Fa schifo. Fa proprio vomitare. Non sto parlando della qualità del film, ma proprio del disgusto che – volutamente – provoca. Se n’è parlato tanto, quando è stato presentato a Cannes. Ha anche vinto il premio come miglior sceneggiatura, con uno dei film meno dialogati dell’anno (non li ho visti tutti, ovviamente, ma mi sento di scommetterci, anche se, come sapete, le mie scommesse – vedi gli Oscar – sono sempre una disfatta). Ora esce anche da noi, precisamente domani, 30 ottobre, così si può provare disgusto in prima persona.
Coralie Fargeat è poco prolifica, solo un corto, due lunghi e due episodi di serie tv in dieci anni, ma quel poco che abbiamo visto, se abbiamo avuto la ventura di vederlo, è cinema furbo, intelligente, che sa come attrarrarre il pubblico curvando le identità di genere (cinematografico, non quello sessuale) per ampliare il discorso in metafore fondanti del nostro tempo. Qua parla della nostalgia del successo e della sofferenza dell’invecchiare, del non rispondere più ai modelli correnti. Tristissimo. Un ex diva, Elisabeth Sparkle, (Demi Moore: stupefacente), ora guru televisivo del fitness (un incrocio tra Jane Fonda e Olivia Newton-John), avverte di star per essere giubilata dal network per cui lavora e si lascia irretire da una pratica con cui è entrata casualmente in contatto: Substance, un liquido color evidenziatore che produce per partenogenesi un altro-sé, ma di fatto la stessa persona, identica matrice, come rimarca fino allo sfinimento il film, solo più giovane, levigata e priva dei segni del tempo. Unica condizione, come per Cenerentola, ognuno dei due deve vivere alternativamente per una settimana, mentre l’altro dorme in una sorte di inquietante coma ed è alimentato per via endovenosa con il kit approntato per l’uso: solo che l’io giovane della diva, che si chiama Sue ed è ormai diventata diva a sua volta soppiantando il suo attempato alter ego, s’inebria del suo ruolo di idolo e punta a succhiare vitalità a Elisabeth per avere più tempo a disposizione. Con risultati inevitabilmente disastrosi, inutile dirlo.
The Substance, sia detto con ammirazione, usa le caratteristiche più vomitevoli dello splatter per mostrare la lotta contro il tempo e contro il modello di se stessi in un passato idealizzato e lo fa con un cinismo e un’ironia così amara da lasciare interdetti. Si può discutere sul fatto che il film agisca più su modelli stereotipati che su una reale personalità femminile, che spesso si indugi oniricamente sul deretano di Margaret Qualley, che interpreta Sue, come simbolo della perfezione delle forme (indubbia) e che questo eroda il potenziale politico che un argomento del genere pur avrebbe, perché in un’ottica di rivendicazione, se fosse stata davvero questa l’intenzione o se questa intenzione fosse stata adeguatamente sviluppata, sarebbe stato certamente più opportuno mostrare l’effetto sulla fragilità di un potere patriarcale grottesco, sessuomane e isterico, incarnato da un Dennis Quaid sempre proposto con pratiche esageratamente espressionistiche, sparato contro lo schermo da un fish-eye che i dettagli delle otturazioni, la poltiglia del pranzo sminuzzata in bocca e assunta con rumori grevi rendono stomacante. E invece questo effetto sul potere patriarcale, malgrado sia ridicolizzato, non c’è, tutto rimane ancorato intorno alla figura femminile, complessa, sì, ma che si limita a soffrire rabbiosamente per il suo lacerante dissidio interno e per un tempo inesorabile, insopportabile. Perché trascorre troppo velocemente.
Ma Coralie Fargeat è coerente. Il suo sguardo è da sempre ancorato ai corpi, a essi si ispira e da essi procede. Lo ha fatto in Reality+, il cortometraggio che l’ha lanciata, aderendo alle fattezze perfette di avatar a cui alcuni individui soltanto normali aspiravano per vivere una vita da sballo; lo ha fatto anche in Revenge, il lungo d’esordio che l’ha rivelata, che usa le curve di una ninfetta come pretesto per esplodere in tutta la sua iperbolica e ironica violenza. Perché non avrebbe dovuto farlo in The Substance, che ha nella progressiva disgregazione di un corpo che vuole resistere all’incedere del tempo e dei tempi il motivo stesso della sua essenza?
