[tempo di lettura, se si sono superate brillantemente le elementari: 7 minuti]
Se uno ha mantenuto rigorosamente fede prima all’hashtag #iorestoacasa, poi all’ingiunzione di un decreto che non tutti hanno recepito come un atto di rispetto e civiltà, allora sono più o meno tre settimane piene che non si mette il naso fuori, in strada. Constato, non mi lamento. Né sbrocco. Staziono. Condivido spazi. E lo faccio, come lo fate tutti d’altronde, per un margine di tempo totalizzante, ben oltre le consuete tre-quattro ore dei periodi di normalità, quei momenti lontani in cui ancora uno sternuto nell’arco di cinque metri ti spingeva ad augurare «salute» e non a metterti in guardia con i pugni alti in attesa dell’imminente attacco. L’abbiamo accettato, ormai: siamo bloccati. Non solo con chi vive con te, con i quali sperimenti nuove forme di convivenza, ma anche con chi ti circonda, bloccato in casa come te. Ora, se non vivi in un maniero del Trecento o in una sala di registrazione, i muri divisori dell’edilizia abitativa, si sa, sono tutto meno che insonorizzati, ragion per cui, pur non volendo, non potrai esimerti dall’allargare il tuo orizzonte di quarantena anche a chi ti circonda. A chi t’inguaina, di fatto, in un bozzolo fatto di rumori e sensazioni estranee che invadono la tua porzione di spazio e che diventano inevitabilmente parte della scansione delle tue stesse ore.
L’inquietante tosse secca proveniente dal piano di sopra che si fonde con quella del protagonista del film che stai vedendo, obbligandoti al rewind per capire chi stia effettivamente tossendo (entrambi: contemporaneamente); lo squittìo insistito insinuatosi dal piano di sotto che non riesci a collocare fino a quando non realizzi che si tratta del fratello piccolo vessato da quello più grande; le telefonate urlate recepite nel minimo dettaglio che arrivano dal fianco destro, l’urlo incattivito «SONO LE 11!» che ogni sera s’inocula improvviso dal lato sinistro, indirizzato agli inquilini del piano di sopra del lato sinistro che probabilmente danzano in casa, in una connessione perpetua potenzialmente senza fine, fatta di incastri successivi e diramazioni sconfinate.
Nei dieci minuti d’uscita (per acquistare beni di prima necessità, ovvio) di qualche giorno fa, ho incontrato il mio dirimpettaio a pascolo con il suo cane. Un saluto al volo a tre metri di distanza, che è la nuova forma di socialità che il coronavirus probabilmente ci lascerà in eredità, e poi la scelta sbagliata di affidargli un saluto anche per la moglie. «Se non l’ammazzo appena salgo» è stata la risposta, figlia di uno spazio condiviso diventato attrito. Io ho abbozzato una risata compressa giusto per togliermi dall’impiccio ma ho subito pensato che se avessi il vizio di affacciarmi e osservare cosa succede nelle case altrui, probabilmente la diramazione di cui sopra sarebbe ancora più sconfinata. Non c’è niente di più affascinante di una lite in famiglia, ha detto Tolstoj, o forse era Jonathan Franzen (la battuta è però di Stephen King), ma il rischio in questi giorni di cattività di trovarsi in una situazione simile a quella di James Stewart ne La finestra sul cortile non è assolutamente da scartare. È vero però che tende e finestre chiuse renderebbero impossibile individuare un uxoricidio e che forse la stessa insistenza nel tentare di scorgere il crimine con un cannocchiale all’infuori delle ore deputate per l’Inno di Mameli e per l’Italiano di Toto Cotugno sarebbe considerato dagli altri vicini quantomeno sospetto, se non condannabile, tenendo ben presente che un giorno, quando nella migliore delle ipotesi si tornerà in strada, non sarebbe affatto bello farsi indicare come voyeur. Sulla scorta dei tantissimi epigoni di Hitchcock (uno di questi, Marshall Curry, modulando con grande sensibilità il tema ci ha anche vinto l’Oscar per il miglior cortometraggio solo due mesi fa), ci si può sempre augurare di affacciarsi e rimanere ipnotizzati dalla conturbante danza di una fanciulla che si spoglia nella casa di fronte ben sapendo di essere guardata, come accade a Craig Wesson in Omicidio a luci rosse di Brian De Palma; ma dando un rapido sguardo all’esterno, credo sia più probabile l’assassinio. Magari occhieggiando da una finestra rimasta inavvertitamente semiaperta, così come succede ne La finestra socchiusa a un bambino insonne, testimone dell’efferato omicidio di un malcapitato nell’appartamento sopra al suo ma ritenuto tutt’altro che affidabile per le mirabolanti balle che da sempre inventa. È questo un piccolo gioiello noir colpevolmente sconosciuto, diretto nel 1949 da Ted Tetzlaff, la cui attività come regista è altrettanto sconosciuta ma che è pur sempre stato il direttore della fotografia di Notorious di Hitchcock (e quindi il responsabile della celebre calata del dolly dalla sommità delle scale fino al palmo della mano in cui Ingrid Bergman nasconde la chiave decisiva per gli eventi successivi). Sia questo film, sia La finestra sul cortile sono tratti da due splendidi racconti di Cornell Woolrich: per lui una quarantena sarebbe stato uno scherzo, abituato com’era a vivere relegato nella casa newyorchese della madre ben prima di qualunque Lockdown, a causa ― diciamo così ― della sua scarsa socialità. Nonostante si affacciasse pochissimo perché costretto a scrivere a ritmi vertiginosi per guadagnarsi da vivere, ogni volta davanti alla sua fervida e malata immaginazione si apriva tutto un mondo di eventualità criminose. Nel suo caso, però, non era tanto un problema di vicini, quanto del modo in cui ne rileggeva l’intima natura.
