Alla fine Trump ce l’ha fatta. Tutt’altro che a sorpresa. Non so se avete visto The Apprentice, che racconta delle origini di The Don, quando era un coglioncione con i soldi, tanti tanti soldi, in procinto di rilevare le redini dell’impresa immobiliare di famiglia e spiccare il salto verso il successo personale, grazie soprattutto all’esempio del cinico avvocato Roy Cohn, un bell’ometto che era stato anche consulente del senatore McCarthy (non Paul McCartney, McCarthy, il fascista che creò il casino della Caccia alle streghe all’inizio degli anni Cinquanta). Se lo avete visto, immagino siano due gli aspetti che potrebbero avervi colpito maggiormente, oltre al fatto, prevedibile, peraltro, che una volta diventato un vero uomo di merda, più di merda del suo avvocato e mentore, lo accartocci e lo butti via senza tanti riguardi, mentre quest’ultimo si spegne male, vittima dell’Aids. I due aspetti curiosi, invece, che non sono riuscito a scrollarmi dagli occhi e a cui ho pensato in continuazione durante la Maratona Mentana, sono due scene minori che però credo mi ossessioneranno ancora a lungo: la prima, quando il giovine Trump questua di porta in porta in un palazzo di proprietà della sua famiglia per riscuotere la pigione mensile da veraci esponenti del white trash newyorchese che lo trattano come un agente imberbe della Tecnocasa che rompe i coglioni mentre fai la siesta al pomeriggio. La seconda, quasi splatter, è l’intervento chirurgico per ridurre la calvizie, vera ossessione del nostro (ma soprattutto vostro), che come avete visto nei tanti comizi della campagna elettorale ancora non si arrende, fortificandomi sul fatto che è sempre meglio una bella pelata che una cofana sventolante. Intervento chirurgico compiuto brutalmente asportando la chierica e cucendo insieme i lembi della calotta per ridurre lo spazio esposto alle intemperie. Uno scalpo indiano, in pratica, altro che bandane atte a nascondere l’estivo innesto deretano-pilifero, come ben ricordiamo.
Voglio pensare esattamente a questo, quando Trump esorterà gli israeliani a bombardare i depositi nucleari dell’Iran, come se fosse il finale alternativo di Fight Club.
Ma io torno all’Italia. Perché alla fine sono un provinciale. Prima mi preoccupo dei fatti di casa mia. Anche di quelli passati. Ho visto Berlinguer. La grande ambizione e al di là della nostalgia che ho provato per un modo genuino di fare politica, con una professionalità da artigiano di bottega (oscura) che mi manca molto, e la didascalia finale che ricorda l’ultimo comizio a Padova prima dell’ictus (e ricordo anche mio padre che ripeteva tra sé e sé «cazzo, Enrichetto…cazzo…»), inevitabilmente l’attenzione si catalizza sull’interpretazione di Elio Germano. E allora mi sovvien il passato e le morte stagioni (ah, vero, che era proprio Germano nel Giovane favoloso) e penso, ovviamente naufragando, a quei tre personaggi che nel film di Andrea Segre ritornano; Berlinguer, certo, ma anche Moro e l’inossidabile Andreotti e, partendo da Elio Germano, ricordo i modi con cui sono stati rappresentati sullo schermo, alla natura estremamente differente, praticamente alternativa, usata per farli diventare personaggi di un film. Protagonisti storici di un’Italia che fu e che, guardando oggi un qualunque telegiornale o aprendo a caso il sito di un quotidiano, non possiamo far altro che rimpiangere, anche se all’epoca avremmo bestemmiato schiumando bava dalla bocca.
