[Avvertenza tipo cane che si morde la coda. È tutto uno spoiler, per cui se leggete l’articolo vi rovinate il film, ma siccome il film è imbarazzante, leggere il post vi evita di andare al cinema e di spendere soldi per questa porcheria. Scegliete voi e, nel secondo caso, ringraziatemi]
Eppure, nonostante tutto, voglio dargli il beneficio del dubbio. Potrebbe farlo a posta. Potrebbe volere appositamente cadere nel farsesco per volontà di deformazione iperbolica del genere. Perché l’horror, si sa, in molte delle sue manifestazioni (quelle più economiche e quelle più naïf), è come gli estremi ideologici per Bobbio, ha i poli opposti che si sovrappongono. Bah, non lo so. Perché se non dovesse farlo di proposito, allora bisognerebbe internarlo. Sto parlando di M. Night Shyamalan, ex enfant prodige del cinema americano, ora che enfant non è più e sul prodige i più hanno strabuzzato gli occhi così tanto da indursi l’ipertiroidismo. Sto parlando di lui e del suo ultimo film, Old, uscito il 21 luglio al cinema, forse solo con l’intento di creare nuovi focolai.
Ora, Old, tratto dalla graphic novel francese Castello di sabbia realizzata da Pierre Oscar Lévy e Frederik Peeters, nelle mani di chiunque altro dotato di senno, anche non per forza Jean-Paul Sartre, sarebbe potuta essere una metafora fantastica sulla caducità della vita, sull’esiguità del tempo a disposizione, sui rimpianti, sul panta rei e sul carpe diem e chi più ne ha più ne metta. E invece no. Il soggetto è presto detto: tre coppie, un rapper, un’anziana e un cane, più i tre figli di due delle coppie, si ritrovano in una piccola baia paradisiaca, accompagnati lì dal pullmino del resort in cui soggiornano, pullmino tra l’altro guidato dallo stesso Shyamalan, che da un lato non disdegna mai un cameo, dall’altro, osservando poi dalle alture il comportamento dei turisti abbandonanti nella baietta, si ritaglia metanarrativamente il ruolo di demiurgo dell’intera operazione, perché l’enfant ha anche una spropositata considerazione di sé. Ma nella baietta che succede? Succede che un’ora scorre come se fossero due anni a causa delle pareti rocciose che blah blah blah. Delle cause ce ne fottiamo, ma gli effetti li potete immaginare, anche se non tutti, perché altrimenti sareste Shyamalan, e questo non vi farebbe onore. La coppia di quarantenni (lui è quel nano di Gael Garcia Bernal, lei la raffinata Vicky Krieps, l’amante di Daniel Day Lewis nel Filo nascosto), in procinto di separarsi prima della vacanza, verso sera si trasforma in due placidi ottuagenari che ormai, sapendo di decomporsi sull’isola, e complice l’incipiente cecità dell’uno e la sordità dell’altra, si perdonano tutto, fanno i generosi vicendevolmente e si dissolvono in serenità, al calduccio di un falò senza neanche il rompicoglioni di turno che gli canta Albachiara. Un cardiochirurgo, interpretato da Rufus Sewell, il genero di Anthony Hopkins in The Father ma anche, volendo, la versione inglese di Valerio Aprea, decide di sfregiare il rapper (ovviamente nero, ma di buona famiglia) su una guancia con il suo coltello. Così, perché gli va. Ma mentre ti viene il dubbio che il cardiochirurgo sia originario di Voghera, sono passati già quei tredici minuti di film (tre ore nel film, sei anni nell’universo di Shyamalan) e scopri che quello era il primo barlume di schizofrenia che subito dopo si conclama tentando di fare a fette chiunque. Senza parlare poi di tumori benigni che in qualche minuto diventano come un cavolfiore e che vengono asportati dallo stesso chirurgo prima della follia per mezzo di un coltellino, mentre la ferita appena aperta tenta di richiudersi, con tanti saluti ai punti di sutura, agli emofiliaci e alla setticemia.
Ma gli apici sono altri. Me-ra-vi-glio-si. I due bambini di sei anni al momento dell’arrivo, ovviamente, se gli altri invecchiano, loro crescono. E siccome i genitori sono impegnati a capire come andarsene da quella baietta visto che quello stronzo di Shyamalan li ha abbandonati lì, nessuno li controlla, tanto dove cazzo vuoi che vadano? E allora i due bambini, dopo dieci minuti (di film), scoprono che la tenerezza che li faceva giocare insieme pochi istanti prima s’è tramutata in ormone e il guardarsi intensamente negli occhi all’interno della tenda prelude a un gioco successivo, perché passare dai cubotti a vedere che succede se li incastri alla fine è un attimo. Stacco, inquadratura successiva: sono passati nove mesi e i due raggiungono gli altri mano nella mano, lei è raggiante come se avesse ritirato un’ottima pagella, sennonché sembra che abbia ingoiato un’anguria intera (lei è Eliza Scanlen di Babyteeth: guardatelo, ne vale la pena); l’altro saltella come se pregustasse il momento in cui quella stessa anguria venga tagliata, lì, in quella calura estiva, e a me è venuta in mente la barzelletta, pessima, della bambina curiosa che chiede una cosa sconveniente alla maestra che le risponde di smetterla perché ha ancora le labbra sporche di latte ecc. ecc.
