Bentrovati. Spero vi siate riposati. Io, dal canto mio, ho evitato di disturbarvi, anche se nel frattempo la tentazione di scrivere qualcosa su L’esorcista m’è venuta. Ma un po’ perché vi avevo promesso di evitare di scrivere in funzione di chi muore (Friedkin, il 7 agosto), un po’ perché pensavo (molto) più al mare che al cinema, un po’ perché ero impegnato a fare altro, vi ho esentato. Non pretendo mi ringraziate, però non vedere palesarsi la newsletter nel mezzo di agosto ha un qualcosa di estremamente rispettoso nei vostri confronti, ammettetelo.
Immagino che nel frattempo abbiate visto Oppenheimer, con il quale ci eravamo lasciati. Gran film, eh? L’ho rivisto, poiché nella mia vita ho tempo da perdere e ho continuato a riflettere su come Nolan sia uno dei pochissimissimi autori del cinema contemporaneo a riuscire a fare cinema polverizzando il concetto di struttura narrativa o, meglio, edificandone uno completamente nuovo, frammentario e poroso, che fondamentalmente agisce al contrario, perché è il dato visivo a dotare del flusso vitale la narrazione e non il racconto a essere tradotto in immagini.
Ma non voglio dilungarmi. Vi sarete accorti dai volti sorridenti e perennemente entusiasti degli inviati che è iniziato il Festival di Venezia. Non sono lì, ve lo dico subito. L’ho frequentato parecchio, ma non ci vado da più di vent’anni. E non mi manca. Chi mi conosce sa che odio i festival. L’ho anche scritto su queste stesse pagine più volte. Ma non è che non ci vada perché odio i festival, perché tendenzialmente li odiavo anche quando ci andavo, non ci vado perché da quando faccio seriamente (vabbe’, seriamente…) l’insegnante, il primo settembre inizio a lavorare (vabbe’, lavorare…). Finiti i tempi, sul finire del secolo scorso, nei quali sparivo per andare a Venezia senza lasciare traccia, con la scuola in cui lavoravo al tempo che chiamava casa per sapere se potessero contare ancora su un docente o dovessero preoccuparsi di sostituirlo e mia madre che senza scomporsi rispondeva «se scoprite dov’è e avete voglia, fatemi sapere».
Siccome però non sono al festival, non posso certo parlarvi di film. Quelli li vedrò dopo, se è il caso. Però vi voglio parlare lo stesso del festival di Venezia, che alla fine è un bel casino anche se vai avanti e indietro davanti al Palazzo del cinema senza mai entrare in una sala. Quindi, secondo i dettami di quello che Phillip Lopate chiama Personal Essay, che molto spesso in questo blog si traduce nell’italianissimo “vi parlo dei cazzi miei”, approntiamo alla bell’e meglio un bel bestiario della Mostra in base al periodo in cui l’ho frequentata, grosso modo dall’inizio degli anni Novanta fino allo scavallare del nuovo millennio.
Avviso preventivo: se vi aspettate che in qualche modo parli di cinema fermatevi in questo punto, perché non succederà. Altro avviso: vi racconto solo tre aneddoti e me ne tengo da parte altri quattro-cinque se dovesse ripresentarsi l’occasione.
