In punta di piedi: gli Oscar 2022

In punta di piedi: gli Oscar 2022

Dopo il pessimo risultato fatto registrare lo scorso anno, con solo quattro premi azzeccati su dieci e il blog salvo solo perché, con grande istinto di conservazione, decisi preventivamente di non chiuderlo in caso di figura barbina (come poi è stata), rieccoci qua per una nuova previsione sulla Notte degli Oscar.

C’è la Notte degli Oscar? Davvero? Ma quando? Sì, c’è, nella notte (italiana) tra domenica e lunedì prossimi, tra il 27 e il 28 marzo, anche se a causa di tutto il puttanaio che si sta verificando in Ucraina e che ovviamente ­rende superfluo tutto il resto, nessuno o quasi pare essersene accorto. Forzandoci di parlarne comunque e scusandocene con chi si sentisse offeso per la vacuità proposta, l’attenzione rivolta giustamente ad altro ha evitato tutto il corredo di polemiche stucchevoli che di solito accompagna l’evento, per cui quest’anno non frega a nessuno che una donna non vinca il premio per la miglior regia (che l’anno scorso vinse Chloé Zhao solo perché capitata al posto giusto al momento giusto) o che gli afroamericani premiati non siano mai neri neri ma abbiano nuances più pallide per legittimarli. Quindi, siamo sobri, iniziamo con le previsioni, puntando a indovinarle e invitando i prescelti a smerigliarsi il sacco scrotale a scopo apotropaico, per evitare il temibile tocco della medusa del blog.

Miglior film. Come potete prevedere, se siete tra i 50 affezionati, è Licorice Pizza. Potrei fare un’eccezione per Belfast, altro grandissimo film, ma in una visione intima e regionale che poco si sposa con il premio finale. Drive my Car vincerà il miglior film straniero, quindi eviterei pagliacciate confusionarie tipo quando Parasite vinse entrambe le categorie. Don’t look Up è il film che ha fatto berciare di più i social (mi dicono anche il mio articolo più letto dell’anno, sempre grazie ai social, siano sempre maledetti) e pensandoci, era addirittura un film ottimistico, visti i tempi. I segni del cuore è di fatto il remake americano de La famiglia Bélier per il quale mi sfugge tutto l’entusiasmo che ha prodotto, così come non comprendo come possa essere candidato Dune, pantagruelico trailer della seconda parte che arriverà sugli schermi il prossimo anno (testate nucleari permettendo). West Side Story è uno spettacolo sopraffino con una regia sontuosa, ma privo del requisito dell’originalità, visto che, in questo caso, siamo alla versione 4.0 (dopo Shakespeare, Broadway, Robert Wise & Jerome Robbins ― che di Oscar già ne vinsero 10). Il potere del cane è Jane Campion in disguise, nascosta tra le pieghe di un western molto più maschilista di quanto non fosse il bellissimo romanzo di Thomas Savage da cui è tratto, mentre Una famiglia vincente è un film discreto, curioso se si ama il tennis, piacevole se si è fan del tardo Will Smith e La fiera delle illusioni è un Del Toro ossessivo che si avvita un bel po’ su se stesso, malgrado abbia esaltato molti, senza che ne capisca il perché. Quindi Licorice Pizza, per cui tifo apertamente, con simpatie per Belfast e la sfida di pubblicare la mia foto con l-a sc-sc-iarp-a dell’I—-Int–er (dio, non riuscivo neanche a scriverlo) se dovessero vincere Dune o I segni del cuore. E tenete conto che negli ultimi anni, di solito, con qualche rara eccezione, non vincono mai i film migliori (La forma dell’acqua nel 2018, Green Book l’anno dopo, Nomadland lo scorso anno, per esempio). Per cui, il rischio c’è. Ahimè.

Miglior regista. C’è il Branagh (Belfast) che non ti aspetti, quello che non ti arrota le palle con le sue commedie shakespeariane o con i suoi mystery presi in prestito da Agatha Christie, prevedibili fin dalla prima scena. Non te lo aspetti ed è una rivelazione. Fresco e sorprendente, intenso e sbarazzino, pur con una punta di nostalgica amarezza. Ma c’è anche il PTA di cui abbiamo parlato un mesetto fa (Licorice Pizza), che è un’autentica gioia per gli occhi e per lo spirito. L’Oscar credo sarà suo, perlomeno è il cavallo su cui punto (anche per coerenza, visto che nella storia solo in cinque occasioni miglior film e miglior regista non sono andati allo stesso titolo), ma con Branagh piazzato. Attenzione però allo Spielberg di West Side Story, perché è il classico film che risponde ai nuovi parametri di inclusione e rappresentazione delle minoranze (che saranno in vigore dal 2024) che ai parrucconi dell’Academy fa venire l’erezione. Anche se in realtà si tratta di rigor mortis.

