Presentato alla Mostra del cinema di Venezia, in cui ha vinto il premio della critica internazionale, Argentina, 1985 di Santiago Mitre è passato direttamente su Prime Video senza fare capolino al cinema. Film attuale quanti altri mai, anche se ambientato alla fine della dittatura della junta militare argentina, mentre noi siamo ancora all’inizio pur non essendo in Argentina, governati da gente che dissimula, come diceva la canzone di quando avevamo parametri netti: «Si sa, la moda cambia quasi ogni mese/ora per il fascista s’addice il borghese». Avete sentito il discorso della Premier alla camera in occasione della fiducia? «A dispetto di quello che strumentalmente si è sostenuto, non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici. Per nessun regime, fascismo compreso». Diceva il gatto con il sorcio in bocca. Come? Non esagerare, non siamo in una dittatura? Non ci sono desaparecidos? Intanto non avete bisogno di giustificarvi se l’avete votata: dopo aver visto votare Berlusconi (avete notato che fine di merda ha fatto? Lo tengono altrimenti cade e non conta davvero più un cazzo di niente. Mancano solo le pernacchie in faccia) e i Cinquestelle, ormai non mi meraviglia più niente. Poi, non c’è bisogno di una dittatura per mettere a repentaglio alcuni dei diritti fondamentali dell’uomo (e della donna, soprattutto) in nome di una crociata pseudo-cristiana a cui per primi non credono neanche loro (date un’occhiata a quanti rappresentanti effettivi della “famiglia tradizionale” di cui si riempiono la bocca c’erano nella parata di cafoni giunta al Quirinale per il giuramento nelle mani di Mattarella. Forse il 20%). E infine, abbiamo anche i desaparecidos. Non vi allarmate, non rischiate di esserlo voi se il vostro vicino di casa dovesse fare il vostro nome: è solo la Sinistra, ma non è sparita dopo le elezioni, è sparita da tempo e nessuno processerà nessun altro per la sua scomparsa, perché frutto di un suicidio autoperpetrato da gente imbelle che rende ogni singolo voto a loro concesso una fonte irrimediabile di rimpianto.
Allora, per farla breve, Argentina, 1985 è un film da vedere, perché si sofferma su un trauma non ancora elaborato, troppo sanguinoso e contraddittorio per poterlo archiviare definitivamente, anche a distanza di quasi quarant’anni. Protagonista è quel Ricardo Darín che già aveva interpretato il capolavoro Il segreto dei suoi occhi, sempre sullo stesso periodo storico. Qua è il procuratore Julio César Strassera, a capo del pool di giovani e giovanissimi avvocati e magistrati che indagarono i crimini di quelle tre facce di cazzo di Videla, Agosti e Massera, grand’ufficiali delle forze armate che presero il potere in quel drammatico 1976, diminuendo drasticamente la giovane popolazione argentina di sinistra dopo averla sadicamente torturata. Argentina, 1985 è il racconto della resa dei conti, di quando la nazione tornò a una claudicante democrazia sotto la presidenza di Raúl Alfonsín e decise, tra mille intimidazioni e paura di ritorsioni (giravano tutti a piede libero, metà del paese era ancora collusa con il potere precedente, che è il motivo per cui Strassera fu costretto a ricorrere a gente priva d’esperienza), di chiudere definitivamente i conti con la dittatura. Perlomeno da un punto di vista legale.
Il film ha un impianto piuttosto canonico, simile a tutte le volte in cui un processo è al centro della narrazione. L’aspetto interessante, visto il clima piuttosto denso, diciamo così, in cui il processo viene istruito, è la ricerca infruttuosa dei collaboratori (particolarmente divertente il casting con cui gli stretti collaboratori di Strassera assumono i giovani virgulti) e la dialettica tra sfera pubblica e privata del procuratore, vista attraverso l’ordinarietà di una famiglia borghese in cui i congiunti, come disse un nostro recente presidente del consiglio, sono incoraggiamento all’azione (il figlio adolescente che s’interessa al caso, sprona il padre a non mollare e spia la giuria riunita in un ristorante prima della sentenza, alludendo allegoricamente a una rinascita della nazione edificata sulle nuove generazioni), ma anche punto debole, se minacciati (come la figlia e i suoi legami sentimentali). E così, l’attività di Strassera, che non ha proprio l’impeto del giustiziere, quanto i dubbi e le paure dell’uomo comune chiamato a un’impresa molto più grande di lui, gravita tra pochissime certezze e una spessissima nube di paranoia che, visti i complicati sette anni precedenti, s’impadronisce di tutto. E il film si cala perfettamente nella parte, abbondando di presenze non chiarite, di sguardi che cercano ancoraggi che nessuno può veramente fornire, di sospetti incombenti e mai davvero confermati. Perché la narrazione si nutre di paure reali, testate sulla pelle di un intero popolo e di cui il cinema si può solo fare parziale e infedele testimone.
Il momento decisivo, e non potrebbe essere altrimenti, è poi la fase del dibattimento, nel quale, ovviamente, non conta la risoluzione dell’intreccio, ben conosciuta (ma non ve la dico, così se non la sapete potete far finta che sia un film hollywoodiano), quanto l’intensità delle testimonianze dei sopravvissuti alle torture. Raccapriccianti, per chi non avesse mai visto Garage Olimpo, l’insostenibile e bellissimo film di Marco Bechis, o non avesse letto Il volo, le confessioni dell’ufficiale della marina Adolfo Scilingo rese al giornalista Horacio Verbitsky (se t’hanno chiamato Adolfo e sei nato nel ’47, è possibile che la tradizione di famiglia sia quantomeno nostalgica). E qui il film pare fermarsi per affondare la lama in una parentesi che, se intesa come finzione, può sembrare sospesa, quasi didascalica, forse emotivamente eccessiva, ma se le si concede il diritto di accedere all’ambito della realtà storica da cui è tratta, poiché il film basa la sua seconda parte sugli atti del processo, allora ogni deposizione si trasforma in una stilettata inferta alla coscienza dei diritti violati, all’umanità offesa e umiliata.
Per questo Argentina, 1985 è un film attuale. Per non dimenticare quei valori antifascisti su cui molte delle costituzioni moderne sono state scritte e su cui questo stesso governo, che non disdegna la fiamma tricolore e ricordare con sentito affetto il pelato di Predappio, ha giurato. Il fascismo storicamente nasce sulla debolezza dell’alternativa ma cade sempre sotto i colpi della propria iniquità. Basta solo dare la spinta decisiva. Per cui non vi dico «Resistete!», troppo scontato, soprattutto perché in mancanza di una risposta politica, vi trovereste da soli a farlo. Piuttosto pazientate, nella speranza che nel frattempo i danni non siano irreparabili.