
Lynch se n’è sempre fottuto. Di chi lo circondava, della strada intrapresa dal cinema americano, del contesto e dell’attualità e forse anche di tutto il resto. Ha sempre pensato a se stesso e alle sue ossessioni. Il cinema americano aveva appena visto teste di cavallo mozzate recapitate con le notizie del mattino e minacciosi monologhi contro uno specchio puntando una pistola, non si era ancora infilato in roulette russe nell’inferno di un sud-est asiatico paludoso come un irrisolto caso di coscienza che lui era già rimasto intrappolato in una dimensione parallela completamente avulsa da tutto. In questa dimensione si annaffiavano strani baccelli incinti di donne anziane e feti gommosamente amorfi. Mentre il cinema americano percorreva un suo preciso percorso, lui solcava la sua Lost Highway, l’unica concepita come Straight, completamente assorto nel suo progetto forsennato, nato, in origine, per fornire dinamismo ai tormenti della sua passione pittorica.
Difficilmente incasellabile, se non come autore in senso stretto, Lynch è sempre stato lontano dalle correnti, esterno ai movimenti, estraneo alle convenzioni, indifferente alle mode, unico promotore di uno stile pronto a farsi discorso e a catturare l’attenzione entusiasta di una nutrita schiera di fans che ne ha sempre condiviso le atmosfere rarefatte e allucinate, la perturbante costruzione del mostruoso quotidiano e l’inquietante logica ancorata a un sistema di valori ulteriore, parallelo e spesso inafferrabile. Proprio per questo, un po’ per tentare di circoscrivere una rappresentazione magmatica, volta a esondare oltre ogni barriera interpretativa, un po’ perché l’impeto che muove lo studioso è quasi sempre una sorta di amore feticista la cui corrispondenza è verificabile soltanto in ciò che l’analisi presume di dimostrare, nel corso degli anni Lynch è stato oggetto di una proliferazione di considerazioni critiche che proprio in funzione della grande varietà di assi espressivi, percettivi e simbolici sollecitati si sono prestate ad accogliere i più disparati modelli interpretativi. Psicoanalisi, semiotica del testo, strutturalismo e poststrutturalismo, meccanismi dell’enunciazione dilatati come un elastico, processi cognitivi stratificati: il cinema di Lynch, con modalità quasi beffarde, ha sempre accolto una gran varietà di ipotesi di studio proprio per la ricchezza degli elementi messi in scena, attraverso intrecci costruiti sempre su uno spiazzante avvolgimento speculare. Ma lo ha fatto fottendosene, appunto.

Perché anche le ipotesi di studio si sono spesso rivelate beffarde, visto che l’universo di Lynch, denso ed ipertrofico, ha sempre opposto un’ideale rete di recinzione wellesiana con su scritto «No Trespassing» rispetto a qualunque tentativo di interpretarlo correttamente, di fatto un ammonimento al critico e allo studioso ad astenersi dall’indagare, perché privati fin dalla partenza della certezza del comprendere pienamente. Quindi, non preoccupatevi se retrospettivamente non avete capito cosa fossero le inquietanti smorfie scomposte della pacchiana Lil in Fuoco cammina con me rivolte al detective Chris Isaak (What a wonderful voice, isn’t? Appena l’ascolto piango. Giuro) oppure se siete andati fuori di testa quando avete percepito la netta disarticolazione tra soggetto ed emissione sonora nel Club Silencio di Mulholland Dr.
Che senso ha accanirsi a interpretare questi aspetti se non in un’ottica completamente autoreferenziale? Autoreferenzialità non vostra, sua. Perché anche di voi, lui se n’è sempre fottuto. È come tentare di capire perché dopo aver mangiato le ostriche qualcuno le vomita e altri no. Una delle poche verità incontrovertibili è che l’universo lynchiano ha sempre seguito logiche interne particolari e distintive, uniche nel panorama cinematografico, perché uniche e personali erano le sue ossessioni, in un continuo turbinìo di invenzioni, incubi ed enigmi inspiegabili perché partoriti direttamente dal suo subconscio, incurante dei mutamenti della società, dell’ambiente, del sistema produttivo. Solo negli ultimi anni, con grande sorpresa, sembrava almeno preoccuparsi del tempo atmosferico, comparendo ogni giorno su YouTube in una sua spassosissima rubrica del tempo a Los Angeles, al punto che ci chiedevamo (anche con qualche lettore affezionato di questo blog) che tempo facesse in California prima ancora di aprire le serrande di casa nostra.

