La turbolenza (stilistica) di Adolescence e una riflessione (vaga) sulle serie tv

La turbolenza (stilistica) di Adolescence e una riflessione (vaga) sulle serie tv

Bello, quando ne parlano tutti. Si ampliano le prospettive, si vedono le cose sotto un’altra ottica, si rivive l’emozione di uno stesso attimo condiviso. E però alla fine non puoi esimerti e devi inserirti, seguire la massa come una pecora che bela più delle altre per dimostrare la tua esistenza. Quindi, abbiate pazienza, non mi posso esimere. Magari lo avete visto anche voi e anche voi avrete la vostra idea, valida come quella di tutto il gregge globale, di cui questo blog fa incontestabilmente parte.

Sto parlando di Adolescence, la serie televisiva britannica creata dall’attore Stephen Graham e dello sceneggiatore Jack Thorn e diretta da Philip Barantini, rilasciata il 13 marzo, subito diventata la serie più vista di sempre di Netflix e poi, inevitabilmente, visti i tempi social, da tutti commentata, a vario titolo e tutt’altro che a sproposito, è giusto dirlo. Anche perché tutti possiedono un’idea non solo sulle serie, ma proprio sull’adolescenza, se non sul piano educativo (ma chi ha la soluzione su come affrontarla lo dica forte e chiaro che gli costruiremo un monumento), almeno per averla vissuta recentemente e magari averla protratta nel tempo (capita, soprattutto agli italiani: chiedete ai francesi che chiamano Les Italiens i bamboccioni). E chi l’idea si rifiuta di averla fa ancora più clamore sapendo di farlo (mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?), concludendo per di più il tutto con una bella intemerata sulle piattaforme, vero degrado della nostra società (ohibò).

Si è sentito parlare di bullismo, di termini gergali anglicizzati che si scoprono improvvisamente essere di dominio pubblico (ad esempio incel, celibi involontari: è sprezzante), di codici delle emoticon (il cuore rosso è amore, il giallo interesse per l’altro, il viola arrapamento), di enormi percentuali di ragazze che desiderano un numero solo esiguo di ragazzi (l’80% desidera il 20), di universi social paralleli da cui gli adulti sono esclusi (manosfera: i luoghi web che predicano la misoginia) e in cui si generano i livori conflittuali della realtà (la pillola rossa, tratta da Matrix, il simbolo per accedere alla verità altrimenti preclusa). Una sorta di loggia massonica di cui avevamo, fino ad oggi, una flebile eco. Ora ne siamo sommersi. Grazie soprattutto ad Adolescence e a questi ultimi giorni. E ne siamo anche piuttosto preoccupati, se si ha un figlio di quella stessa età, perché è normale chiedersi, anche solo en passant, se si stiano facendo, da genitore, i passi giusti (non chiedetevelo da insegnanti, perché di sicuro non li starete facendo. Non vi fate altre domande: e infatti gli insegnanti, nella serie, sono poco coinvolti, giusto come anfitrioni per la polizia e vittime dell’ineducata aggressività dei ragazzi, nient’altro).

Ma non voglio trasformare questo post in una seduta psicoanalitica di massa. Non m’interessa e non desidero scambiare consigli di buon vicinato su come crescere i figli e ovviare al problema. Quello che salta agli occhi, al di là dei problemi morali, educativi e di responsabilità sollevati, è il modo con cui la serie è proposta al pubblico. Ossia il piano-sequenza. Lo One-Shot. E mi voglio concentrare solo su quello. Ogni episodio (tra i 50 minuti e l’ora) e tutti i 4 episodi sono girati in una sola inquadratura in continuità; a volte placida, a volte convulsa, sempre molto dinamica. Certo, uhhhhh, non ne parliamo nemmeno, anche questo è stato ampiamente sviscerato su siti e canali YouTube, per cui sono stato in dubbio fino alla fine se scriverne o no, tanto uno in più o in meno non cambia assolutamente nulla nella percezione globale, e forse anche il termine percezione ha un afflato fin troppo ottimistico rispetto allo scrivere di cinema. Però ci ho pensato. E non mi trovo in perfetta linea con quanto ho letto, sentito, percepito, assunto passivamente.

