Moi, un afro-américain

Moi, un afro-américain

Come dicono, quando sembra che vi vogliano fare un favore che nessuno, tra l’altro, gli ha chiesto? “Visti per voi”. In realtà “visti per me”, e poiché non mi capitava da tempo di inanellare una serie di tre film particolarmente soddisfacenti nell’arco di ventiquattr’ore, cerco di tirarne un po’ le fila, unendoli su un fronte comune, peraltro del tutto arbitrario. Fronte comune di cui si parla tanto, in quest’ultimo anno, come se si trattasse di un problema solo dell’ultimo anno. No, non è il covid, di cui, con tutto il rispetto, ci siamo abbondantemente rotti il cazzo, perché già schivarlo è sfibrante, conviverci una necessità, farsi iniettare un vaccino ricavato dagli scimpanzé la giusta misura della propria presunzione, ma parlarne in continuazione mostra una vocazione al martellamento sui coglioni che è difficile, oltre che controproducente, tollerare. Anche adesso che il tanto atteso governo Draghi, pure lui Black Messiah, sta mostrando un’inversione di tendenza tale da aver fatto un giro completo su se stesso per ritrovarsi al medesimo punto di partenza. Ma d’altronde, si sa, la lezione è sempre la stessa, fin dal vecchio adagio del giovane Tancredi a suo zio, il principe Salina, in una delle prime ammissioni di cinico paraculismo dell’Italia unita.

Durante un comizio delle Black Panther, Daniel Kaluuya fa le prove del discorso di ringraziamento per il Golden Globe

No, il tema è un altro, e sinceramente ci appassiona di più. Judas and the Black Messiah, Fino all’ultimo indizio e Waves sono tre film molto differenti tra loro per impianto, ambientazione, modalità di rappresentazione e significato ma insieme forniscono un ritratto articolato e quanto più completo possibile di come possa essere raccontato l’afroamericano oggi. Che non è solo denuncia e rimostranza, seppur ci sia (Judas), ma un ampio affresco di eventualità che finalmente non fanno del nero solo una vittima sacrificale su cui imbastire un revanscismo che spesso ha poca aderenza con la brutale realtà quotidiana, quanto un vero protagonista, valido per narrazioni complesse che, pur conservando una chiara identità, sono prive di una precisa e talvolta limitante connotazione razziale. Judas and the Black Messiah di Shaka King, in questa prospettiva, è la narrazione più canonica. Ancora non distribuito su piattaforme di streaming in Italia e particolarmente apprezzato all’ultimo Sundance, è la storia (vera) dalle risonanze cristologiche di un infiltrato a libro paga dell’FBI, che è sempre stata ossessionata dai neri non tanto perché neri ma in quanto comunisti (per le letture relative all’omosessualità latente di J. Edgar Hoover rivolgersi invece agli psicoanalisti di scuola freudiana). L’ipotesi accusatoria è verso il potere governativo bianco, pronto a costringere afroamericani senza speranza a tradire il giovane presidente delle Black Panthers Fred Hampton. Hampton è interpretato da Daniel Kaluuya, premiato come miglior attore non protagonista agli ultimi Golden Globes, ed è la sua prova d’attore a impedire che Judas and the Black Messiah si possa considerare un film canonico, come dicevo prima. Perché se il racconto e la struttura non sorprendono certo per originalità (l’infiltrato sedotto dall’onestà e dal carisma di colui che deve tradire è una narrazione-tipo: anche senza discendere fino ai Vangeli, è roba che si vede in ogni film sull’FBI) e lo stile non mostra strappi che meritino una trattazione a parte, è proprio come Kaluuya interpreta la vittima sacrificale Hampton a fare la differenza, con la sua capacità di passare senza soluzione di continuità dai comizi ditirambici in cui le parole assumono la cadenza di un mantra ossessivo e rappizzato, alla tenerezza del rapporto con la poetessa Deborah Johnson, a cui dona un’anima sensibile Dominique Fishback, talmente sensibile da riuscire quasi a tradursi in un’iconica emanazione di versi dello stesso personaggio.  

Jon Deacon guarda attraverso uno specchio segreto ma rivede solo se stesso nei panni di Denzel Washington

