Amo il tennis. Non amo particolarmente Guadagnino. E secondo l’equazione, se Guadagnino, che non amo, fa un film dedicato al tennis, che amo, dovrei rifiutarlo a priori. Invece non è così. Challengers è godibile. A dispetto dell’intreccio oscillante tra più passati e il presente della partita decisiva, di alcune scelte registiche che mi procurano sempre un’imbarazzata apprensione e di certe sottolineature formali da sgranatura oculare. È un film coinvolgente, al di là della materia che tratta. Il tennis come pratica erotica, più omo che etero, malgrado le apparenze. Con un sottotesto che dovrebbe far gridare allo sdegno in tempi di rivendicazioni femminili ma di cui nessuno si accorgerà, credo: Zendaya non è altro che una metafora della pallina da tennis rimpallata da un lato all’altro della rete dai due tennisti, che se la contendono (in realtà la respingono) senza esclusione di colpi, tradendo ripetutamente anche la loro amicizia. Pare volitiva, sembra gestire tutto, con il suo piglio manageriale che mette in riga chiunque; il trailer suggerisce pure che “lei decide le regole”, ma basterebbe osservare il movimento della testa durante gli scambi per comprendere quale sia realmente il suo stato. Una preda old school, in questo caso dalla forma arrotondata e con il marchio Dunlop stampato sopra. Indietro di dieci anni, ma la polemica non nascerà perché è ben occultata.
Il film in sé tuttavia non m’interessa e non ne parlerò. M’interessa per come mostra il tennis. Relmente giocato dai tre attori (Zendaya, appunto; poi l’assuefatto Mike Faist e lo sfibrato Josh O’Connor, recentemente visto ne La chimera di Alice Rohrwacher), reduci da lezioni di diversi mesi (Zendaya le ha prese da Brad Gilbert, ve lo ricordate? Giocatore mediocrino, anche brutto da vedere, ma grande coach elogiato da Agassi in Open e in diverse occasioni da Andy Roddick). E come giocatori sono piuttosto credibili, bisogna ammetterlo.
Il tennis ha una lunga ma sporadica tradizione nel cinema, da L’altro uomo di Hitchcock a Una famiglia vincente – King Richard di Reinaldo Marcus Green solo tre anni fa, con alcuni momenti estemporanei ma meravigliosi (la partita tra mimi nel finale di Blow Up o anche la risposta scorata di Luke Wilson lanciando la racchetta ne I Tenembaum). Senza dimenticare che uno dei critici cinematografici di maggior riferimento degli ultimi cinquant’anni, Serge Daney, ne ha raccontato le gesta per «Liberation». Il tennis è uno sport più agevole da rappresentare sullo schermo, un po’ meno della boxe ma sicuramente molto più del calcio, di cui non ricordiamo film credibili ad eccezione, come detto nel passato (qui, quo e qua), del solo Fuga per la vittoria (bella forza con Pelé, Ossie Ardiles, Bobby Moore: tutti campioni del mondo). Il tennis ha confini spaziali confortanti, in un solo sguardo, il più delle volte televisivo e sopraelevato, ti dice tutto. Per questo motivo, nella sua essenza ontologica, non avrebbe neanche bisogno di essere frammentato, perché è tutto lì, compresente. Causa, effetto e punto. Il cinema ovviamente non è la televisione: frammenta, perché non si limita a mostrare, ma dovendo raccontare, drammatizza l’emozione scaturita dalla performance atletica. Chiosa elementare: se l’interesse verte sul risultato, ovviamente l’inquadratura parziale è una pausa, benché spettacolare, rispetto alla tensione dell’esito. In una diretta, la spettacolarità dell’inquadratura ravvicinata compare quando l’esito è già noto, ossia nel replay del punto, come evidenziazione dell’atto decisivo. Ma è un omaggio agli esteti del gioco che poco c’entra con la tensione preliminare per un quindici o un set point realizzato o fallito. Amplifica per generare ammirazione su un risultato appena verificatosi. Banale distinzione tra cronaca e narrazione.
Il gioco in Challengers non solo è ovviamente frammentato (grazie arca’, chi lo vedrebbe un film in differita a inquadratura fissa da dietro, con due personaggi con cui magari identificarsi e non due idoli per cui fare il tifo?), ma nelle mani di Guadagnino si iperspettacolarizza. Come è giusto e normale che sia. L’asse si sposta, inevitabilmente: non è più la palla il fulcro dell’attenzione ma l’inquadratura stessa. La visione si fa totale, avvolgente, assoluta e quasi onnipotente, sfruttando adeguatamente le caratteristiche del digitale. La cinepresa si assume il compito della pallina, volando da un lato all’altro del campo, gestendo la partita. Diversamente da Hitchcock, che ne L’altro uomo utilizzò le riprese in campo lungo di un match di Coppa Davis tra Stati Uniti e Australia giocato a Forest Hills per rendere realistici e credibili gli scambi da fondo campo, Guadagnino crea l’azione partendo dai singoli frammenti e animandola con il protagonismo dell’immagine, trasformando la partita in un videogioco.
