garrese degli animali e tenendo i corti archi sotto il collo dei pony, fino a quando non ebbero circondato la brigata e tagliato in due le file. Allora tornarono a raddrizzarsi come marionette, alcuni con volti da incubo dipinti sul petto, e si avventarono sui sassoni disarcionati e li colpirono con le lance e le mazze, e balzavano giù dai cavalli coltello alla mano, e correvano intorno con una strana andatura a gambe arcuate, come creature abituate a forme sconosciute di locomozione, e strappavano i vestiti ai morti e li afferravano per i capelli e passavano la lama indifferentemente intorno ai crani dei vivi e dei morti e strappavano via le capigliature insanguinate e tagliavano e mutilavano i corpi denudati, staccando membra, teste, sventrando quegli strani torsi bianchi e levando in alto grandi manciate di viscere e genitali. Alcuni dei selvaggi erano talmente pieni di sangue che avrebbero potuto rotolarcisi dentro come cani e altri si gettavano sui morenti e li sodomizzavano lanciando alte grida ai compagni. Ora i cavalli dei morti emergevano scalpitando dal fumo e dalla polvere e giravano in tondo con le briglie svolazzanti e la criniera arruffata e gli occhi bianchi di paura come quelli dei ciechi, e alcuni erano irti di frecce e altri trafitti da lance, e inciampavano e vomitavano sangue mentre correvano qua e là sul luogo del massacro per scomparire di nuovo scalpitando. La polvere si posava sulle teste umide e nude degli scalpati che, con la sottile frangia rimasta sotto il taglio e tosati all’osso, giacevano ora come monaci nudi e mutilati nella polvere lorda di sangue, e dappertutto i morenti gemevano e farfugliavano e i cavalli rovesciati a terra levavano i loro acuti nitriti.»
Meridiano di sangue, pagg. 56-58
La sua grandezza stava anche nella sua duttilità. Leggendo le precedenti frasi di Meridiano di sangue, diventa difficile pensare che fosse capace di esprimere anche grande tenerezza. Giudicate voi. Quello che segue è forse il momento più alto di Cavalli selvaggi, uno dei libri che compongono la cosiddetta Trilogia della frontiera, insieme a Oltre il confine e a Città della pianura. Brevemente: John Grady Cole, il protagonista, si è innamorato di Alejandra, la bellissima figlia di un ricco hacendado (il padrone messicano di un ranch). La frequenta di notte, perché il padre non sa nulla. Quando lo scopre, diventano cazzi, perché lo fa incastrare come complice di un omicidio di cui John Grady non sa nulla. Alejandra scongiura il padre di farlo liberare, dietro la promessa di non rivederlo mai più. E così è, anche se a malincuore, quando John Grady le chiede di sposarlo. Vi assicuro: strug-gen-te. Anche se disprezzate le soap opera. Una delle più belle storie d’amore che abbia mai letto. Questo è il momento del primo incontro notturno tra i due innamorati, in riva a un lago. Notate la preperazione dell’atmosfera, il contesto, l’integrazione del dialogo essenziale nella dinamica di un movimento abilmente suggerito. Un maestro, sì. Da far leggere a chiunque abbia una qualunque velleità di scrittura (menomale che ora un congruo numero di aspiranti scrittori migra verso l’accogliente e ampio spazio degli influencer, così non ci ammorba più) e da far riflettere chiunque scriva per mestiere rispetto a cosa sia lo stile, che tutti pensano di possedere naturalmente. E anche su quanto possa essere evocativa la scrittura, se utilizzata nel complicatissimo unico modo in cui si dovrebbe utilizzare. Ossia bene:
Di notte s’arrampicavano lungo il confine occidentale della mesa e si fermavano a due ore di cavallo dal ranch. Qualche volta lui accendeva un fuoco e le sedeva accanto a guardare le lanterne a gas dei cancelli dell’hacienda che galleggiavano nel lago di tenebre della pianura. Allora lei gli raccontava le storie della famiglia paterna e del Messico mentre le stelle cadevano a centinaia e le luci della valle sembravano muoversi come se il mondo girasse intorno a un altro centro. Al ritorno entravano in un laghetto e i cavalli, immersi fino al ventre, si fermavano a bere facendo oscillare e tremolare le stelle riflesse nell’acqua. E quando pioveva, sulle montagne il cielo era piú vicino e la notte piú calda. Una sera lui s’allontanò costeggiando la riva del lago tra i cespugli e i salici, scese da cavallo, si svestí ed entrò nell’acqua sospingendo il riflesso della luna davanti a sé verso le anatre che starnazzavano al buio. L’acqua era scura, tiepida, morbida come la seta, lui si immerse e allargò le braccia restando immobile poi, oltre la nera superficie immota del lago, la guardò ferma sulla riva accanto al cavallo, la guardò emergere dagli abiti ammucchiati ai suoi piedi, bianca come una crisalide che esce dal bozzolo, ed entrare in acqua.
