
Attenzione, perché la prossima settimana uscirà uno dei film più interessanti di questa e della passata stagione ma, pessima usanza, uscirà su Prime Video, non al cinema. [Avvertenza, quello che state leggendo lo troverete alla fine della prossima settimana in una forma più compassata anche altrove: dico le stesse cose, non è che possa fare come quei politici che cambiano parere a seconda del contesto in cui si trovano.]
Sto parlando di Nickel Boys, esordio nella fiction di un abile documentarista, RaMell Ross, autore dell’invisibile da noi Hale County This Morning, This Evening, già candidato all’Oscar nel 2019. Nickel Boys è l’adattamento per il cinema del romanzo premio Pulitzer di Colson Whitehead, l’unico Pulitzer vinto due volte da uno scrittore con due libri scritti di seguito (l’altro è per il romanzo precedente, La ferrovia sotterranea). Nickel Boys, lo scorso anno, era nelle maggiori classifiche dei migliori film, la prossima settimana si giocherà due Oscar, uno per il miglior film, l’altro per la miglior sceneggiatura non originale. Lo so, non significa niente. Ne parleremo. Forse.
Il film racconta di Elwood (Ethan Herisse), giovane afroamericano brillante ma sfortunato che, all’inizio degli anni ’60, mentre si reca nel college in cui dovrebbe scriversi il suo comunque difficoltoso futuro (non c’è ancora la legge per i diritti civili, che arriverà nel 1964, anche se come sapete il problema non è che si sia risolto) accetta il passaggio sbagliato su un’automobile rubata e si ritrova tramite un’ardita ellissi alla Nickel Academy, copia carbone della famigerata Dozier School for Boys, che nel nord della Florida fino al 2011 ha rappresentato un inferno travestito da scuola di rieducazione, con punizioni brutali, umiliazioni, terrore diffuso e anche cadaveri occultati, ritrovati molti anni dopo. Sembra un romanzo di Stephen King e invece è successo davvero. Alla Nickel, Elwood incontra Turner, ragazzo con cui stringe amicizia e con il quale condivide lo sguardo sulle violenza di quel mondo.

Whitehead, pur con la sua consueta e abilissima scrittura, raccontava tutto con la distanza oggettiva della terza persona; Ross sceglie una prospettiva complementare, abbattendo la distanza e facendo in modo che la cinepresa (LE cineprese; ce n’è un bel campionario: a spalla, Body rig, Snorricam…) trascini il pubblico dentro i personaggi, incollandosi al loro sguardo e penetrando nella loro soggettività, filtrandone la visione per (quasi) tutta la durata del film.
Film in soggettiva completa, come osò fare integralmente solo Robert Montgomery in Una donna nel lago, nel 1946, un’esperimento interessante che però aveva la credibilità di un parco dei divertimenti. Nickel Boys è più fluido, perché nel frattempo, dal ’46 ad oggi, le cineprese si sono alleggerite di quel centinaio di chili e sono più piccole e maneggevoli. Quindi più credibili, volendo.
Diciamolo subito, Ross non fa il solito film di denuncia sul razzismo, come anche il romanzo di Whitehead, seppur con classe, era. Vuole sperimentare, lavorare su quelle nuove forme che ormai paiono l’unica preoccupazione di questo blog (fra un po’ ci preoccuperemo di altro, oppure proprio di niente, tranquilli). Lui la chiama “prospettiva senziente”: attraverso lo sguardo di Elwood, principalmente, e dell’amico Turner, vuole far provare il trauma secondo il loro vissuto, non (solo) mostrarlo o descriverlo. La paura di ciò che si vive quotidianamente, non l’evento che questa paura la genera e soddisfa, prova ne sia che ogni evento drammatico è cancellato, posto di fianco con una parallissi, sostituito con immagini adiacenti su dettagli ipnotici e immagini di archivio che alludono per metonimia a ciò che si sta vivendo.