Al di là di una storia che pur sguazzando nella divisione e separazione proprie della frammentarietà postmoderna presenta riferimenti classici come lo slittamento tra le immagini della realtà di Dorian Gray o come la duplice e occulta natura del Jekyll & Hyde, è fin troppo evidente che la ricchezza di The Substance risiede tutta nella sua qualità visiva. Un altro, dopo Parthenope, ma con un disegno di fondo molto più coerente e compatto. Coralie Fargeat conosce bene il cinema e sa perfettamente come integrare il suo inconscio cinefilo in uno stile ipnotico. Mentre lavora sulle proporzioni, sulle distanze, sull’intensità dei colori (un rosso sangue violento, blu abissali, alcuni gialli scintillanti, altri acidi, bianchi abbacinanti) e sulle simmetrie esaltate dal grandangolo, Fargeat miscela tutto in uno sguardo fluido che mette insieme suggestioni diverse ma perfettamente riconoscibili (La morte ti fa bella per la decomposizione, una spruzzata di Carpenter e Cronenberg per gli innesti mostruosi, la deformità à la Lynch, le intensità cromatiche di Peter Strickland e Anna Biller), motivi (Le due sorelle di De Palma), citazioni dirette (il finale di Carrie, sempre di De Palma, il facile tema di Bernard Herrmann daLa donna che visse due volte), derive inevitabili (Alien) e immortali iconografie (le losanghe sulla moquette dei corridoi e le toilette vermiglie di Shining).
E allora viene il dubbio che la mostruosità esibita, il tentativo di resistere impropriamente all’incedere del tempo, la deformazione anche del ricordo per ancorarsi illegittimamente a un presente continuo non siano la critica di Fargeat (non dico della Fargeat perché temo di beccarmi una fucilata al basso ventre dalla protagonista di Revenge) alla cultura dell’apparenza nel mondo contemporaneo imbevuto di potere fallocratico, perlomeno non in modo esclusivo, quanto soprattutto l’elaborazione da incubo proveniente dal cinema e che attraverso il cinema si propaga. Un body horror, come si suol dire, apparentemente piegato a una logica femminista che in realtà si concentra più sul portato della deformità delle immagini cinematografiche, che su quella del divismo appassito. Non solo metacinema ma materializzazione di un immaginario che è anche archivio. Della regista, certo, ma anche di tutti in funzione del tema trattato.
È il cinema il mostro, (ex) bellezza, le sue immagini e tutto ciò che sfrutta per eternare il suo mito, illusione di eternità delle dive comprese. Basterebbe vedere la prima sequenza, sulla Walk of Fame in cui compare la stella di Elisabeth vista dall’alto, osservarne l’evoluzione, la caducità delle stagioni, le crepe, la progressiva indifferenza, e confrontarla con l’ultima, in cui il cerchio tristemenete si chiude. Il senso è tutto lì, anche se in mezzo c’è un intero film fatto di inquadrature vertiginosamente nauseanti per comprendere natura e dramma di questo percorso votato al fallimento.
Quanta
freg*ain questo film, concentrata in duefemminedonne.Wahhh.
Lo spirito dei tempi: REVENGE passò al TFF, questo a Roma. Il festival torinese ha perso smalto, identità e fra un po’ si farà fregare anche il Moloch dalla Mole.
TotoOscar: qualche possibilità per Fargeat o Moore?
domanda fatta alla persona sbagliata: qualunque cosa dica, si verificherà l’opposto. Si capirà qualcosa in più il 17 dicembre, quando ci saranno le candidature. A leggere in giro, però, pare ci siano candidature più forti di Fargeat e Moore.
E chi?
i film di cui si parla di più sono The Brutalist, Anora, Blitz, La stanza accanto…