Jump Cut: Una splendida roba da boomer

Jump Cut: Una splendida roba da boomer

Se siete arrivati a scavallare i 45 anni e vibrate all’ascolto di una sezione ritmica di basso e batteria come si sentiva solo negli anni Settanta, allora probabilmente mi sto rivolgendo a voi. Mi rivolgo anche agli altri, a quelli più giovani e a quelli ancora freschi nell’anima, ma non pretendo che capiate davvero, perché i Måneskin, per quanto simpatici, stanno a quel periodo come Albano Carrisi sta a Placido Domingo. Se però appartenete alla categoria spirituale degli amanti del Rock ‘n’ roll 70s, Daisy Jones and the Six è la serie televisiva che non potete non vedere.

Nell’ultimo post vi avevo preannunciato di essere in attesa delle ultime due puntate (Prime Video ne ha rilasciate tre per settimana e due per volta nelle ultime due) e che speravo non mi rovinassero la stuzzicante sensazione provata fino a quel momento, perché l’ottavo episodio è stata una vetta ineguagliabile di estremizzazione drammatica e io mi sono detto semplicemente, per un fatto di pura logica, che se le ultime due si fossero anche solo avvicinate, sarebbe stato davvero un successone. E invece, avendo già raggiunto il classico plot point di non ritorno, la serie ha lucidamente spostato il tiro e, per concludersi degnamente, ha dapprima scelto uno sviluppo temporale abilmente intrecciato e poi lo ha modellato con un risvolto melodrammatico, anche presumibile, a pensarci, ma che mi ha fatto piangere come un vitello. Un po’ per nostalgia, perché alla fine mi risento sempre gli stessi dischi da trent’anni, e tanto perché, come ogni serie che si rispetti (vi ricordate?, ne avevamo parlato) i personaggi sono talmente ben definiti che ti entrano dentro e non puoi non affezionarti a loro. (cazzo, ho detto dischi: sono un dinosauro)

Senza indulgere nello spoiler, Daisy Jones and the Six racconta l’ascesa e la caduta di una band americana originaria di Pittsburgh, Pennsylvania, giunta all’apice del successo nel 1977, dopo il suo primo album, il folgorante Aurora, e un tour nazionale dappertutto sold out. Già sentite, eh, le storie in cui uno arriva in cima fino a solleticare le palle degli dei e poi crolla miseramente a causa di questioni banalmente umane: la vicenda è esattamente questa, ma malgrado la prevedibilità della premessa, il racconto è molto suggestivo. Il motore principale è il conflitto tra i due leader del gruppo, quello originario, Billy Dunne (Ben Claflin), guida incontrastata fino a quando il produttore Teddy Price (Tom Wright) spinge per l’inserimento della Daisy Jones del titolo (Riley Keough, la figlia di Priscilla Presley e nipote di Elvis), in grado di apportare un’anima ispirata alle canzoni piuttosto classiche e monocordi composte precedentemente.

Se artisticamente, pur con moltissime resistenze e ostacoli, il connubio funziona, la relazione tra i due è un autentico disastro, amplificato dalle loro spinte autodistruttive (se no che anni Settanta sarebbero?), e così l’intera vicenda assume i connotati del dissidio tra passione bruciante e dovere castrante, tra obiettivo da raggiungere e scossoni centrifughi che minano l’unità del gruppo.

La storia è raccontata à rebours. Come si è arrivati all’ultima catastrofica sera mentre il pubblico impazzisce in uno stadio tutto esaurito? Nessuno ne ha più parlato per vent’anni, nessuno sa niente e il pretesto dell’intera narrazione è un falso documentario sul gruppo realizzato da ****** (interessante saperlo, ma non ve lo dirò, se no mi maledite), che scandaglia la loro fulminea e fulminante carriera fino a giungere, appunto, a quell’ultima maledetta serata. Tutto torna, tutto eccede, tutto si pacifica. Vi diranno che Daisy Jones non coglie a pieno la natura degli anni Settanta. Fottetevene. Vi diranno che la serie del momento è The Last of Us. Può darsi, ma solo se amate zombi, spore e pensate che il lockdown sia stato il periodo più esaltante degli ultimi anni. Se invece avete un’anima Rock, siete dei cazzo di nostalgici, se amate alcune sonorità, se pensate che il momento più drammatico degli ultimi cinquant’anni non sia l’11 settembre ma l’avvento del punk e vi piacciono le narrazioni robuste in cui tutti i tasselli s’incastrano al posto giusto, Daisy Jones and the Six è la vostra serie.

Creata da Scott Neustadter e Michael H. Weber e tratta da un romanzo di successo di Taylor Jenkins Reid (che racconta gli anni Settanta senza averli conosciuti, perché nata nell’83), Daisy Jones si rifà un po’ alla vicenda dei Fleetwood Mac, soprattutto per la presenza di due donne nella band (una tastierista, che nei FM era Christine McVie, e la front woman, Stevie Nicks, la quale aveva una liaison con l’altro leader, Lindsey Buckingham) e per il loro modo di proporsi sul palco. La cosa per me è piuttosto singolare, poiché del tutto casualmente e in modo totalmente gratuito, mentre ero impegnato sul mio balcone a scrivere un libro che uscirà alla fine di quest’anno (ricordate?, ve l’avevo accennato in coda a un post sul finire della scorsa primavera), i Fleetwood Mac sono stati la colonna sonora di tutta la mia estate (roba al passo coi tempi, eh?).

[C’è sempre un’ispirazione reale per questi lavori basati sul Rock classico: per esempio in Almost Famous di Cameron Crowe, evidenti erano i riferimenti ai miei amati Allman Brothers (vedi foto sotto). È inevitabile, anche se spessissimo la versione fiction lavora per riduzione, dato che non arriva neanche lontanamente a raccontare gli eccessi accaduti nella realtà]

Gli Stillwater di Almost Famous in posa come gli Allman ai tempi del Fillmore East.

La cosa davvero singolare è però il corredo commerciale. Daisy Jones and the Six non è solo una serie, è un pacchetto composito di merchandising in cui sono caduto come un allocco. L’album Aurora che fa scalare alla band le classifiche nella finzione è un disco realizzato appositamente per la serie, suonato e cantato dagli attori/personaggi che si sono esercitati a dovere durante la pandemia; è prodotto da Blake Mills (nel suo curriculum Lana Del Ray, Dixie Chicks e John Legend) e composto da musicisti celebri come Phoebe Bridgers, Marcus Mumford dei Mumford & Sons, Jackson Browne e Marcus Cunningham. Non si tratta della solita soundtrack con il corredo di tutta la musica utilizzata, ma della musica originale ascoltata nelle varie performance in studio e dal vivo della Daisy Jones and the Six, come se fosse una band davvero esistita. Un po’ come fu per i Blues Brothers. Ed è un gran bel disco, soprattutto. Perché, per di più, i singoli pezzi legano la bellezza della loro composizione alla dinamica che li ha prodotti all’interno del racconto. E così si fornisce la dimensione del rimpianto in Regret Me, la carica delle chitarre svisate e delle voci in contrappunto di The River, l’intimità crepuscolare da condividere con la persona amata della triste ballata No Words. Era da un po’ che non ascoltavo un album così emotivamente ricco. L’ho anche acquistato. Che cosa démodé, eh?

Scusate, mi sto commuovendo di nuovo.

Come dicevano quelli? «I know, it’s only rock ‘n’ roll, but I like it». Dio, se I like it.

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Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.