Non starò qua a dirvi cosa sia un piano-sequenza. Lo sapete. E nel caso, eccolo, ve lo dice direttamente André, perché lo reputava l’atto stilistico più puro:

Indubbiamente, un bel vedere. Per lunghi tratti ne sono rimasto estasiato. Mentre lo guardavo ho addirittura pensato che ci fossero delle giunture digitali nei momenti di più complicata transizione dell’azione e invece, vedendo poi tutti i video che ne ricostruiscono la genesi, qualche VFX c’è, ma solo per eliminare gli ostacoli sulla strada degli operatori, che si passano la videocamera utilizzata, un’agile DJI Ronin 4D, come se fosse un testimone durante una staffetta 4×100 per garantire la continuità vorticosa delle immagini. Ed è un gioco di prestigio meccanico vecchia maniera anche il montaggio al volo di un drone sulla stessa videocamera per librarsi dalla superficie stradale all’ampiezza totale del parcheggio teatro del feroce delitto. Una bellezza da lasciare senza parole. Per di più un autentico tour de force attoriale, poiché, è evidente, tutto l’episodio va recitato di seguito, come a teatro, e non ti puoi permettere di sbagliare, altrimenti si rallenta il piano di lavoro (per dire: a parte il primo episodio, per gli altri tre sono state utilizzate, rispettivamente, le riprese 13, la 11 e la 16, realizzate tutte al quinto giorno di ogni singola sessione).

Necessario? Tutt’altro. Solo ipnotico.

Prendete il terzo episodio, il più struggente, il più chiarificatore, il più insostenibile. Quello in cui si fronteggiano Jamie, il ragazzo accusato dell’omicidio (Owen Cooper, scelto tra 400 partecipanti al provino, esordiente, impressionante, bravissimo, clap clap clap) e la psicologa che tenta di capire il perché di tutte le cose. Un lungo dialogo intorno a un tavolino (lei per quasi tutta la durata seduta, lui che si alza seguendo il flusso sinusoidale del suo sconnesso discorso), con le videocamere che si muovono senza sosta, andando spesso ben oltre il bisogno di sottolineatura. Come se fosse una marcatura continua e non una messa in evidenza. E allora, viene da sé, non è una sottolineatura, è un’intenzione ben definita: prendere lo spettatore televisivo e immergerlo nella materia trattata, fare in modo che ne sia pervaso dovunque, senza possibilità di distrazione, sballottandolo avanti e indietro, intorno e in tondo, giocando sul ritmo e sul flusso, più che evidenziando i singoli aspetti drammatici. Che pur ci sono, ma che entrano in una relazione più ampia all’interno di una tensione data dall’ipertrofia dell’azione, non dall’accentuazione dei particolari.

Una nuova tendenza, che non parte certo da Adolescence, perché negli ultimi anni molte serie televisive, arrivate a un certo punto, mostrano il loro pezzo di bravura con uno One-Shot, un piano-sequenza che tutto avvolge e non lascia scampo. Il quarto episodio della prima stagione di True Detective, Daredevil, il terzo episodio della quinta stagione di Io Robot, il terzo dell’ultima stagione di Succession, Gangs of London (non ricordo quale episodio della prima stagione: vado a memoria), il sesto di Hill House, il settimo di The Bear ecc. ecc. ecc. E anche l’appena uscito The Studio, oltre a essere organizzato su una successione di frenetici piani unici della durata media di cinque minuti, ha un secondo episodio risolto con un piano-sequenza di ventitré minuti che riflette sulle riprese sul set di un altro piano-sequenza con cui la vicenda principale interagisce. Vertigini.

