L’uomo invisibile

L’uomo invisibile

Come mi sarebbe piaciuto discutere con voi della memeficazione di Nicolas Cage che ho visto e apprezzato in Dream Scenario. E invece no, meglio parlare di altro seguendo il flusso di quel po’ di ragione che ancora ci resta. Oggi è il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza quanto mai attuale, ahimé. Ahinoi. L’avete seguita tutti nell’ultima settimana, purtroppo, e se non lo avete fatto avete il pieno diritto di cullarvi nella vostra totale alienazione: il caso di cronaca che ha catalizzato l’attenzione dell’opinione pubblica è stato l’omicidio della povera Giulia, vicenda chiara nella dinamica fin da subito ma su cui tutti hanno coltivato illusioni irrazionali di un finale diverso. Che ovviamente non c’è stato.

E quindi di nuovo sono ripartiti i drammatici conteggi di quante donne siano state uccise nell’ultimo anno e via alla solita corsa alla sensibilizzazione, acuita, questa volta, da una storia che ha tenuto chiunque con il fiato sospeso. Molto di quello che si sente obiettare sul piano etico è difficile da confutare; molto altro, soprattutto ciò che proviene dalla politica, è pura demagogia, perché frutto di slogan che vogliono trasformarsi in prassi educativa senza possedere il senso reale delle cose. Tutti i tentativi di minimizzare sono perfetti esempi di arrampicata sugli specchi che stridono molto di più della formazione fascistella di chi li esprime. Fatto sta che tutti, chi più chi meno, chi attraverso il pronunciarsi quotidiano, chi indignandosi più degli altri per mostrare la sua rabbia un tanto al chilo, chi attraverso post che non mettono mai d’accordo tutti perché interpretati secondo l’umore del momento, chi ergendosi a paladino della giustizia morale, chi stando in rispettoso silenzio ma pensandoci forse più intensamente degli altri, inevitabilmente tutti ne siamo stati coinvolti. E questa volta anche di più, proprio per la vividezza narrativa della vicenda, vissuta giorno dopo giorno durante un’assurda settimana.

Dopo, ovviamente, ognuno fa il suo, quasi a sciacquarsi velocemente la cattiva coscienza collettiva che si rispecchia in ciascun individuo. E ognuno dice anche la sua, come se non bastasse. E qui diventa un problema, perché parlare è facile, dire cose intelligenti è un passaggio successivo che si verifica molto più raramente. Lasciate perdere ciò che afferma la signora della porta accanto o l’anziano che incontrate all’ipermercato, condizionati come sono dall’ondata emotiva del momento; prendete la politica, nelle parole della quale l’ondata emotiva del momento si traduce nel qualunquismo di quello che vi-volete-sentir-dire-per-saziare-il-vostro-frustrato-impulso-vendicativo. E che loro inevitabilmente dicono. L’educazione all’affettività deve partire dalle scuole! Istituiamo l’ora di educazione ai sentimenti!, come se la scuola non lo facesse già, ben prima che si svegliasse la poltica. Per di più: come se la scuola non edificasse educativamente alcuni castelli di carta che poi sono spazzati via con un rutto roboante dai modelli familiari acquisiti in casa. Fate un rapido calcolo: quanto stanno i ragazzi a scuola? Dalle 5 alle 7 ore al giorno. Quando sono presenti. Le altre 17 o 19 ore stanno a casa. O in giro. O attaccati allo smartphone. Possibile fornire dei modelli sani di comportamento per gli anni a venire grazie a un’ora a settimana, l’equivalente dell’incidenza che ha l’ora di religione? A quante vocazioni abbiamo assistito negli ultimi trent’anni? Però lo devi fare, è importante che la scuola lo faccia. Certo, lo è, non si può ignorare ed è giusto partire dalle basi di quest’analfabetismo affettivo mentre si cerca di combattere l’analfabetismo funzionale. Ma non lo deve stabilire quella stessa politica che mostra il suo grande trasporto discutendo il disegno di legge Roccella sulla violenza sulle donne in questo modo. Fottendosene (guardate qua sotto, va’).