Il candore di Ray e le ragioni di opportunità
Qualcuno di voi ricorderà chi era Ray Manzarek. Per chi non lo ricordasse, è quello con gli occhiali e il caschetto che suonava divinamente l’organo Wurlitzer con i Doors. Sì, quelli di Jim Morrison. Quando sul palco arrestavano Jim per oscenità, lui andava avanti imperterrito orchestrando il tutto, fino a portare a termine il concerto. Ebbene, vi svelo un segreto: se ascoltate in cuffia chiudendo gli occhi l’intro di Manzarek di Riders on the Storm verrete istantaneamente proiettati nel Midwest a guidare sotto la pioggia battente, magari vedendo un cazzo perché i tergicristalli funzionano fino a un certo punto, ma sentirete quell’aroma di ozono che vi inebrierà e vi farà sentire dannatamente liberi. Cosa mi sono fumato? Appunto. Ray era ospite del Festival nell’ambito della manifestazione sulla Beat Generation organizzata dalla Biennale e intitolata “The Beat Goes On”. Sarà stato il ’96. Doveva tenere una Masterclass, anche se all’epoca si ripiegava su un più modesto “incontro con il pubblico”, perché tutti se la tiravano di meno. I posti erano relativamente pochi, io ero riuscito a entrare per via dell’accredito stampa e perché m’ero sciroppato due ore di coda. Una volta entrati, tutti in religioso silenzio, tutti adoranti a pendere dalle sue labbra per sentirne il verbo, sacerdote laico di una generazione di fricchettoni sopravvissuti. E lui non si è fatto pregare: ha raccontato dei Doors, della loro parabola, della morte di Jim Morrison, di come fosse totalmente inutile andare avanti anche se si sono trascinati per altri due album, perché suonare era la loro vita. Ha mostrato materialmente su una tastiera come componeva i suoi pezzi, le intro, i riff, i contrappunti alla voce di Morrison. Ha poi contestualizzato tutto nel periodo in cui erano attivi ed è qui che si è verificato il problema. Perché Ray è stato sincero, ma la sincerità non sempre paga. Ma mi chiedo anche i presenti chissà che cazzo pensavano potesse dire di diverso. Non era mica Madre Teresa di Calcutta. Ebbene, mentre rievoca dice la cosa più ovvia del mondo: che senza droga non sarebbero riusciti a scrivere neanche una nota, perché tutto quel periodo era fondato sulle sostanze stupefacenti e nient’altro, per questo è stato il periodo più fecondo della storia del rock. Perché si facevano tutti. Ergo: la droga fa bene.
Gelo.
Ho visto teste che si guardavano con la bocca tremante. Occhi smarriti. Capi che si abbassavano scrollandosi, come in preda alla disperazione. E poi qualcuno si è alzato, deciso, improvvisamente, ed è uscito senza guardarsi indietro. Seguito da altri, uno dietro l’altro. Siamo rimasti la metà. E Ray guardava chi se ne andava con gli occhi sgranati dietro le solite lenti, chiedendosi forse che cosa avesse mai detto per originare tanto sdegno.
L’ho amato.
Il braccio violento della legge
Se siete andati qualche volta a Venezia o a Cannes saprete che su dieci ore trascorse nel tentativo di vedere, diciamo, tre film, ne passerete almeno la metà in coda. È questo l’aspetto insopportabile di un festival, perché in coda la gente parla del film che ha visto poco prima ed è lì che allignano i due estremi da evitare accuratamente, perché ugualmente insopportabili: la minchiata interpretativa allucinante o il piedistallo dal quale il saccente del gruppo, spesso giovane e spettinato, pontifica sulle nuove frontiere estetiche che il film precedente gli ha aperto. Il problema è che non te ne puoi neanche andare rombando un sonoro vaffanculo, perché altrimenti perdi il posto: loro entreranno, tu no e li beccheresti nella fila successiva a spiegarti il film che hai appena perso. Oltre al danno, la beffa. Ad ogni modo, in una di queste code non ricordo per quale film, ma non credo fosse indimenticabile, visto che rammento bene cosa successe fuori ma non dentro la sala, ero in fila insieme ad Andreone, uno dei miei 10/15 coinquilini (eravamo un macello, là dentro) nella casa del Lido. La continuità costante