Perché lo fanno? Per mostrare la bravura del regista e degli operatori, indubbiamente, ma anche perché la modalità di comunicazione delle serie tv sta cambiando e pretende. Pretende tanto. Pretende attenzione massima da parte del pubblico: se le serie erano nate con un ritmo concessivo della sceneggiatura, che ti ripeteva spesso i nomi dei personaggi con intento vocativo e, seppur in modo discreto, ti riassumeva gli snodi fondamentali precedenti per assecondare un’attenzione casalinga, sicuramente più debole, a prova di pisciatina improvvisa e impellente, ora non è più così. Le serie fanno la voce grossa e s’impongono: lo spettatore è costantemente sollecitato, chiamato a vivere lo spazio e l’azione dei personaggi a cui la visione aderisce totalmente. Fa credere allo spettatore di sapere tutto, di dominare la scena ma in realtà è solo un’illusione, perché si è condotti come su un ottovolante da cui non si può scendere, perché se si scende (provate ad andare a pisciare) si perde tutto e se invece si mette in pausa (sempre a causa della prostata ingrossata) s’interrompe la partecipazione indotta come regola fondamentale per empatizzare con la storia e con la narrazione.

È il linguaggio audiovisivo che è entrato in una dimensione ulteriore (già da un po’: Adolescence ne è solo l’epitome e per questo è la più evidente), che si è in qualche modo evoluto in una nuova forma. Che non è più quella magniloquente e spettacolare dello sfruttamento dell’ampiezza dello schermo, che da sempre fa grande e inimitabile il cinema, soprattutto quello classico. Ora lavora sulla profondità del coinvolgimento, non sull’ampiezza del campo. Quindi scordatevi pure inquadrature sublimi di questo tipo, perché ne vedrete sempre di meno:

Il linguaggio si è evoluto in un universo più intimo, commisurato sui 70 metri quadri delle abitazioni di ognuno, totalmente immersivo e ripiegato in una sfera personale, meno intenta alla condivisione sociale (nella sala) ma solo social, più coinvolgente e meno sublime, inteso in senso romantico, ossia come ambizione all’assoluto attraverso l’infinito spaziale.

Non vi fate illusioni, perché non è il cinema il laboratorio delle nuove forme, sono le serie tv. Il cinema è sempre 5/6 anni indietro e arranca, evolvendo molto più lentamente. Per questo non ha senso snobbarle in favore di un grande schermo che di anno in anno è sempre più piccolo, nonostante si illuda di essere ancora il centro del mondo.

  • Due tre comunicazioni al volo, per concludere:
  • Parlando di No Other Land, qualche post fa avevamo detto che era un lavoro talmente in divenire che la narrazione sarebbe continuata anche dopo il termine del film. Perfetto. Uno dei registi, Hamdan Ballal, il 24 marzo è stato arrestato dall’esercito israeliano a Susya, nella Cisgiordania meridionale, dopo uno scontro con alcuni coloni. Durante i due giorni di prigionia, è stato intimorito, malmenato e dileggiato per l’Oscar vinto. Se non fosse una situazione così drammatica, non mi verrebbe in mente niente di più stupido per bullizzare le persone. Forse sfottere Messi perché ha vinto il mondiale potrebbe essere altrettanto idiota? Come si diceva nell’Amleto I, V? The Time is out of joint. Ecco. Dal 1600, credo non sia più rientrato nei cardini.
  • Il blog si sta montando la testa. È stato citato da «Vogue Polonia», che non è proprio «L’Eco del Chisone», giusto per rimanere da queste parti e con tutto il rispetto per una testata storica. Adesso mi guarda dall’alto in basso e si oppone con boria a qualunque argomento voglia postare se non è di suo gradimento. Tant’è. Ho deciso di non dargli soddisfazione e lo cago il giusto. Ah, per chi fa fatica ad allineare le così tante consonanti di seguito viste qui sotto, lo hanno citato riguardo a ciò che è stato postato su Parthenope. Noi dicevamo che è bello da vedere ma meglio non tentare di decrittarlo. Si vede che hanno trovato quest’ovvietà interessante. Chi lo sa.
  • Esce oggi. Questo sotto è il booktrailer.
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Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

2 Risposte a “La turbolenza (stilistica) di Adolescence e una riflessione (vaga) sulle serie tv”

  1. Molto ricca, interessante e “ampia” la tua soggettiva…
    “Il Cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri. Il disprezzo è la storia di questo mondo” A. Bazin
    Per gli amanti delle cit e non.
    Grazie sempre 🙂

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