Miglior attore protagonista. Se esuliamo dal presupposto che qualunque coglione recitando Shakespeare con convinzione fa sempre un’ottima figura e fermo restando che, a maggior ragione, Denzel Washington, che coglione non è, in Macbeth è strepitoso (e anche lo stesso film di Joel Coen sarebbe stato più opportuno di almeno la metà dei dieci titoli in lizza come miglior film), attenzione a Andrew Garfield per la sua interpretazione del commediografo in tick, tick…Boom! È vero che Garfield sullo schermo, anche da Spider Man, fa impressione, perché mi ricorda un fiammifero (guardate la testa in relazione al corpo: impressionante, con tanti cazzo di saluti al body shaming, di cui, senza essere particolarmente offensivi, perché alla fine siamo buoni, ce ne fottiamo allegramente), però è altrettanto vero che nel film griffato Netflix sfodera una performance che non ti aspetti, completa, fatta di leggerezza, numeri musicali, dramma e commozione e che ha questo in più di tutti gli altri, più di Will Smith (il padre delle Williams in Una famiglia vincente), di Benedict Cumberbatch (lo stronzone machista de Il potere del cane) e di Javier Bardem (l’irresistibile Desi Arnaz di Being the Ricardos): dagli altri ti aspetti che lo facciano, da lui di meno, per questo diventa il mio favorito. (a proposito di Cumberbatch, non so abbiate mai visto la sua pazzesca interpretazione della Creatura di Frankenstein al National Theater di Londra, per la regia di Danny Boyle: guardate la scena iniziale della nascita del mostro, non la dimenticherete).

I cinque candidati come miglior attore, non uno spot sui fiammiferi

Migliore attrice protagonista. Difficile. Perché, escludendo Nicole Kidman (Lucille Ball in Being the Ricardos), e non tanto per lei, quanto per l’interpretazione apprezzabile e nient’altro di più, le altre la statuetta la meriterebbero tutte. Anche Penelope Cruz, debordante dallo schermo come suo solito, cosa che forse abbiamo già detto in un recente passato. Grandissima Kristen Stewart per una Lady Diana spenta e depressa in Spencer, altrettanto Olivia Colman, che non delude mai, sui cui primi piani attoniti si regge tutta l’espressività di The Lost Daughter (sul quale un paio di mesi fa avrei voluto farvi un trailer poi superato dagli eventi. E dal solito scazzo), e grandissima lo è anche Jessica Chastain, benché piena di protesi facciali per interpretare la telepredicatrice dello scandalo ne Gli occhi di Tammy Faye. Siccome devi sceglierne una, scelgo quest’ultima, ma sarebbe un Oscar meritato anche se si scegliesse a caso.

Miglior attore non protagonista. Io lo darei a Ciarán Hinds senza pensarci due volte, per la simpatia e la tenerezza mostrate in Belfast (come nonno) dicendo in tutto una decina di parole, non di più, ma sono quasi sicuro che lo daranno a Troy Kotsur, il muto de I segni del cuore ― perdonatemi la brutalità: è per capirci ―, perché quando gli Oscar candidano un portatore di disabilità oppure un attore che la simula, alla fine, mano sul cuore e statuetta in tasca. È il modo che ha Hollywood per palesare la sua sensibilità d’animo. Pronto a ricredermi ma la lista è molto lunga e comprende, tra gli altri, Dustin Hoffman per Rain Man (quante volte avete sentito dire, da quel momento in avanti, “Sono un ottimo guidatore” anche da gente che stava compilando un CID?), Eddie Redmayne nei panni di Stephen Hawking ne La teoria del tutto, Tom Hanks in Forrest Gump, Al Pacino (Profumo di donna), Geoffrey Rush (Shine), Daniel Day-Lewis (Il mio piede sinistro), sono così tanti che quando ce n’è uno vero, tipo Marlee Matlin in Figli di un dio minore, non se lo lasciano certo scappare.

Migliore attrice non protagonista. Qua sono di parte, lo ammetto. Perché io premierei sempre, a prescindere, nonostante sia la sua prima candidatuta e anche se dovesse passare per strada e fare solo ciao ciao con la manina, Jessie Buckley. Al di là dell’ampiezza del suo registro, che la vede capace di spaziare dall’essenza diafana di Sto pensando di finirla qui alla giovane paturniosa che tassello dopo tassello si costruisce il futuro di merda che sconterà poi, da matura, Olivia Colman in The Lost Daughter, Jessie Buckley mi piace. Tanto. Come attrice, eh! Mica sono interessato a quel genere lubrico di cose, che diamine! Quindi spero vinca lei. Ma attenzione a Judy Dench, la nonna di Belfast, sapida e pungente, una sentenza (divertentissima) a ogni frase proferita. E attenzione anche ad Ariana DeBose in West Side Story, sempre per la solita mano di bianco passata sulla cattiva coscienza dell’Academy.  