La mimesi assoluta: Gian Maria Volonté/Aldo Moro (“Il caso Moro”, Giuseppe Ferrara, 1986)
Spiegare chi fosse Gian Maria Volonté lo si deve solo a chi ha meno di vent’anni e siccome so, pur non avendo fatto ricerche specifiche del target, che voi ex 25 (siete molti ma molti di più, vi ringrazio tantissimo dell’attenzione, ovviamente, ma non dico la cifra perché sarebbe tanto cafone rivelarlo) avete tutti ben più di vent’anni (pur essendo tanto giovani nell’anima), non lo spiegherò. Il Moro di Volonté è Aldo Moro con tutta la sua signorilità offesa, il suo percorso infranto, la sofferenza del politico privato della sua linea e del padre e del nonno cancellato negli affetti. Il realismo di Volonté è ossessione allo stato puro, non è più una recita, quanto una trasmigrazione dell’anima, una replica fedelissima dei gesti, delle espressioni, del modo di parlare, addirittura del formarsi dei pensieri. È una vertigine che conduce lo spettatore oltre il realismo, rigenerando il trauma a otto anni dall’episodio, una reincarnazione inquietante che è contemporaneamente abreazione storica e sociale, uno scavo nel profondo che è anche opera di necromanzia. Completamente differente dalle continue ricognizioni di Marco Bellocchio, dal Moro teatrale di Herlitzka o da quello interpretato da Gifuni, molto simile nella sostanza al Berlinguer di Germano. E per di più completamente differente da se stesso, visto che nel ’76 Volonté era già stato Moro in “Todo Modo” di Elio Petri, tratto da Sciascia. Ma in quest’ultimo caso era stato più simile a ciò che sarà Servillo per Andreotti, come si vedrà nel paragrafo sotto: ancora lontana la tragedia del sequestro, a comandare è il farsesco della caricatura, non il dolore di una sconfitta umana e politica.
La maschera grottesca: Toni Servillo/Giulio Andreotti (Il divo, Paolo Sorrentino, 2008)
Tutto coerente con l’attore e con la sostanza del cinema di Sorrentino: l’Andreotti di Servillo è un simulacro impenetrabile, chiuso in se stesso e inaccessibile al pubblico, osservato, quest’ultimo, sempre direttamente dallo schermo con fare sornione, come a sfidarlo a comprenderne la natura, inaccessibile, come quella del personaggio cui si ispira. Difficile pensare al vero Andreotti, il filtro è sempre evidente e predispone a una distanza brechtiana: Servillo/Andreotti è una caricatura del potere, visto nella sua sostanza manipolatoria, colmo di un umorismo nero che è la prospettiva assunta per accedere ai segreti di un potere in cui, parafrasando Pasolini, tutti sanno ma nessuno ha (mai avuto) le prove. Si tratta di un gigantesco teatro delle marionette nel quale tutti si sbattono e arrabattono, mentre lui, quello che in apparenza sembrerebbe la marionetta, il pupazzo dal collo incassato, è invece il burattinaio che muove i fili degli altri, disposti a muoversi vorticosamente in sua vece, lasciando le tracce che il Divo, nella sua immobilità che invece è saggezza da camaleonte politico, non ha mai lasciato.
La sostanza narrativa: Elio Germano/Enrico Berlinguer (Berlinguer. La grande ambizione, Andrea Segre, 2024)
Il Berlinguer di Germano, è evidente, non assomiglia al vero Berlinguer. Si muove come lui, mostra la sua umana fragilità, ne replica ammirevolmente la cadenza sassarese, il trucco gli dà anche la zazzera dalla fitta attaccatura, ma neanche per un istante si genera l’illusione del passaggio di stato tra figura e sua raffigurazione. Germano resta Germano che fa Berlinguer. Eppure è credibile, perché la distanza non intende creare l’inganno, vuole raccontarlo, onestamente, attraverso una finzione che è anche un tacito patto. Segre racconta un’epoca, gli anni Settanta, il distacco da Mosca, il successo elettorale mai più replicato, l’inizio degli anni di piombo, il tentativo di Compromesso storico e la sua fine con l’omicidio di Moro (Roberto Citran: a maggior ragione il discorso è valido per lui che con il presidente della DC condivide solo la pacatezza, pur stando a Moro come Salvini sta a De Gasperi). Il racconto di un’epoca non ha la necessità della condivisione del dramma come “Il caso Moro”, né sente il bisogno di avere un diaframma paradossale come “Il divo”, ma si premura di ripercorrere i tempi narrando, evitando di penetrare nell’intimo o di raffigurare un osceno teatrino. La natura del Berlinguer di Germano è tutt’altro che mimetica, è esclusivamente narrativa: è aristotelica, volendo pisciare lungo. Germano seleziona e ricompone, non assume completamente su di sé per sostituire. E in quegli anni Settanta di lotta e in qualche modo di illusione di eternità, Berlinguer è Germano e Germano è Berlinguer: un Giano bifronte in perpetua compresenza che ci dà la vicendevole misura di un film sulla Storia e di una storia narrata attraverso un attore che la interpreta.