È quasi omonimo del bassista pettinato peggio della storia del rock (rock nell’accezione ampia del termine, ok) e invece è solo un ex detective, il Joe Deacon interpretato da Denzel Washington in Fino all’ultimo indizio (su qualunque piattaforma a prezzi folli e improponibili, dai 12.99 € di Infinity ai 14.99 di Chili, Rakuten tv, Tim Vision, Google Play). Deacon, detto “Deke”, è solo incidentalmente afroamericano, in realtà è un uomo una volta stimato nel suo dipartimento e che a causa di un caso irrisolto è sprofondato in una lunga crisi che lo ha relegato a vicesceriffo di una cittadina di provincia in cui l’eccitazione massima è fare la multe agli scapestrati che superano il limite di velocità. Ora ha la possibilità di un riscatto, chiamato a collaborare a un caso simile per le sue competenze passate da colui che di fatto lo ha sostituito, un giovane detective arrogante e particolarmente sicuro di sé (Rami Malek, il quale, a proposito di Deacon, era Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody). Sul personaggio di Deacon, sulla sua crisi e su un passato rivelato attraverso flashback progressivi, aleggiano i fantasmi di Dürrenmatt e di True Detective, innegabile, ma il senso incantato, perennemente sospeso, quasi rarefatto della narrazione, che John Lee Hancock riesce a domare e incanalare molto meglio rispetto ad altre volte, è parte di una tradizione nera che arriva direttamente dal Secondo dopoguerra e che dipende da una sceneggiatura scritta da Hancock nell’ormai lontano 1993. Fino all’ultimo indizio è infatti un titolo italiano fuorviante: punta sul versante mystery della storia che invece è solo uno specchietto per le allodole valido per la prima metà del film; in realtà, l’inchiesta si avvita su se stessa non appena s’individua un sospetto e il tutto si trasforma in un thriller esistenziale fondato sul nulla, uno straordinario esempio postmoderno di noir al neon che lavora sul valore della rimozione, sulle nevrosi e sulle ossessioni dei protagonisti, sull’intensità dello sguardo come mezzo per rivedere se stessi nel trauma e oltre il trauma. E con un finale stupefacente, che pacifica le coscienze aprendo di fatto una voragine, sulle possibilità logiche del racconto e nella psiche dei personaggi coinvolti. Che Denzel Washington sia nero, bianco, giallo o verde è assolutamente indifferente: nessun accenno, neanche en passant giusto per infarcire la matassa, è dedicato alla questione razziale. La sua è la presenza fondamentale di un divo che fa apparire il povero e striminzito Malek un apprendista ― pur essendo per lui una fase artistica particolarmente propizia ―, non il risvolto problematico di un film che ha come protagonisti due attori molto lontani dall’essere Wasp, impippandosene bellamente.

La macchina da presa di Shults turba anche i momenti di intimità mostrandosi quando meno te l’aspetti

Allo stesso modo opera Waves – Le onde della vita (su Sky e Now tv), che per circa un’ora mi ha fatto pensare all’ipotesi di un capolavoro. Una macchina da presa mobilissima, apparentemente sganciata da ogni preoccupazione drammatica, volta a rincorrere un’estetica del circolo chiuso per rispecchiare l’universo altrettanto asfittico ma camuffato da spensierato del protagonista della prima parte, Tyler, figlio afroamericano di una famiglia borghese (niente ghetti, esistono anche i neri inseriti, non c’è solo Obama) che ha puntato forte sul suo successo sportivo come lottatore. Il mondo di Tyler, però, allo stesso modo degli equilibri solo apparentemente perfetti tratteggiati dalla messa in scena, va in frantumi per un accavallamento di imprevisti e da lì alla tragedia il passo è sempre più breve di quanto si pensi (toccate ferro. Ferro, ho detto!, non fate i mitomani!). Trey Edward Shults, il giovane regista, scuola Terrence Malick ed esperienza anche sul set di Jeff Nichols (in quel gioiellino che è Midnight Special), è uno che il cinema lo sa fare. Anzi, a volte ne abusa, come quando cambia ripetutamente la ratio del formato dell’immagine, passando, a volte anche in rotatoria continuità, ma giusto per buttartela lì che è proprio un virtuoso, dall’1,85: 1 al 2,35: 1, arrivando a toccare gli estremi dell’1,33: 1, che è il formato dei film anni ’30 e ’40 che si usa ormai solo per fare i blasé d’antan, e addirittura il 3,00: 1, che nel cinema non utilizza (ancora) nessuno, perché è una tamarrata digitale che rende lo schermo un fac-simile delle cartoline panoramiche (che erano stucchevoli già negli anni Ottanta, figurati adesso). Eccentrico anche nella struttura, con una seconda parte che accantona Tyler per rendere protagonista la sorella minore, Emily, raccontando il suo complicato tentativo di elaborare il dramma patito a livello familiare. E il film cambia radicalmente pelle, come se si trattasse di due film in uno intrecciati narrativamente attraverso il cordone ombelicale del legame di sangue, assumendo nello stile differente, più lineare e compassato, quasi normalizzato, la diversa personalità di una ragazza che vivendo la passione trattenuta di una storia sentimentale cerca solo di dotarsi di quel rilievo di cui in famiglia non ha mai goduto.

I protagonisti sono afroamericani, si diceva, il regista è bianco, così com’è bianco il fidanzato di Emily (Lucas Hedges, sottotraccia ma intenso come spesso gli accade). Non si accusa e non si rivendica, essere neri o bianchi è solo un mélange in un universo che ha perso i suoi confini e non marca le differenze. Ma è una testimonianza ulteriore di come si possa narrare il nero oggi, facendone non solo un personaggio orgoglioso delle sue storiche ferite, ma anche, finalmente, un semplice essere umano tra gli altri esseri umani. Che può, per di più, ritirare un premio come grande attore tra gli altri grandi attori, non come minoranza da preservare.

Fino all’ultimo indizio come una trottola esistenziale

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.