Immagino che molti di voi siano stati mossi dalla curiosità e lo scorso lunedì abbiano visto su La 7 le prime tre puntate della serie tv che ha lanciato dallo star system al political system ucraino Volodymyr Zelens’kyj (d’ora in avanti Zelensky, per facilità e solita inedia). Gran colpo di marketing o, visto il momento, mezza sciacallata di Urbano Cairo, a seconda della prospettiva che (inevitabilmente) assumiate (come leggerete), Servitore del popolo, che ha esordito nel 2015 e si è sviluppato lungo tre stagioni e cinquantuno episodi, è l’Unheimliche freudiano della fiction o della politica. O di entrambi, sempre a seconda della prospettiva assunta.
Un insegnante di Storia (Zelensky, appunto) è ripreso in aula dai suoi studenti durante uno sfogo contro la corruzione che corrode il paese e il video, postato sui social, diventa immediatamente virale. Gli studenti sfruttano l’inattesa e repentina fama del docente per avviare una campagna di crowdfunding e raccogliere così il denaro necessario a iscriverlo nelle liste da cui sarà eletto il nuovo presidente della nazione. Si muovono i poteri forti, (non)visti in un’interessante sequenza piena di diaframmi profilmici (scusate, devo riacquistare credibilità dopo la débâcle degli ultimi post), ossia di piante e complementi di arredo che insieme a sfocature, inquadrature di spalle e tagli parziali del quadro rendono opaca la visione, e i poteri forti decidono durante un pranzo che il professore di Storia vincerà perché è il risultato più conveniente. E infatti vince, stavo quasi dicendo con il 73% dei voti, ma in realtà questo è ciò che poi è accaduto davvero, non nella fiction, in cui il margine è più contenuto, perché drammaturgicamente vincere con quasi tre voti su quattro sembrava esagerato.
Ecco, è questo il cortocircuito. Non tanto il fatto che poi, nella realtà, un comico sia diventato realmente il presidente di una nazione, anche perché i precedenti ci sono (senza scomodare Jón Gnarr, sindaco di Reykjavík per quattro anni, basterebbe pensare a tutti quelli che da giugno del 2018 a oggi hanno mostrato una spiccata propensione comica sotto l’egida del loro garante, artista genovese dalla brillante carriera; per non parlare di chi esporta la propria comicità fino alle città di confine dell’Est, facendosi sfanculare da sindaci polacchi senza senso dell’umorismo ma dalla grande memoria). No, non per questo, quanto perché è assolutamente brechtiano guardare la serie e non pensare che ciò che si sta vedendo a distanza di qualche anno non sia quello che invece sembra, cioè un documentario sulla folgorante carriera politica di un insegnante di Storia, ah no, un comico, che inizia come cabarettista, vince giochi a premi che non sono Doppio slalom, Il pranzo è servito o La ruota della fortuna, ma avrebbero potuto tranquillamente esserlo e fonda un partito che si chiama come la serie tv che gli ha regalato il successo, prima di vincere le elezioni, forte del fatto, in Ucraina come in Italia e nel resto del mondo, che se prima c’era un magma di merda, anche gli scaracchi ti sembreranno un mazzo di gardenie. Un documentario con il dono della divinazione, in pratica, un genere mai analizzato in precedenza.
La consapevolezza del cortocircuito, però, è giunta subito dopo, quando di coda alla serie è seguito uno stupendo ritratto intitolato Zelensky, the Story, firmato da tre giornalisti francesi, Willy Papa, Nicolas Fresco and Arthur Genre e realizzato con perizia documentativa, ammirevole equidistanza e incalzante, quasi ipnotico, ritmo narrativo. Vedere immagini come queste
non può che essere straniante. Sfido chiunque a riconoscere le immagini della (reale) investitura avvenuta nel 2019 da quelle della fiction di quattro anni prima (la soluzione è al fondo del post e, spero sinceramente, seppure dopo un bel po’, di aver capito e di dirvi quindi la vera verità. Ma se mischiate le immagini come i napoletani quando facevano il gioco delle tre carte nei sottopassaggi di Porta Nuova, rischio di perdere, anche se le carte sono solo due). In quel momento di vertigine assoluta in cui io e lo schermo televisivo ci interrogavamo come nemmeno David Cronenberg in Videodrome, ho cominciato a chiedermi che cazzo di valore filosofico possa avere la realtà in tempi (grami) di post-verità, anche perché qua, in realtà, si tratta di pre-verità, che è un concetto ancora oltre, oltre la precognizione, come era successo per 1997: Fuga da New York o Obiettivo mortale che anticipavano l’11 settembre volando sulle ali della fantasia e facendo scoprire, a distanza di parecchi anni e con un grande Oh! di sorpresa, che qualcuno davanti a una macchina da scrivere (il computer non c’era ancora) aveva già immaginato tutto. Qua non si è solo immaginato, si è letteralmente forgiata la realtà modificandone il seguito in forza del grande successo televisivo. Siamo oltre l’ottica berlusconiana a cui forse qualcuno ha pensato, perché Berlusconi arrivò al potere in seguito allo scenario magmatico di cui prima (Tangentopoli), ma ci arrivava in virtù di un successo costruito come uomo di successo, in una tautologia disarmante ma del tutto logica sul piano dell’ascendenza carismatica di cui l’Italia, ahinoi, sa qualcosa, soprattutto quando mancano chiari riferimenti sociali e culturali. E siamo oltre anche il concetto di postmoderno, se è vero che Lyotard, quando ne arginò i caratteri, ne sancì la nascita con la fine delle Grandi narrazioni, quelle che sostengono l’identità di un’epoca collocandosi nel corso della Storia in funzione del futuro. Questa di Zelensky e di Servitore del popolo (la serie, il partito: fa lo stesso) è la narrazione che si fa Storia e per questo diventa grande. Più grande della finzione al punto da fagocitare completamente la realtà e impossessarsene, alterando il corso degli eventi. Per capirci: è come se uno, scendendo per andare al lavoro, trovasse davanti al portone un grosso monolito nero intorno al quale le scimmie se le danno di santa ragione con tibie e peroni.
