Mi ero ripromesso di aggiornare il blog solo dopo che questa fiumana di merda ci avesse lasciato, anche a costo di farlo fra due mesi o più. E non perché le sale abbiano chiuso i battenti, malgrado sia un momento talmente particolare che si sente anche la mancanza di uno spettatore alle tue spalle che commenta ogni entrata in scena o che sgranocchia i popcorn ridacchiando con un paio di ebeti che gli fanno da cassa di risonanza. Roba che avresti desiderato avere un lanciafiamme in tasca pronto all’uso, mentre ora rincorreresti gli sgranocchiatori ebeti sotto lo schermo per abbracciarli commosso, come se fossero fratelli, in un’involontaria rivolta dell’uomo presente alla sua fragilità. No, non era per questo. Avevo chiuso, come i bar e i ristoranti, non avendo la presunzione di essere un alimentare. Come (quasi) tutti, non uscivo se non per motivi indifferibili. D’altronde, come dice il sottotitolo, (dis)Sequenze è un blog che si aggiorna solo quando è il caso. E non era il caso.
Però poi capita di vedere un piccolo video, sempre per caso. Confuso in mezzo a tutte le altre notizie che hanno monopolizzato l’attenzione di chiunque, inevitabilmente. Uno di quei tanti video che si vedono su Facebook o Twitter e che poi, per il merito di essere particolarmente in tema oppure lievemente diversi da tutta la massa di video uguali a se stessi, vengono ripresi dalle testate nostrane per strapparci una parentesi di trenta secondi nel flusso inarrestabile della giornata. Non è altro che l’ennesimo video che invita a prendere coscienza delle misure preventive per evitare il contagio, chissà quanti ne abbiamo visti in questo periodo che punta a far diventare naturale ciò che era innaturale fino a due settimane fa, ma questo ha qualcosa di unico. Ha un arzillo vecchietto che dopo pochi secondi compare dietro lo spesso vetro di un’abitazione, mentre il figlio, all’esterno ma a un passo da lui, ci comunica quello che abbiamo sentito un milione di volte. Che lui, il figlio, ha 47 anni, che se dovesse contrarre il coronavirus probabilmente ce la farebbe senza eccessivi problemi, ma che lui ha un padre di 93 anni, l’arzillo vecchietto dietro il vetro, e che se dovesse contagiarlo, per lui, il padre, sarebbero grossi problemi, tanto più che il vecchietto ha come amici Carl Reiner (da solo nove Emmy, 98 anni) e Dick Van Dyke (lo spazzacamino di Mary Poppins, per intenderci, oltre che anima del Dick van Dyke Show, 95 anni) e che in uno solo colpo si rischierebbe di estinguere un’intera epoca della comicità americana.
E sì, perché il vecchietto che finge una posa affranta a quest’affermazione del figlio è Mel Brooks, in una forma talmente smagliante da far invidia anche a molti cinquantenni prima dell’epoca coronavirus (adesso non ne parliamo nemmeno). E quello che fa il figlio di Mel Brooks, Max, scrittore (anche di World War Z, la cui trasposizione cinematografica è-da-non-vedere-in-questo-momento), tra l’altro figlio anche di Anne Bancroft, la splendida signora Robinson che irretiva Dustin Hoffman ne Il laureato e che attraverso la benedizione di Simon & Garfunkel, God bless you, please, Mrs. Robinson, sarebbe entrata come un vortice nell’immaginario di un’intera generazione; quello che fa Max, dicevamo, non è soltanto un utile promemoria sull’odierna prudenza quotidiana, ma anche un tenero sketch nutrito da un vero affetto.
Sarà perché è un periodo di grande vulnerabilità e abbiamo l’umana tendenza a proiettarci oltre, oltre la fiumana di merda, sarà perché fra qualche giorno c’è anche la festa del papà, ma quanto sarebbe bello se nostro figlio, o nostro nipote, fra trenta/quaranta/cinquant’anni, facesse una cosa simile per noi, gratuitamente, proprio perché non abbiamo mai diretto Frankenstein jr. o Mezzogiorno e mezzo di fuoco? Che grande atto d’amore, sarebbe.