Bisogna fare comunque sempre attenzione, perché l’insistenza su una finestra dirimpetto a lungo andare provoca sempre un lampo di incipiente follia, come succede al povero Trelkowski che affacciandosi vede un altro se stesso ne L’inquilino del terzo piano di Roman Polański. E parlando dei vicini di casa di Polański diventa difficile capire cosa sia meglio ai fini della dissoluzione dell’individuo, se specchiarsi nella finestra di fronte o subire l’influsso nefasto di due arzilli vecchietti adoratori del demonio che invadono casa tua mentre aspetti un bambino, solo perché tuo marito, giovane attore, quel tuo bambino ancora in gestazione lo ha svenduto per arrivare al successo, come in Rosemary’s Baby (o come un Faust per interposta persona). È indubbio che l’arzillo vecchietto della porta accanto non sempre prepara a tempo perso un sabba, ma la fragile creatura che incontrano Ben Stiller e Drew Barrymore in Duplex di Danny DeVito diventa ugualmente un incubo catastrofico che provoca la distruzione dell’intero appartamento. A partire dal soffitto, crollato per un mix letale fatto di umidità e allegri passi di danza dell’anziana signora sul capo del povero Ben.
La distruzione di una barriera strutturale, sia essa un solaio o una parete divisoria, solo in alcuni casi è sinonimo di catastrofe. In certe situazioni è tentativo grottesco di frode, come nell’abbattimento della parete sbagliata che mostra in tutta la sua nuda eloquenza il fallimento del colpo ne I soliti ignoti oppure come in Lock & Stock di Guy Ritchie, quando il sottile muro sfondato con la testa dal membro di una banda di rapinatori svela la responsabilità degli insospettabili vicini nel furto di un ingente bottino che la banda custodiva in casa. In altre occasioni, invece, l’attraversamento delle barriere architettoniche muta completamente il suo segno trasformandosi in esigenza di contatto, in impellente bisogno di evadere da una solitudine imposta da eventi particolari, basterebbe pensare al foro nel solaio che, guarda un po’ il caso, in tempi di pandemia consente l’unione tra due depressi inquilini in The Hole di Tsai Ming-liang o al buco nel muro della cella di Un chant d’amour di Jean Genet che incoraggia due detenuti a soffiarsi il fumo di una sigaretta per mezzo di una cannuccia, in una metafora ante-litteram di un glory hole.
In quest’ultimo caso, pur comprendendo l’astinenza: don’t try this at home! Pensate sempre a chi avete di fianco e se davvero vi conviene trivellare un foro con il trapano del Meccano che poi, finita la quarantena, campeggerà impietoso a perenne monito della vostra impazienza (o peggio, del vostro gusto dell’orrido). Meglio andare distrattamente a innaffiare la pianta che vi siete tenuti saggiamente nel pianerottolo e sperare di fare un incontro estetizzante in bicromia giallo-rossa, manco fosse Christopher Doyle a riprendervi in In the Mood for Love, oppure di imbattervi in Gwyneth Paltrow, nuova ed espansiva inquilina di uno stabile signorile di Brighton Beach, Brooklyn, come capita in Two Lovers di James Gray. Se la incontrate davvero, però, tornate subito dentro dopo l’annaffiatura e non fate i brillanti: è davvero la ragazza sbagliata e voi siete reduci da due tentativi di suicidio (spoiler).
Chiudetevi la porta alle spalle e non aprite a nessuno, in nessun caso. Tra l’altro, non si sa mai, potrebbe essere Gary Oldman con la sua banda che in Leon impazza sul vostro piano. Guardatelo dalla spioncino ma non date segni di vita, perché vi assicurerà di essere assolutamente calmo mentre spara un colpo di pistola contro un vetro. E per di più non ha neanche la mascherina.
Attendete pazientemente. Finirà. Tutto finirà, anche questi film. Usciremo e faremo cose mai fatte prima. Abbracceremo tutti, anche la dirimpettaia, se il marito la risparmierà.