tra coda, film e susseguente altra coda porta con sé un problema accessorio: non sai veramente mai quando riuscirai a pisciare. Se pisci quando sei in coda e sei da solo, perdi il posto. Se vai a pisciare durante il film, che cazzo l’hai fatta a fare la coda? Non se ne esce. Ma quella volta davanti alla sala del Casinò del Lido c’era Andreone e potevamo sfruttare vicendevolmente, uno alla volta, la presenza dell’altro. Andai. E feci una di quelle classiche pisciate da film che avrebbero reso tanto fiero zio Tonino (ricordate? Era il mio zio che voleva bere tantissimo per poter pisciare come un cavallo). Quelle che faccio dopo un film durano anche 3-4 minuti e “pisciata da cinema” è il nome che con ammirazione le ha dato mio figlio una volta che eravamo insieme (in sala, non a un festival: se no, che padre sarei?). Bene, dopo questi 3-4 probabilmente 5 minuti torno in fila, ma Andreone non c’è più. «Ma What the Fuck, se n’è andato? Impossibile, ‘sto film non se lo sarebbe mai perso, sono giorni che ne parliamo!», penso. Riesco a rientrare al posto che avevo lasciato, anche senza Andreone, perché a furia di stare in fila si diventa intimi e tutti sapevano che ero in coda proprio in quel posto, dove Andreone non c’era più. Però la gente mi guarda e non favella. Paiono un po’ intimoriti. Lo fa finalmente una signora, piazzata subito dopo di noi. Si avvicina e mi sussurra: «il tuo amico lo hanno portato via di peso i Carabinieri». Ora non ricordo se fosse lo stesso anno di Ray Manzarek o quello dopo, francamente, ma al di là di questo, quando hai i capelli lunghi e la barba incolta e quindici giorni prima ti hanno trattenuto – dicasi – tre ore al porto di Ancona di ritorno dalla Grecia perché non tiravi fuori la droga che loro erano convinti tu avessi, solo perché non ti lavavi da tre giorni e per di più eri iscritto a Lettere, sarà stata paranoia, ma io due problemi ho cominciato anche a pormeli, pensando che il prossimo sarei stato io. Fatto sta che Andreone non c’era più. Desaparecido, come nel ’73 a Santiago del Cile o nel ’76 in Argentina. Fortuna sua non lo hanno portato sul mare in aereo, ma l’hanno rilasciato il mattino successivo, dopo aver trascorso l’intera notte in caserma. Era successo questo: una ragazza, in coda, s’era lamentata per i cordoni che le forze dell’ordine imponevano al pubblico in attesa. Un agente l’aveva strattonata violentemente e siccome Andreone era uno che non tollerava le ingiustizie (leggi: non si faceva mai davvero i cazzi suoi) era intervenuto in difesa della ragazza. Ora, era chiamato Andreone, non Andreino, per cui per neutralizzarlo si sono dovuti mettere in quattro, lo hanno immobilizzato a terra, gli hanno dato un fracco di mazzate davanti a tutti e lo hanno caricato malconcio su una camionetta, intimidendolo in caserma per tutta la notte e facendogli capire che non avrebbe dovuto sporgere denuncia, se non li avesse voluti per sempre col fiato sul collo.
Tutto durante una sola pisciata. Altro che le dimensioni quantistiche parallele di Nolan.
Sei etero o sei gay? Sei zero o sei 6?
Forse l’anno in cui mi sono divertito di più è stato quando alloggiavo con l’intera truppa degli organizzatori del Festival del cinema a tematiche omosessuali di Torino. Di film in quell’edizione del festival ne ho visti davvero pochi, di mattina non era cosa perché ci svegliavamo tardi e di sera c’era sempre qualcosa di meglio da fare. Per il resto ero sempre in giro per il Lido imbucato in feste esclusive per le quali i ragazzi del festival avevano un fiuto eccezionale che rasentava la rabdomanzia. Le conoscevano tutte e sapevano con assoluta precisione, che è la cosa che fa la differenza, dove si tenessero. Feste divertentissime, in cui si ballava, si mangiava e si beveva e quindi non ci si doveva preoccupare di cenare, perché era sufficiente aspettare tre ore e ci si sarebbe abbuffati. Premetto: dopo una settimana ero clinicamente morto, ma durate la settimana è stato come essere un membro del jet set.