Non tanto fine della Storia, come appunto dicevano i postmodernisti, perlomeno speriamo di no, malgrado la piega che stanno prendendo gli eventi, ma ridefinizione della percezione della verità, se non proprio del suo concetto. E in un momento in cui tutto appare opinabile, la stessa verità, una volta ontologicamente certificata dalla testimonianza dell’immagine, viene messa in discussione e letta, da un lato (in occidente), con sdegno e raccapriccio, mentre in Russia (e in qualche negazionista nostrano, vedi i Freccero, i Mattei, i Cacciari e compagnia delirante della commissione DuPre) come veicolo della falsa propaganda contro Putin da parte dell’Europa e della Nato.
Solo una trentina d’anni fa (un’era geologica, nella civiltà dell’immagine), Joyce Maynard, in quel piccolo gioiello sull’ossessione della visibilità televisiva che è Da morire, si chiedeva, parafrasando George Berkeley e i fisici Charles Mann e George Twiss, «Se un albero cade in un bosco e nessuno lo vede [per riprenderlo con una telecamera, era questo il senso] è caduto davvero?». Ora, in tempi di Deep Fake, non basta più, neanche la ripresa è garanzia di inconfutabilità, perché la verità, che già Protagora e Pirandello avevano messo in discussione, è giunta a un punto di rottura. Tutto è relativo. Tutto ha smarrito la sua connotazione tra il vero e il falso, tra un prima e un dopo, tra la ragione e il torto, tra la legittimità e l’arbitrio. Adesso più che mai, ma il discorso arriva da lontano, almeno da quando il crollo delle torri gemelle fu salutato dall’esultanza della popolazione palestinese in servizi giornalistici consegnati all’indignazione del pubblico occidentale quando invece erano immagini precedenti di qualche anno. I corpi che giacciono in terra nelle strade di Bucha sono morti guardandoli da una prospettiva, figuranti gettatisi in terra se visti dall’ottica opposta: la realtà è un elastico tirato allo spasimo verso di sé che perde il suo statuto obiettivo per decomporsi in mille possibilità. Non tutte sono valide ma esistendo come ipotesi, ne viene dato conto. Tuttavia, questa oscena parcellizzazione fa perdere i riferimenti e fioccare le puttanate, come quella, ad esempio, del presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, che chiede ad alta voce di «appurare cosa davvero è avvenuto», cioè, in pratica, di verificare l’autenticità di una realtà. Una differenza di grado che confonde l’aggressore con l’aggredito, dimenticando il valore fondante della resistenza di fronte a un’invasione, malgrado la canzone dicesse «una mattina, mi sono alzato e ho trovato l’invasor». E almeno su questo pensavo si fosse tutti d’accordo, anche se qualcuno crede si tratti della colonna sonora de La casa di carta.
Evidentemente no, non siamo tutti d’accordo. Perché se ognuno ha la sua verità, la fortuna sta tutta nel trovare un piccolo nucleo che abbia la tua stessa verità, tanto per non soffrire di solitudine. Ed è per questo che non rinnoverò la tessera dell’Anpi, perché la mia verità non coincide più con quella del nucleo dirigente. Perché, a dispetto di Lyotard, per me le Grandi narrazioni, soprattutto quelle grazie alle quali siamo ancora qua a pensare che i nazifascisti, di qualunque nazionalità essi siano, sono dei pezzi di merda, esistono ancora. E a me, la mia verità, quella stessa verità che condivide ancora qualcun altro, piace sicuramente di più.
[Le immagini di sinistra sono del vero Zelensky nominato Presidente; quelle di destra sono della serie tv. Ma lo giurereste?]
Pezzo letto, e condiviso post lenta riflessione.
Meriterebbe una maggiore diffusione, perché mette nero su bianco idee, magari sotterranee, che attraversano la testa di alcuni di noi, in questo inedito mondo, che nessun sceneggiatore si era mai sognato di immaginare per il grande (=film) o il piccolo schermo (=serie) in dimensioni così vaste, globali, e che, per circostanze varie e tutte insieme (non appassionatamente, bensì atrocemente) ci hanno investito con molto anticipo rispetto alle previsioni più pessimistiche. Nessuna forzatura, nessun ricatto che faccia appello ai sentimenti, solo l’urlo di chi avrebbe voluto, vuole, vorrà che le cose nell’orbe terracqueo andassero in modo diverso da come sono andate/vanno…
10, professor Frasca, da un ex collega un po’acciaccato, ma non ancora rincoglionito (almeno non completamente).