Ahimè e ahitutti, a parte i ministri 5Stelle, George Floyd è il nome qualunque più famoso del momento. E prima di lui, Trayvon Martin, Michael Brown, Laquan McDonald, Tamir Rice, Freddie Gray ecc. ecc. ecc. Minneapolis come Los Angeles nel 1992, quando la comunità nera insorse a seguito del pestaggio senza colpevoli di Rodney King, che divenne subito un’icona antirazzista (poi inevitabilmente dimenticata, come tutte le origini dei simboli: chi sa che è morto accidentalmente nel 2012, ritrovato sul fondo di una piscina?). Un simbolo a cui inneggiarono prima Spike Lee (Malcolm X si apre con le immagini del suo pestaggio) e poi Ben Harper (che gli dedicò la canzone Like a King), solo per citare i più celebri (ma volendo, ci sarebbe anche Frankie hi-nrg).
E solo pochi giorni prima di Floyd, sarebbe potuto diventare tristemente noto anche il nome di Christian Cooper, colpevole di aver chiesto alla padrona di un cane lasciato libero a Central Park di tenerlo al guinzaglio e per questo accusato dalla ragazza di aggressione, se lo stesso Cooper non avesse ripreso la scena con il suo smartphone e sputtanato l’isterica cinofila.
Certo, forse conveniva più essere un uomo invisibile, come scriveva Ralph Ellison, piuttosto che un corpo da distruggere come effetto del mantenimento dell’ordine, come afferma Ta-Nehisi Coates. È davvero aumentato il razzismo negli Stati Uniti, come si sostiene da più parti? La polizia si è trasformata in un braccio armato pronto a spazzare via ogni accenno di minaccia, anche soltanto supposto, come faceva Robocop? Oppure semplicemente, ed è una tesi interessante e condivisibile, sono soltanto aumentate le possibilità di riprendere autonomamente le scene incresciose per smentire l’inattaccabilità delle versioni ufficiali?
Prima delle riprese cautelative degli smartphone contro falsi e strumentalizzazioni, il cinema ha sempre fornito la sua testimonianza sul problema, anche se in differita. Non valeva per scagionare qualcuno o accusare giuridicamente qualcun altro, ma comunque si premurava di registrare una tendenza da sempre esistente, non solo negli ultimi tempi. Lo ha fatto solo dalla fine degli anni Sessanta, perché prima era francamente impensabile che Hollywood perseguisse un discorso critico sulla società americana con convincente continuità (Pinky, la negra bianca; Nella polvere del profondo sud; Strategia di una rapina sono stupende eccezioni, ma esiste poco altro). Lo ha fatto spesso, inoltre, in maniera ovvia, raccontando i pregiudizi (Indovina chi viene a cena?, Il buio oltre la siepe, La calda notte dell’ispettore Tibbs), le radici (Mississippi Burning, La lunga strada verso casa), le contraddizioni che portano al conflitto razziale (Fa’ la cosa giusta) e gli incresciosi casi di cronaca (l’ultimo giorno del povero Oscar Grant, così simile a quello di Floyd, in Prossima fermata Fruitvale Station). E lo ha fatto, infine, anche in un’intrigante maniera indiretta, tramite brevi accenni, allusioni, allegorie.
Due, in particolare. New York: ore 3 – L’ora dei vigliacchi di Larry Peerce: due teppisti (bianchi: Tony Musante e Martin Sheen) prendono in ostaggio un intero vagone della metropolitana, vessando sadicamente i poveri passeggeri, tra cui c’è anche un mite uomo di colore. Uno dei passeggeri (Beau Bridges) si ribella e neutralizza dopo tanto penare i due criminali. Sopraggiunge finalmente la polizia, anche se il suo intervento è ormai inutile, entra nel convoglio e su chi si getta istintivamente come riflesso condizionato? Sul povero uomo di colore, ovviamente. È solo un secondo ma è un secondo proiettato nei successivi 50 anni.
Finale de La notte dei morti viventi di George Romero. Dopo aver subito l’attacco degli zombi più scoordinati che la storia del cinema horror ricordi e averli tutti respinti rimanendo l’unico superstite, il prode Ben (Duane Jones), afroamericano, viene beffato e ucciso con un colpo di fucile sparato da chi è arrivato per salvarlo, ossia uno degli uomini dello sceriffo, dal quale, guarda un po’ a volte la potenza della metafora, è stato scambiato per un zombi.
Date un’occhiata qua sotto, se ambite al dettaglio.
Immagini in bianco e nero che paiono provenire da un’epoca passata, senza smartphone, senza Facebook, senza Instagram. Situazioni senza dubbio profetiche o forse solo realistiche, realizzate osservando una società che dalla Guerra civile a oggi, perlomeno nei suoi fantasmi inconsci, non è mai realmente cambiata.