I ragazzi del festival avevano anche un altro grande fiuto, capire che grado di omosessualità ci fosse in te. Non insorgete ergendovi a paladini del politicamente corretto, non sto dicendo niente di male, non parlo di percentuali come se fossero quarti di nobilità, non sono mica quel fascio di Vannacci – oltretutto scrivo meglio – ma come diceva Nino Manfredi in una scena indimenticabile di Testa o croce che solo chi è cresciuto negli anni Ottanta può davvero apprezzare ridendo con le lacrime, alla fine «semo tutti froci», fatevene una ragione. Quindi occhio, perché ciò che vi sto per dire riguarda anche voi, machos che vi ritraete irritati se vi accarezzano una guancia.
Nei primi giorni, durante le feste o mentre prendevamo l’aperitivo, continuavo a sentirmi rivolgere richieste un po’ strane: «passami la birra», mentre avevano tutti la birra tra le mani, «passami la sigaretta» e tutti avevano già la loro cicca in bocca, «apri tu la porta, per favore?» e nessuno aveva le mani mozze. Non capivo ma eseguivo, fino a che mi hanno spiegato piuttosto schifati il perché. Era un test. In base a come effettuavi le loro richieste (postura della mano, altezza del gomito, rotazione del volto ecc. ecc.) venivi inserito in una scala che andava da 0 a 6, in cui 0 era il totalmente eterosessuale, 6 il gay praticamente donna. Non vi dico quanto avessi totalizzato, non è questo il punto, ma vi assicuro che nei successivi dieci anni (e forse anche qualcosina in più) ho osservato il mondo secondo questa scala di comprensione. Sì, l’avrò fatto anche con voi, se ci conosciamo da tempo. Vi confesso che non credo di essermene completamente liberato neanche adesso, perché giovane non sono più tanto ma sono ancora molto infantile. La maggior parte delle persone, lo capite da soli, non è mai 0-6 o 6-0, ma è più spesso 1-5, 2-4 oppure 3-3 che è un profilo ottimo per tutte le stagioni e per i periodi di particolare carestia.
Una notte, non ci giurerei ma mi pare fosse la festa di Tele+, l’antenata di Sky, uno dei dirigenti del festival (mi ricordo perfettamente chi fosse, ma ovviamente non lo dirò) puntò un tizio. Un bell’uomo. Guardandolo, per quello che potevo capire, uno 6-0, anche perché si accompagnava con due donne bellissime con le quali sembrava piuttosto in intimità. Il dirigente del festival restò immobile a osservarlo per un pezzo, poi disse con tutta la semplicità del mondo: «è un 5-1». Secondo il responso era quindi molto etero ma non a chiusura stagna, c’era una piccola fessura possibile (chi ha pensato a una metafora, peraltro banale, è un malato). Il problema è che non capivo dove avesse intravisto quell’1 sulla scala. Tutti noi, fino a quel momento incuriositi, ci disperdemmo in giro per la festa, perché la sentenza ci sembrava più che altro autoassolutoria per giustificare la quasi impossibilità dell’impresa. Oltretutto, c’era talmente tanta gente che, proprio volendo, sarebbe stato stupido fissarsi su un’unica persona. Ma lui, il dirigente, rimase lì, bloccato a osservare.
Tornammo a casa tardissimo e il dirigente non era rientrato con noi. Pensammo ridendo sguaiatamente che fosse ancora lì fermo a guardare il tizio che aveva puntato. Vi lascio immaginare la sorpresa quando il mattino seguente ci svegliammo per la colazione e in cucina trovammo il tizio seduto al nostro tavolo. «Caffé?», ci chiese con il suo vocione cavernoso. E a me sembrò che sorridesse proprio tanto soddisfatto.
