Voi non potete saperlo, perlomeno non tutti, solo qualcuno, ma io amo gli horror.
Non tutti, ovviamente, solo quelli fatti davvero bene. Che a livello statistico, attualmente, si traducono in uno o due, massimo tre ogni cinque anni, mentre gli altri sono passatempi per iloti, niente di più. Roba da palinsesto pomeridiano di Italia 1, perlomeno fino a qualche tempo fa. Eppure negli ultimi quattro giorni ne ho visti tre davvero interessanti ed è quindi come se fossero passati cinque anni della mia vita in un solo soffio.
Del primo, Men di Alex Garland, produzione A24, sia sempre benedetta (un giorno mi deciderò a raccontarvi della sua e(ste)tica produttiva, ma devo trovare motivazioni proprio forti per farlo), non vi parlerò perché non è ancora uscito e quando uscirà, a fine agosto, dovrò fare una recensione per un’altra rivista e ci sono poche cose peggiori, tra le cose amene della vita, dello scrivere due volte sullo stesso film (cosa che quest’anno ho fatto almeno tre volte ed è stato particolarmente detestabile). Degli altri due sì, vi parlerò, ma non così approfonditamente, perché Caronte incombe e voi ho capito che se scrivo tanto alla fine siete come tutto il popolo del web: smettete di leggere. Per cui, come diceva mia zia Silvia, facimm’ ampress.
Il primo, uscito in sala senza che se lo stiano cagando in molti, è una produzione svedese, s’intitola The Other Side ed è diretta da una coppia di compagnoni formata da Tord Danielsson e Oskar Mellander. Apparentemente un racconto pieno di cliché, come leggerete adesso: papà e figlioletto si trasferiscono in una casa fuori città insieme alla nuova compagna dell’uomo. La madre del bambino è appena morta, per cui ci sono tutti quei prevedibili meccanismi di mancanze affettive da colmare e di leciti pregiudizi verso la nuova compagna da superare che infarciscono le storie di questo tipo. La casa però è una villetta bifamiliare e l’appartamento accanto è oscuro e disabitato. La situazione, già inquietante di per sé, lo diventa irrimediabilmente quando quella che una volta nelle favole veniva definita la matrigna, sulla quale vostra madre, raccontandovele, arrotava con sadismo il fonema tr- giusto per farvi capire surrettiziamente che culo avevate voi ad avere lei e non la zozzona con cui si sarebbe messo vostro padre se le cose fossero andate male, scopre che in quella stessa casa, anni prima, è sparito un bambino della stessa età di quello che ora si ritrova come figlio. E per di più, giusto per preparare il terreno nel modo più angosciante possibile, si accorge anche che lo stesso bambino pare giocare con qualcuno che definisce “il vicino di casa”. Sì, esattamente lo stesso film che scriverebbe ognuno di noi. Però, aspettate un attimo.
Il secondo è il film che ha vinto il premio della Settimana della critica all’ultima Mostra di Venezia e che eccezionalmente, grazie all’iniziativa del Sindacato critici cinematografici italiani, gruppo Piemonte – Valle d’Aosta, è stato proiettato nella sala Soldati (ex sala 3) del cinema Massimo nell’ambito di una breve rassegna che nei prossimi giorni porterà i film di Venezia in quella città del nord Italia dalla vocazione industriale smarrita che ormai abbiamo imparato a conoscere. Questo s’intitola Zalava ed è un insolito horror iraniano, diretto da uno sceneggiatore passato dietro la macchina da presa, tal Arsalan Amiri. Praticamente, nel Kurdistan alle soglie della rivoluzione islamica del ’78 gli abitanti di un villaggio sono convinti che i demoni li perseguitino e risolvono il problema sparando «dalla vita in giù» a coloro che reputano posseduti, liberandoli dal sangue indemoniato. Un sergente di polizia baffuto, che pare un caratterista dei film di Bud Spencer e Terence Hill (avete presente Sal Borgese? Uguale), si oppone lucidamente a quella che reputa una barbara superstizione, fino a quando, come diceva Peppino de Filippo nella sua commedia del ’42, non è vero ma ci credo. Non si sa mai, l’apparenza, a volte. Sapete com’è.