Solo la base di partenza è realistica: il servizio. E vi risparmio il fastidio che ho provato nel vedere Josh O’Connor servire con il braccio piegato dietro la schiena, come faceva lo sgraziato Jay Berger nella seconda metà degli anni Ottanta. Il servizio è la miccia che attiva un gioco fatto esclusivamente di fuochi d’artificio, di scelte estreme e di dispiegamento di energia erotica, libidinale, coerentemente con il senso globale del film. In questa prospettiva, Guadagnino è un feticista dell’immagine, il suo scopo dichiarato è spalancare le possibilità dell’irrapresentabile in uno sport che nella sua restituzione è sempre stato piuttosto sobrio e austero.
Tutto il resto è un campionario delle possibilità del visibile. Con alcune forzature, inevitabili visto il discorso, che indirizzano la visione sul piano del virtuale e avvicinano il tennis a quella bruttura che è il padel — “il trionfo delle pippe”, come lo ha ribattezzato Nicola Pietrangeli —, soprattutto quando i due scendono a rete e colpiscono a ripetizione al volo come se giocassero a rimpiattino: una pretesa piuttosto irrazionale di spettacolarità, mentre si scade con protervia nell’eccesso snaturante. La cinepresa si piazza quindi sulla rete e si fa sparare contro dritti a tutto braccio, come se si trattasse di un trucchetto anni Cinquanta, quando furoreggiava lo stupore per le prime pellicole in 3D (occhio che per effetto del digitale, la palla, più che sorpassare magicamente l’obiettivo, accenna a un appena percettibile schizzo verso l’alto);
in seguito ruota da una parte all’altra del campo, sempre cancellando gli ovvi stacchi con suture digitali, abbracciando con un angolo giro quello che sul piano riproduttivo è sempre stato proposto nei canonici 180° longitudinali, per poi porsi sulla sommità della pallina, all’apice del lancio sul servizio, per fiondarsi nel campo avverso come se si trattasse di una fucilata (e talvolta lo è anche nella realtà, con servizi che superano i 200 km/h).
(Il soggetto è sempre la cinepresa) Parcellizza gli scambi creando una suspense totalmente fittizia, perché mostra ogni recupero sulla linea del corridoio con una scivolata annessa, la quale però non impedisce di recuperare dalla parte opposta il colpo successivo, mentre si sa che ad alti livelli una slittata sul cemento è sempre il preludio a un punto perso malamente. A meno che all’altro non venga un collasso mentre sta per toccare la palla con la volée decisiva. E quando pensi che (sempre la cinepresa) abbia ormai esaurito ogni singolo spazio da cui proporre l’azione, ecco il colpo di genio: l’inquadratura da sotto il campo, per una danza surreale che cancellando il vero scopo del gioco, ossia il rimbalzo in un campo che non c’è più, ha come unico limite alla propria egolatria l’azzurro infinito del cielo.
L’abbiamo detto, è una metafora erotica, l’inquadratura da sotto non è altro che un correlativo oggettivo dello smorzacandela. Quindi Guadagnino, praticamente, lo fa in tutte le posizioni. Nessuna esclusa. La partita è il suo Cantico dei cantici, il suo Kamasutra e il tennis diventa un lungo inesausto atto sessuale che conduce a un finale omoerotico. Mentre la pallina con le sembianze di Zendaya guarda, sbattuta e impotente. Lo spettatore si diverte, l’amante del tennis ne esce un bel po’ frullato.
Ora ho solo paura di guardare la prossima partita di Carlitos Alcaraz, perché non saprò più davvero se mentre godo per il suo modo di giocare in realtà non stia fantasticando di farmi brutalizzare.
Come sempre fornisci una lettura originale di un’opera che a me è piaciuta assai poco. Come te non intendo analizzare questo film ultra-ambizioso, velleitario e come già in altre occasioni falsamente irriverenti, sputi in faccia alla piccola borghesia perbenista.
MI ha colpito la camminata di Zendaya che si allontana da Josh O’Connor dopo che le ha chiesto di diventare il suo coach. Perché tale presa di distanza è presentata con un lungo ralenti? penso che risponda a questa esigenza: mettere in evidenza le tette della fanciulla, che ballonzolano ostentatamente sotto il suo bel maglioncino marrone? Tutta qui la provocazione di Guadagnino? Totò commenterbbe “Ma mi faccia il piacere!!”.
Pensa un po’ come possono essere differenti le visioni di una stessa cosa: mentre Zendaya si allontanava da Josh O’Connor pensavo proprio a che seno piccolo avesse!
Ma non credo c’entri molto con il cinema e mi vergogno di averlo rivelato in questa sede. Ma solo un po’.
ciao Mario, grazie!