Il flusso di Elwood e Turner è di fatto la traduzione della volontà di sguardo autoriale di Ross, che dilata le immagini, connette il tempo e i tempi, si focalizza sui particolari per riempire l’inquadratura. L’impostazione totalmente definita, il coinvolgimento estetico innegabile (soprattutto se lo si vedesse nell’esperienza Imax, per il quale è stato predisposto), tutto concentrato in un formato 1:33: 1 che convoglia le direttrici di sguardo, malgrado lo si depotenzi con una distribuzione domestica e non in sala. Funziona? Sì. Sul piano visivo. C’è la partecipazione emotiva del pubblico che Ross dice in ogni intervista di voler sollecitare?
No. Ve lo dico subito.
Ma non è colpa di Ross. Perlomeno, la sua colpa non è tecnica, perché le immagini sono magnetiche, sanno mostrare un universo partendo da una fonte di visione determinata, sanno dosare i silenzi e creare una densa cappa d’atmosfera grazie alla dialettica tra fonte visiva e suo sviluppo spaziale. Il suo errore è concettuale. E, devo confessarvi, mi fa davvero specie che nessuno lo dica e tutti magnifichino il risultato. Quante recensioni del film avrò letto, recensioni serie di gente seria e di riviste internazionali serie, non quelle di blog estemporanei tipo questo o di sedicenti influencer che sbrodolano minchiate ripresi da una videocamera che li contempla per eternarli nella galassia del-tutto-è-permesso di YouTube? Una ventina? Qualcuna in più? Nessuno lo dice. Nessuno. Anzi, qualcuno (negli Stati Uniti) ha pure sostenuto l’insostenibile, ossia che Ross non voglia rincorrere l’empatia, malgrado quanto sostenuto dallo stesso regista (non ve lo linko solo perché qua parliamo di fatti, non facciamo pettegolezzi).
Il cinema di esclusiva soggettività è una trappola estetica. Perché il pubblico vede il mondo, ne condivide lo sguardo, ma resta ai margini di esso, non vi entra. Si illude solo. Vedere con, insieme a, è spesso comprendere (ma non sempre: se il fulcro della visione del personaggio è qualcosa sullo sfondo, in mezzo a una folla, il pubblico lo comprende solo se glielo si sottolinea con un piano più ravvicinato, metaforico, come dice Branigan), ma si condivide davvero un’emotività? Di solito l’emotività sollecitata da uno sguardo si concretizza attraverso il controcampo a cui rimanda. È il piano SUL personaggio (e non DEL personaggio) a sancire il passaggio, non il semplice sguardo; è la geografia di sensazioni che si crea sul volto di chi guarda a creare l’empatia e a stimolare la componente timica. Altrimenti è un esperimento interessante, un’esplorazione intellettuale, nient’altro.

Vi faccio un esempio per chiarire: c’è una scena ☝🏿 in cui la nonna di Elwood si reca alla Nickel perché non sa più niente del nipote. Incontra Turner che non conosce ma che però conosce Elwood e le può confermare che sia lì e che è vivo. Il primo piano della donna sovrasta lo sguardo del ragazzo, che risponde con monosillabi, limitandosi a piccoli gesti. La compassione è tutta fuoricampo, nella tensione che si genera dall’approccio. Ma non si realizza un vero scambio, lo spettatore è costretto a intuire più che a sentire: la nonna è contenta perché Turner le ha dato la speranza, mentre chi sa, Turner, resta al di qua, senza che si veda il suo sforzo di non dire.
Non mi credete ancora perché pensate che un blog dedito al cazzeggio come questo non possa dire grandi verità che altri non dicono? Vabbe’, allora, scongiuriamo il pericolo di essere etichettato come il coglione qualunque che si sveglia la mattina e dice la sua, facendo una breve collazione di dichiarazioni illustri a sostegno della mia tesi. Vediamo se considerate coglioni anche loro (sempre che ve ne fotta qualcosa, perché in realtà il film non lo avete ancora visto e potreste anche decidere di non vederlo).
«Per sapere qualcosa del personaggio bisogna vederlo dall’esterno» (Gerard Genette)
«Il personaggio fatto di puro sguardo denota un’assenza» (Marc Vernet)
«L’identificazione dello spettatore con il personaggio-osservatore è puramente spaziale» (Edward Branigan)
«[Con la soggettiva] Gli si vede attraverso, senza che il personaggio risulti psicologizzato. Non ci dice nulla su di lui» (Christian Metz)
«[sulle soggettive realizzate con una carrellata] Il punto di vista si immobilizza, è una forzatura dello sguardo» (ancora Christian Metz)
«Percevoir subjectivament, pour le spetcateur filmique, c’est ne rien savoir des affects, sentiment ou pulsions d’un sujet que la cadrages sur le visage et le jeu avec le hors champ permettent au contraire de prendre en charge» (Marie-Claire Ropars)
Discreta compagnia di coglioni, non trovate? Oddìo, non credo sia gente con cui andrei a bermi una birra, d’altronde neanche loro credo che vorrebbero berla con me, anche perché di vivo ne è rimasto solo uno e credo abbia altri cazzi ben più importanti da fare (però con un altro ebbi un breve scambio di e-mail, un giorno di diversi anni fa).
Vi ho convinto? No? Vabbe’, mi arrendo. Allora condensiamo il tutto, come fa ormai l’intelligenza artificiale, a cui fra qualche anno tutti ci inchineremo, perché risparmiare tempo pensando di non averne mai abbastanza sarà la regola: apprezzo molto che RaMell Ross metta in discussione le regole e che trovi un modo ardito per tentare di ridefinire la cognizione del dolore. Adoro che lo faccia. Magari lo facessero più registi. Ma quando leggo che grazie a questo si empatizza con i personaggi, allora sento la necessità di chiarire. Per amore (erotico, quasi maniacale) della teoria.
Tu chiamala, se vuoi, pedanteria.

Un avviso ai naviganti. Qua in basso. Se vi capitasse di non sapere proprio cosa fare, fate un salto. Magari ci facciamo ciao ciao con la manina.