Che cos’è che accomuna questi due film di paura diversissimi tra loro, uno talmente classico da correre il rischio che lo stereotipo faccia ancora più capolino del vicino di casa con cui il bambino dice di giocare ogni giorno, l’altro un ethnic horror che potrebbe apparire grottesco e irrisolto a chi, come noi occidentali, tara tutto secondo i criteri di una percezione modellata sul cinema americano, anche quando ci si trincera dietro anni e anni di visioni eccentriche (anch’esse tarate sul cinema americano, anche solo per negazione)?
L’invisibilità. Ossia, la capacità di suscitare ma rendere pressoché invisibile l’orrore. Sì, l’ho detto mille volte in un fottìo di occasioni, anche qua sopra ma tanto i vecchi rincoglioniscono e dicono sempre le stesse cose, si sa. Cosa c’è di più farsesco che soddisfare l’attesa della paura mostrando l’oggetto che la genera? E se il diavolo non fosse così brutto come lo si dipinge? Cioè, se il soggetto non è così pauroso come te lo aspettavi? Che fai, ridi? È questo il problema del 98% degli horror, soprattutto di quelli recenti e contemporanei: vogliono mostrare l’orrore. E che cazzo di presunzione! «L’orrore, l’orrore!», rifletteva il colonnello Kurtz in quel viaggio allucinante che è Apocalypse Now, ma neanche lui sapeva bene come classificarlo e renderlo, dopo averlo provato. Una decina di anni fa, forse più, mi invitarono all’anteprima di un horror di cui ovviamente non farò il nome (attualmente è visibile su Amazon Prime, ma niente link, furboni!) e restai sconcertato da come il regista non si rendesse conto che mostrare i mostri – pardon pour l’allitération – fosse ridicolo e tenerli sullo schermo per più secondi delittuoso, perché il pubblico non vedeva più il mostro, quanto la maschera di pessima fattura, il trucco rabberciato, la luce che cadeva troppo intensa, il ridicolo carnevalesco, mettendo a repentaglio quella sospensione dell’incredulità sempre essenziale se non si vuole mandare tutto in vacca. Il produttore del film mi chiese un parere, gli elencai le mie perplessità, lui ascoltò attentamente ma ormai era troppo tardi, il film non poteva essere modificato (avrebbero dovuto farlo radicalmente, perché era proprio il principio a essere sbagliato) e così rimase, sommandosi alle tante cagate horror che non hanno lasciato alcuna traccia. Quando mostri l’orrore, soprattutto adesso che nessuno si spaventa più dopo anni e anni di abitudine ai meccanismi indotti dal genere, il risultato è sempre farsesco. Se ci indugi, hai sbagliato totalmente lavoro.
Però l’uomo, pur non provandole più attraverso uno schermo, resta pieno di paure, tutte intime. Guardatevi attorno. Lo vedete il tizio che vede il nero e cambia marciapiede? Oppure quell’altro che sente sternutire e comincia a correre come se stessero bombardando? Come, non lo vedete? Veloce, eh? E queste sono solo le paure sociali. Pensate a quelle ancestrali, inconfessabili, paralizzanti. La paura della morte: chi non ce l’ha? Ma senza andare così lontano, la paura di entrare in casa e trovare qualcuno, il timore di avere un doppio (dal sosia al profilo hackerato), il soffocamento. Quello che volete, a ognuno la sua. Quindi la furbizia dovrebbe essere quella – sempre valida – architettata da Val Lewton con gli horror RKO di Jacques Tourneur (soprattutto nella trilogia Il bacio della pantera, Ho camminato con uno zombie e L’uomo leopardo: se non li avete visti, poiché sono usciti da un po’, potete anche non vedere Shining, Profondo rosso e compagnia bella): se siete un regista, tirate la corda fino al punto di rottura ma tenetela tesa, non spezzatela, perché quello che vi resterà in mano è moscio e deludente. Ergo: portate la tensione all’estremo, ma non superate mai il punto di rottura, perché la soddisfazione potrebbe non essere tale. Si deve generare quello che Freud chiamava “incertezza intellettuale”, ossia non far comprendere la minaccia, solo evocarla, renderla percepibile. Comprendere ciò che potrebbe succedere stimola il piano psicologico e attiva antropologicamente le paure di ognuno: il contenitore personale è pienissimo, anche inconsciamente, basta attingere. Ricordatevi: l’angoscia sta tutta nella rincorsa, in una rivelazione che deve giungere a compimento il più tardi possibile (o essere soltanto sfiorata, senza mai giungervi davvero), forzando fino allo stremo l’attesa per non mostrare la sproporzione esistente tra la pienezza della tensione e il ridicolo (o il prosaico o semplicemente il goffo) che l’ha generata. Lo spiega magistralmente anche Vincente Minnelli, in un film (stupendo) che con l’horror non c’entra davvero nulla.