AHAHHAHAHHAHAHHA è tornata una sequenza-pisciata (e pure la memoria di zio Tonino)… ma con l’upgrade! Un dramma a far da contraltare e innestare la tragicommedia!
Ma non se ne può fare una serie, anche inventata?
ahahahhahahha
PS: …e invece io un tuo articolo su L’esorcista lo avrei letto volentieri, che mi pare sia il tuo film horror preferito (e non il mio)…
Magari un giorno ci sarà occasione di parlare dell’Esorcista. Che è un film horror solo per veste esterna e che è tratto da un romanzo altrettanto stupendo.
Non volevo farlo solo in forma di coccodrillo, che è una cosa che ho promesso di evitare, per quanto possibile (ma credo che se non fosse stato il 7 agosto lo avrei scritto ugualmente).
Magari un giorno parlerò anche della Notte del demonio di Jacques Tourneur, che una volta sostenevo mi avesse cambiato completamente la vita.
E se togli il finale da baraccone effettistico, è un film davvero indimenticabile.
Ma lasciamo perdere.
Aiutami un attimo a ricordare: qual è il tuo horror preferito?
Non credo di avertelo mai detto. Shining.
In realtà un tempo rispondevo sempre che ero indeciso tra Psycho (di Hitch, of course) e Shining, poi seguii un bellissimo corso sull’horror in cui un tale (!) mi segnalò che un film, per ritenersi horror, oltre ad altri immaginabili elementi, deve possedere l’elemento soprannaturale. E così decretò la fine del mio imbarazzo. 😀
Lo so, si può mettere in discussione anche l’appartenenza horror di Shining. E aggiungo che si potrebbe intavolare anche un’interessantissima (almeno per me ahahahah) chiacchierata sulla differenza tra orrore e horror, ma non voglio spodestare per ora Jack Torrance dal trono.
PS: …anche perché in questo momento sai che non so cosa metterei per secondo?! Dio mio, la vecchiaia sta avendo effetti collaterali imprevisti, per la miseria…
Ciao, Giamp!
Davanti a Shining non posso che scappellarmi. Capolavoro assoluto. Totale.
Ma Shining mi risveglia un altro aneddoto fantastico: quando lavoravo alle scuole medie, nelle mie classi seconde facevamo sempre un approfondimento sulla letteratura di genere. Inutile dire che l’horror era quello che appassionava di più i ragazzi.
Dopo aver letto un bel po’ di brani di letteratura, il premio era vedere un film rappresentativo del genere. Nel caso dell’horror, visto che si arrivava a fine anno e poiché era il genere preferito insieme al giallo, ne facevo vedere un paio. E la mia scuola aveva una magnifica aula magna con un grande schermo e il proiettore. Praticamente era una sala cinematografica. Di solito facevo vedere Il presagio (un altro dei mie culti) e Shining, perché L’esorcista sarebbe stato francamente troppo. La tensione durante Shining era alle stelle, praticamente erano tutti tesi, pronti a urlare. Alla scena delle due gemelle, un mio allievo, più teso degli altri, scattò dritto in piedi, mollò un urlo acutissimo e poi, inspiegabilmente, schizzò contro lo schermo fino a sbattere contro il muro. Visione sospesa per appurare che non fosse morto e risate per mezz’ora dei suoi compagni.
Comunque è una scena, quella, che non posso più vedere senza scoppiare a ridere. Povero Kubrick, disinnescato da Youssef.
ahhahahahahahhaha così impari a far vedere Shining alle seconde!
E comunque il mio mitico professore di Filosofia al liceo, assieme a uno di letteratura di un’altra sezione, imbastirono un cineforum a scuola. Mi sembra così assurdo, che a volte ho paura di essere un replicante con ricordi innestati.
Beh, io con loro vidi Shining e il Nosferatu di Herzog – ecco qual era il mio secondo posto: il Nosferatu di Herzog!
Divertentissi aneddoti veneziano, ma efficaci anche i botta e risposta con Alessandro. Ciao a tutti e due.