Alejandra si fermò a mezz’acqua e si voltò indietro. Tremava ma non per il freddo perché freddo non faceva. Non dirle niente. Non chiamarla. Quando lo raggiunse lui le porse la mano e lei la strinse. Era cosí bianca nell’oscurità che sembrava ardere. Come un fuoco fatuo in una foresta buia. Che ardeva freddo. Ardeva freddo come la luna. I fluenti capelli neri le galleggiavano intorno nell’acqua. Lei gli mise l’altra mano sulla spalla, guardò la luna a ponente, non dirle niente, non chiamarla, e infine si voltò a fissarlo. Ancor piú dolce per quel piccolo furto di tempo e di carne, ancor piú dolce a causa dell’inganno. Le gru appollaiate su una zampa sola fra le canne della riva alzarono la testa sfilando il lungo becco nascosto sotto l’ala e li guardarono.
Me quieres? disse lei. Sí, disse lui. Poi la chiamò per nome. Dio, sí, disse lui.
Cavalli selvaggi, pagg. 140-141
Pelle d’oca. E «non per il freddo, perché freddo non faceva».
Uno che scrive così non muore mai veramente. Quindi questo non è un coccodrillo, è solo un post di ringraziamento per quanto ho avuto la fortuna di leggere.
Ciao, Cormac.
“Di che cazzo di film stava parlando Silvio B., quando disse che un produttore ne stava montando uno sui campi di concentramento?”
Vabbè, ho capito che prima di leggere i tuoi articoli devo avere sempre con me le bombole d’ossigeno.
(AHHAHHAHAHHAHAHAHAHHAHA)
una domanda o forse più.
che cosa ne pensi delle scuole di scrittura? e definirla creativa (la scrittura) non è pleonastico? e ancora, si può insegnare lo stile ?
elena
Domanda complicata.
Io sulle scuole di scrittura ho una mia idea. Non molto originale, ma tant’è.
Riassumo al midollo: possono servire sul piano strutturale, ma non sono mai decisive.
Ti possono forgiare, mai generare. E poi dipende sempre da chi ti fa la lezione creativa.
Dirò una cosa un po’ squallida sotto forma di domanda: quanti di quelli che tengono un corso di scrittura creativa avrebbero ancora bisogno di seguirne uno?
Se sei un grande scrittore, ma davvero grande, hai qualcosa da insegnare, anche soltanto sul piano della testimonianza. Pensa anche solo alle “Lezioni americane” di Calvino.
Se sei uno che ha avuto solo la fortuna di pubblicare, ma non sei affermato, stai lottando tu stesso per uscire dalle pastoie dell’anonimato: cosa mai dovresti insegnare?
E lo stile si assume, non si insegna. Lo stile è connaturato al tuo carattere e alla tua formazione culturale.
Esagero: è la pulsione naturale mediata dall’istanza di formazione individuale. Qualcun altro può fornirti un Es creativo e scolpirlo in funzione del tuo Super-io, che è sempre derivato dalla tua storia, dalle tue esperienze esistenziali e culturali?
Sono convinto di no.
Ovvio che alla fine, ma come risultante di un perfetto sillogismo, tutto risulti un po’ pleonastico.
Ma è solo la mia idea. Conta per quello che è.
c’era un film di Zulawski di parecchi anni fa di cui non ricordo nulla se non il titolo che mi piaceva “le mie notti sono più belle dei vostri giorni”. ecco io potrei dire che le tue risposte sono più belle delle mie domande e non solo perché le condivida, ma per il modo in cui sono scritte.
detto ciò, da un po’ di tempo apro libri che sono recensiti entusiasticamente e sono bloccata dalla scrittura che non mi piace. uno potrebbe dire e chi ti credi di essere. nessuno. però lo stesso faccio fatica a trovare una scrittura distintiva, possente, memorabile. Hai letto o leggerai o hai sentito parlare di “Ferrovie del Messico”?
Grazie. Ciao!
Non si tratta di essere qualcuno o no per decidere se ti piace lo stile di scrittura. Perché al cinema lo facciamo costantamente e non ci facciamo neanche caso? Forse la letteratura erige un filtro culturale che esige un maggiore rispetto/timore reverenziale? Quindi il cinema è sempre “passatempo per iloti”, come diceva con disprezzo Georges Duhamel? Se lo stile non ti piace, non ti piace. Se non trovi la scrittura “distintiva, possente, memorabile” è tuo diritto rifiutare il prodotto, anche solo per il fatto che hai pagato il libro che stai rifiutando.
E non mi sembra neanche così eccentrico non ritrovarsi così comunemente negli stili: molti hanno da raccontare cose interessantissime non suffragate da uno stile adeguato, così come molti altri avrebbero anche uno stile originale ma poco da condividere narrativamente. Quando le due opzioni s’incontrano, di solito è amore. Ma è raro, se no si sarebbe tanto immaturi, n’est-ce pas? Non puoi mica innamorarti sempre.
Di “Ferrovie del Messico” m’interessai lo scorso anno, credo maggio/giugno, quando il libro uscì. Lessi un paio di recensioni particolarmente favorevoli ma poi non lo acquistai/lessi perché fu superato da altri eventi.