Sia The Other Side, sia Zalava questo principio lo hanno capito perfettamente ed è per questo che sono due film rari nell’attuale panorama horror. The Other Side utilizza il design della scenografia, i suoi chiaroscuri, i coni di luce e la profondità del campo di ripresa. Il pubblico segue la protagonista che si muove nella casa del mistero, aguzza la sua attenzione, mentre, improvvisamente, un qualcosa scivola, sgattaiola nel corridoio alle sue spalle. Velocemente, si tratta solo di un istante. È però come una carezza nel buio mentre credi di essere completamente solo: il brivido ti prende e non ti molla più. Zalava fa anche meglio. Durante un esorcismo di cui vediamo solo alcuni elementi folkloristici, quanto basta per ricordare l’infanzia di molti di noi in qualunque paesello del meridione nel corso delle estati anni Settanta (e il film, ricordo, è ambientato nel ’78, per cui, tutto il mondo è paese, come si diceva quando ancora non era stato formulato il concetto di globalizzazione), il demone è catturato e messo in un barattolo di vetro, o’ buccaccio, tanto per rimanere nel meridione di cui prima. Ma il barattolo è trasparente e dentro pare non esserci niente. Invisibilità totale. Quindi il terrore diventa un fatto fideistico: il demone c’è o non c’è? E se non c’è, vale davvero la pena di aprirlo per verificare, ‘sto cazzo di boccaccio? Ecco, questa è la domanda che attraversa tutto il film. E non c’è logica illuministica che tenga: l’uomo è davvero così razionale da mettere a repentaglio un equilibrio che, per falso che sia, pare essere stato comunque raggiunto? Voi, esseri assennati che non siete altro, che fareste? E così Zalava funziona con il nulla, nella piena invisibilità, utilizzando solo mezzi esclusivamente filmici, come nella scena in cui lo scettico sergente protagonista sta per aprire il barattolo, mentre la cinepresa si limita a osservare il limite irrazionale di un coperchio che può determinare la certezza del nulla a scapito di un rischio assolutamente evitabile, se si è totalmente scettici. È questa la forza dell’horror, suscitare palpiti con mezzi esclusivamente cinematografici, senza facili effetti, senza urla improvvise, senza mostri sparati in primo piano: creare l’incubo modellando l’invisibile. Dovrebbe essere quasi un motto.
Nell’augurarvi buone vacanze, vi avviso, facendovi tirare un bel sospiro di sollievo, che per qualche tempo sparirò dalla circolazione. Sarò impegnato in un lavoro per il quale sto cercando stimoli forti, visto che al momento non sono così motivato a farlo. Ma ho firmato un contratto, per cui in qualche modo farò, prima di tutto eliminando le piacevoli distrazioni (la vostra compagnia, ahimè). Il lavoro in qualche modo c’entra con l’horror, ma solo come parafrasi. Ma ci sarà modo di parlarvene, quando sarà. Se sarà.
See you later, alligators!