Siccome la scuola, malgrado i problemi e la sua qualità sempre discutibile, è sempre meglio di questi quattro mentecatti qua sopra (forse sei, contandoli bene, ma sempre mentecatti sono), si è attivata da tempo e ogni tanto rinfresca la memoria del suo ruolo. E ne parla. Eccome se ne parla. E fa parlare gli allievi. Immagino sappiate o perlomeno immaginiate voi stessi quanto sia utile sentirli parlare per capire quali siano i loro timori, le aspirazioni, il pensiero sulle cose. Che tutti danno sempre per scontato senza essere mai essere entrati in un’aula. Ma non è mia intenzione di sembrare un don Milani dedito all’imprecazione o uno di questi influencer da social che mentre fanno un esperimento ammiccano implicitamente su quanto siano fighi loro e merde gli altri. Non me ne potrebbe frega’ de meno. Voglio solo arrivare a dire che (la scuola) mentre ne parla, con materiale vario e con la sensibilità di cui ognuno dispone, mostra. Perché come ci siamo detti più volte, anche qua sopra, se si vuole arrivare a far comprendere una questione non si può prescindere dalla cultura visiva, che arriva sempre prima, soprattutto adesso, rispetto a mille parole che cercano con difficoltà la strada più opportuna.

Per cui, come piccolo contributo a una discussione molto più ampia e drammatica, vi elenco velocemente quello che da lunedì proporremo alle nostre classi nell’ambito di un’Unità di apprendimento che include anche una breve rassegna cinematografica sulla violenza di genere, giusto per fissare alcuni concetti e rielaborarli come spunto di discussione. Perché i film sono didatticamente utilissimi, a patto che siano usati sempre secondo una logica triadica inalienabile: ossia, che rispondano ai requisiti di linguaggio post-moderno, narrazione quanto più immersiva possibile e marcata tendenza all’identificazione. Se non hanno queste tre caratteristiche, non vi lamentate se durante la proiezione gli allievi si fanno i cazzi propri o dormono, è colpa vostra che avete proposto un film che piace (solo) a voi, non a loro. E non fate i cinefili, perché è il modo migliore per farsi odiare e per far guardare loro solo più video di TikTok.

Dunque, la rassegna consta di tre film. Non importa che siano i migliori film sul tema, come vi ho detto prima, ma siccome sono indicativi, ognuno a suo modo, sono quelli che arrivano dritti al punto. Che è quello che conta.

1. Mia (di Ivano De Matteo, 2023)

Durante tutta la settimana della vicenda di Giulia è il film che mi è venuto in mente più spesso, perlomeno per la prima metà. Mia, figlia di Edoardo Leo dal nome quanto mai indicativo di una certa forma di possesso malato, è l’adolescente che cambia improvvisamente atteggiamento perché conosce un fidanzato tamarro e manipolatore che la fa piano piano appassire fino a costringerla a un punto di (possibile) non ritorno. Mia è soprattutto un film sulle reazioni della famiglia e in particolare del padre, perché è anche giusto conoscere, visto che i ragazzi ci pensano solo trent’anni dopo, quando la ruota girerà anche per loro, cosa provano le famiglie di fronte a un mutamento repentino dei propri figli, che per questi ultimi è crisi o depressione, per gli adulti è autentico dramma. Ivano De Matteo è un regista interessante, perché annusa le sensazioni della gente che in altre mani diventano un polpettone banale, mentre lui riesce sempre a mantenere una certa misura. Qua dosa la narrazione creando il giusto tono di indignazione, che non è veicolato, né esagerato, è solo assecondante rispetto al pubblico. Fino a un certo punto, però, perché quello che alla fine emerge, tra gli spigoli della tragedia, è un senso di scorata impotenza.

2. Una donna promettente (di Emerald Fennel, 2020)

Qua invece il senso di vendetta trova la sua soddisfazione. Una ragazza traumatizzata da un drammatico evento del suo passato si trasforma in una sorta di predatrice d’assalto per far comprendere agli uomini cosa si provi nell’essere vittima. Una fantastica Carey Mulligan, mantide religiosa pronta alla fustigazione dell’altro genere (forse un tantino troppo matura per il ruolo che ricopre, ma allora cosa dire del James Stewart studentello di legge a 54 anni ne L’uomo che uccise Liberty Valance?), vive un trauma mai davvero elaborato, solo accantonato, preda di una sorta di fantasma inconscio impossibile da rimuovere che la scinde e la raddoppia, la muove lacerandola. Emerald Fennel, all’esordio alla regia dopo aver scritto la sceneggiatura della fortunata serie Killing Eve, gioca sullo spazzamento e sul ribaltamento delle prospettive e delle attese del pubblico, ogni tanto eccede nella facile simbologia, ma costruisce una sottile morality play come ai tempi di Shakespeare che scava nelle pieghe della colpa e s’interroga sui limiti del consenso. Vi ricordate quando alla festa del liceo la figona della classe vi diceva «No, no, no» e voi cercavate di baciarla lo stesso? Ecco, quello.