Jessie Buckley

Miglior sceneggiatura originale. Prima di tutto una particolarità: delle cinque nominations, tre sono sceneggiature dalla struttura piuttosto libera (Licorice Pizza, La persona peggiore del mondo e Don’t Look Up), sganciata dalle regole, priva di un’architettura definita dai manuali e dei classici atti con cui si scansiona abitualmente la successione narrativa. A volte pare quasi che l’affastellamento si impossessi del susseguirsi degli eventi (soprattutto in Don’t Look Up) ma la sensazione è di una narrazione rapsodica, talvolta imprevista, spesso anarchica. Proprio per questo rischiano di vincere le altre due, Belfast e Una famiglia vincente, ma occhio, penso che uno tra Licorice Pizza e Don’t Look Up potrebbe spuntarla. 1X, dài, concedetemelo. Con la consapevolezza che se non fosse uno dei due sarebbe una pessima figura.

Miglior fotografia. La fotografia di Greig Fraser in Dune è la cosa più apprezzabile di un film mollusco, affascinante ma completamente privo di anima e di vertebre. Fraser è un grande direttore della fotografia, se ne volete la conferma guardate l’ultimo Batman, così come grandissimo lo è il veterano Janusz Kaminski nella fotografia scintillante e urbana di West Side Story (per sintetizzare, Kaminski è il responsabile di tutto il corredo bianco e nero al cappottino rosso di Schindler’s List) e così come lo sta diventando a grandi passi la giovane e duttile Ari Wegner per Il potere del cane, ma il lavoro di Bruno Delbonnel in Macbeth è da urlo, per come funge da ponte tra l’incubo perennemente sospeso della tradizione wellesiana e la sua versione neomoderna, digitalmente levigata e cromaticamente schizoide. Non fosse Shakespeare, ma Ciccio Pasticcio, vedere il film con l’audio muto varrebbe ugualmente la pena. Guardate qua sotto, solo per quanto riguarda la scena delle tre streghe.

Tre streghe al prezzo di una: il Macbeth secondo Bruno Delbonnel

Miglior film d’animazione. Il film moralmente più intenso è certamente Flee, che parla all’indirizzo degli adulti di guerra, di profughi e di libera identità sessuale. Quello più di successo Encanto, per il quale ho perso credibilità nei confronti dell’intera famiglia di una mia cara collega, per averlo consigliato ed essere poi incorso nelle ire soprattutto della figlia maggiore, delusa e particolarmente furiosa. Il film più brillante è I Mitchell contro le macchine, che è un’invenzione divertente (ma tanto!) dietro l’altra. Io punto su quest’ultimo, anche se vedere campeggiare nella stanza del protagonista di Flee il poster di Michael Laudrup, per il quale all’epoca (metà anni Ottanta) stravedevo e al quale sarò eternamente grato per il fantastico gol realizzato a Tokyo contro l’Argentinos juniors (provateci voi, fenomeni), una lacrima di commozione me l’ha provocata.

La stanza di Flee con il poster di Michael Laudrup in maglia bianconera

Miglior film straniero. Con buona pace dei tifosi nazionalisti, quelli che s’indignano perché Cannes o la giuria del Festival di Venezia non hanno premiato il film italiano in concorso, senza rendersi conto che il film italiano in concorso spesso è davvero impremiabile, non vincerà Sorrentino con È stata la mano di Dio. Vincerà Drive my car, che nel caso dovesse sbancare tutto e fare la fine di Parasite, e quindi vincere anche miglior film in assoluto e miglior regia, mi costringerà a un seppuku rituale con cui farò pubblica e definitiva ammenda alle minchiate che cerco inutilmente di predire, giusto per perdere insieme a voi un po’ di tempo.

Io, in bianco, mentre mi appresto al sacrificio rituale

Pubblicato da giampiero frasca

Scrive di cinema, ma solo quando gli va.

8 Risposte a “In punta di piedi: gli Oscar 2022”

  1. Condivido quasi tutte le tue scelte, come avviene quasi sempre. solo un appunto , meglio forse un’aggiunta per l’autopunizione che indichi (ti capisco: è durissima per un tifoso b/n come te!). Dunque, direi che potesti farti fare una foto con un gatt(in)o VERO in braccio. Sarebbe veramente un supplizio assoluto, da ricovero per te, da ricovero.
    Ciao. Mario Molinari

    1. Peggio la sciarpa, Mario, non scherzare!!
      chiarisco per non lasciare dubbi sulla mia anima bella:
      non amo particolarmente gli animali ma non li odio di certo.
      sto nel mezzo e sintetizzo, quasi come un motto: mai a casa, mai a calci.
      una foto non sarebbe per niente una punizione.
      quindi, viva viva i gattini (vostri)!

  2. a ‘sto punto sciarpa + gattini che almeno fa pucciosa ssimpatia…

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