Ma ora che Lynch non c’è più — improvvisamente, verrebbe da dire — ora che sappiamo anche che nell’indimenticabile personaggio di Frank Booth, incarnato in maniera luciferina dal mio amico Dennis Hopper, aveva prefigurato 39 anni prima la stessa malattia che lo ha condotto alla fine, ora, dicevo, possiamo chiederci veramente cosa sia stato il suo cinema. Un immaginario tutto interno al suo ego, disancorato da qualunque referente. L’universo caratteristico di Lynch è stato un affastellamento di presenze e situazioni iconiche, che ne facevano riconoscere subito il suo magico fascino e non permettevano che i suoi film si confondessero con quelli di nessun altro. Ambienti soffocanti, colorati ipertroficamente anche senza il ricorso alla malìa melodrammatica del technicolor, figure smaniose, frenetiche e spesso ripugnanti, flashback che spezzavano il flusso del racconto, dettagli frastornanti e particolari sgradevoli, un’oscurità che si mangiava le superfici e i corpi, tendaggi cremisi e pavimenti a zig zag, squarci di luce al neon che parevano sempre sul punto di esalare l’ultimo respiro sono stati il corrispettivo iconico di uno smarrimento che ha sempre colto lo spettatore, facendolo sprofondare in un abisso tanto più profondo quanto più si fosse illuso di abitare comodamente lo spazio in cui si trovava immerso. Istanze subconscie che tramutavano la loro essenza d’incubo in sostanza del racconto, alterando in maniera raggelante il quotidiano, rendendo squilibrato ciò che appariva maggiormente familiare.
Il cinema di Lynch ha deformato l’ordinario facendo irrompere lo sconcertante senza fornire spiegazioni. Apparizioni oscure, sicuramente inattese, definite da una suspense che è sempre stata spalmata nella complessa costruzione di un’atmosfera guasta e mai funzionale alla singola sequenza. Apparizioni che a loro volta erano rivelatrici di varchi tra il mondo (supposto) reale e l’universo mentale, tra il familiare (seppur snaturato) e l’onirico, perché l’obiettivo è sempre stato solo uno: abbattere le barriere mobili tra una dimensione e l’altra per creare un’osmosi destabilizzante.

La fatina di Cuore selvaggio, il palcoscenico su cui si esibisce la donna del radiatore di Eraserhead, i conigli domestici di Rabbits che si saldano a Inland Empire, il suo ultimo viaggio escheriano nei meandri dell’impossibile; i torvi nani di Twin Peaks, la serie tv che ha rivoluzionato il concetto stesso di serie; un intero intreccio, quello di Velluto Blu, compreso tra un orecchio ritrovato in un giardino come se fosse un fiore di campo e un altro orecchio, di Kyle MacLachlan rilassato nello stesso giardino al termine della pellicola, sono le immagini penetranti di un cortocircuito perenne che si è nutrito ed esaltato soprattutto con ciò che era compreso al suo interno. Con un unico momento di elegia, così diverso dalle sue logiche e così sublime nello sforzo di significare metaforicamente un’intera vita: Una storia vera. Feci i salti mortali per vederlo, per poterne scrivere prima della consegna definitiva del libro sul Road Movie e feci bene, perché sancì la fine definitiva del genere, ancora più di Thelma & Louise o Fandango, anche se Lynch non era mai stato sensibile a quei temi, ma sapeva rappresentare l’oltre, ciò che c’è al di là, che noi tentavamo di decodificare come se si trattasse di una materia da cogliere con le consuete e stantie categorie critiche. Troppo strette per contenere lui.
Quello che avete appena letto, se siete arrivati fin qui, l’ho già grosso modo scritto, anche se in modo molto diverso, nella prefazione a un libro su Inland Empire firmato da Davide Morello una quindicina di anni fa. A prescindere da questo, avevo un sogno, che a scrivere qualcosa di definitivo per voi qua sopra fosse quello che io reputo il più grande esperto italiano, autore del libro più bello mai uscito su Lynch. Non nel senso “mai uscito prima”, ma proprio che non è mai stato pubblicato, perché una volta terminato era talmente oltre il formato della collana, con tutte le cose che aveva da dire, che non è stato poi più possibile ricondurlo a una dimensione più consona. Io spero costantemente che prima o poi, magari adesso, si riesca a dargli una forma editorialmente accessibile. Chissà. Lui non se l’è sentita di dirmi la sua sul blog, era ancora scosso per la notizia improvvisa e me ne dispiaccio, perché quello che avrebbe scritto lui sarebbe stata la perfetta unione tra la saggezza analitica e un atto d’amore, forse il miglior modo di salutare Lynch.
Ho cercato di farlo impropriamente io. Se riuscite, accontentatevi.

Mi sono occupato di David Lynch solo una volta, su SEGNOCINEMA, rispondendo a una domanda su di lui nello”Speciale” pubblicato nel n. 133, maggio 2005 (quasi 20 anni fa!!!). Se volete potete ancora trovarlo. Rifletteva bene il mio pensiero su di lui, con TWIN PEAKS a fare da momento divisorio, con un prima e un dopo T.P.
Sul tuo pezzo dico solo una parola: GREAT!!!!!
Una storia vera, con le finestre aperte nel buio in estate…
E che leggerezza in quel Weather Report, nel bel mezzo del lockdown mentale in cui eravamo (ero, 2020). Che tempo fa oggi? Che canzone ascoltiamo? Buona giornata a tutti. Nel pomeriggio poi vediamo che numero estrarre. Per settimane intere.
Al tempo dissi viva i matti. Adesso invece, chissà che la forza dell’arte non possa davvero salvarci da una vita triste e da una brutta morte. Come dice un cantante.
Quanta dolcezza nel giocare ad essere folli. Grazie Giamp per avermi fatto vedere, ai tempi, il vecchio tosaerba.
Mi commuovi. 🥹