3. Anche io (di Maria Schrader, 2022)

Ancora Carey Mulligan, che rischia di trasformarsi in un’instant icon dei diritti cinematografici delle donne, in un film che ha la stessa solida struttura del capostipite d’inchiesta Tutti gli uomini del presidente (e de Il caso Spotlight) per raccontare com’è scoppiato lo scandalo degli abusi sessuali a Hollywood che ha coinvolto Harvey Weinstein e ha originato il #metoo, dopo il quale, occorre dirlo, niente sul quel versante è stato più come prima (se vi capitasse, senza che sia particolarmente memorabile, date uno sguardo anche a Harvey, romanzo di Emma Cline). Le due giornaliste del New York Times protagoniste (Mulligan e Zoe Kazan) squarciano coraggiosamente il muro del silenzio e rivelano al mondo l’uovo di Colombo, cioé quello che tutti sapevano ma che era in qualche modo socialmente accettato, dato per scontato e magari accolto con qualche battutina sprezzante sulla troiaggine delle aspiranti star, disposte a svendere se stesse per un posto in paradiso (d’altronde la regola dei provini nella Hollywood classica era quella del casting couch, che non credo abbia tanto bisogno di una traduzione per essere chiara; così come un celebre libro di una coppia di giornalisti inglesi riuniti in un solo nome, Selwyn Ford, s’intitolava Il sofà del produttore e raccontava i metodi di assunzione fin dall’epoca del muto). Mentre gli altri due film sono storie possibili, questa è la vera storia di com’è cambiato radicalmente un modo di intendere, per una sorta di rivoluzione copernicana nelle relazioni, nei rapporti di forza, nella rivendicazione di una dignità umana, ancor prima che di genere.

Quella che avete appena letto è una proposta. Quella che farò io ai miei allievi di una scuola secondaria di secondo grado. Altre sono possibili, basta miscelarle con criterio. I titoli, soprattutto negli ultimi anni, sono proliferati. Eccone alcuni: L’uomo invisibile di Leigh Whannell (2020), che rifà un classico del fantastico del ’33, a sua volta tratto da Herbert G. Wells, per inserire la sopraffazione di genere in un’accattivante e metaforica confezione horror. Midsommar (2019), nel quale la rinascita a cui allude la festa nordica del titolo diventa nelle mani di Ari Aster una forma di cruenta liberazione dalla meschinità maschile. Mai raramente a volte sempre di Eliza Hittman (2020), un film sull’autodeterminazione femminile a tutte le età e sugli abusi lascivi sul posto di lavoro. Lo stilisticamente rigoroso Beginning della regista georgiana Dea Kulumbegashvili (2020), in cui il corpo di una donna insoddisfatta, che ha accettato di sacrificare le sue aspirazioni per la famiglia, diventa ipotesi di ricatto nei confronti del marito, capo congregazione dei Testimoni di Geova, da parte delle istituzioni che pur lo dovrebbero difendere (ma questo non fatelo vedere: al terzo pianosequenza potrebbero tirarvi qualcosa addosso; non facciamo diventare la violenza sugli insegnanti un altro problema di cui la politica si debba occupare).

Mi fermo qui per non risultare stucchevole. Mostrate, fate partecipare, coinvolgete. Non aspettate che siano i politici a darvi un’imbeccata di cui si attribuiranno comunque il merito. Mandateli dove meritano, cioé a fanculo (grillini compresi, malgrado il diritto acquisito sul termine) e formate autonomamente dei veri cittadini rispettosi delle esigenze altrui e capaci di amare, non di garantirsi ossessivamente una certezza puntando a possedere. Non dategli retta, non è solo la scuola che lo deve fare; troppo comodo, è un dovere di tutti. Che nessuno si tiri indietro.

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.