Peggio, perché meno divertente, è invece ciò che succede alla moglie del cardiochirurgo schizofrenico, una trophy wife tutta selfie e assunzione di calcio (l’elemento, non il gioco del), il cui contrappasso, manco a dirlo, è l’invecchiare in una sola giornata e certificarlo attraverso i post di instagram (la domanda che sorgerebbe spontanea è: ma il post si legge con il tempo della baia o con quello del mondo al di fuori? Perché, in quest’ultimo caso, mentre uno rinsecchisce e si consuma in poche ore, avrebbe comunque followers per almeno tre generazioni successive. Domanda, tuttavia, subito fugata dalla realtà della narrazione, forse l’unica scelta centrata: non c’è connessione, come durante una lezione qualunque in Dad, per cui il problema non si pone). Orbene, la moglie del cardiochirurgo, che di nome non a caso fa Crystal, progressivamente si disfa, eventualità che avrebbe potuto stimolare una marea di ipotesi e conseguenze, anche banalissime, ma che Shyamalan risolve facendola fratturare (eh, la mancanza di calcio, alla lunga incide sull’osteoporosi). Poiché il marito che operava con un coltellino non può intervenire (e comunque era un cardiochirurgo, non un ortopedico) e nel mondo della baia un’ingessatura durerebbe lo spazio di qualche secondo, le sue ossa spezzate a ripetizione (echi di Unbreakable: chi l’ha detto che Syhamalan non è un autore?) si saldano rapidamente ma tutte storte, perché totalmente scomposte, quando si dice la sfiga. E allora il risultato è un deforme ragno con tutti gli arti arricciati e una maschera di rimmel sbafato su un volto solo sfatto, non invecchiato, malgrado i trent’anni che dovrebbero essere trascorsi. Il problema è che guarda verso lo schermo e a te viene una voglia incontenibile di schiacciarlo, ‘sto schifo di ragno, fai anche per muovere il piede, manco fosse un film in 3D, poi ti accorgi che sei scalzo perché hai le infradito e desisti.
Al di là del grottesco involontario, il problema di Syhamalan è che non ha più alcun senso del limite dai tempi de L’ultimo dominatore dell’aria, cioè dal film più stupido della Storia del cinema se il primo posto non fosse già stato occupato saldamente da Battaglia per la terra di Roger Christian, con John Travolta e tratto da un soggetto di Ron Hubbard, quello di Scientology. Nel frattempo sono passati undici anni. Se prima aveva il problema di presentare una struttura sempre simile a se stessa, ripetuta perché aveva funzionato ne Il sesto senso, cioè saturare la vicenda di tensione per poi far deflagrare il twist finale sfruttando tutta l’attenzione partecipe e stupefatta del pubblico, in seguito le tensioni si sono dimostrate sempre meno sature e il margine di sorpresa del colpo di scena decisivo, di conseguenza, sempre meno efficace (e non mi dilungo su quest’ultimo twist, perlomeno discutibile in questo preciso momento storico: vi dico solo che non mi stupirebbe vedere Shyamalan in piazza insieme ai Free Vax pronto a urlare “Il bambino è mio e lo gestisco io”). Il 2010 de L’ultimo dominatore dell’aria, si diceva, ha invece sancito il trapasso verso l’incontinenza, verso una tendenza alla mancanza di misura che nell’horror di serie B è il sale dell’entertainment, qua, che si punta all’empireo dell’autorialità e la produzione è Universal, il sospetto che si incorra sempre nell’errore di misura è fin troppo pressante. La sua macchina da presa si muove in continuazione, la maggior parte delle volte in modo gratuito, tutt’altro che funzionale, giusto per movimentare la scena alimentando il panico («eh, il postmoderno!», direte voi, «eh, ‘sto cazzo!», potrei rispondere io se fossi cresciuto in periferia), il resto del tempo lo impiega riempiendo completamente lo schermo di primissimi piani che non illustrano, opprimono, e poi, completamente instabili come sono, non si trasformano nella superficie emotiva solcata dal tempo che vorrebbero essere, infastidiscono, soprattutto dopo un anno e mezzo di visioni esclusivamente domestiche (ma questi sono pur sempre fatti esclusivamente nostri, non certo suoi). Per di più, quello che in altri horror sarebbe ammirevole, ossia tendere come un elastico prossimo a spezzarsi l’apprensione dei personaggi (e quindi degli spettatori) prima di mostrare il motivo della loro paura, qua ovviamente fa il giro e si trasforma prima in un film radiofonico, in cui sono i personaggi a descrivere a parole i mutamenti del tempo in atto senza che siano mostrati direttamente sui volti o sui corpi, al punto da far insorgere l’ennesimo dubbio, che il trucco adottato sia davvero scadente. Poi, invece, arrivato a scollinare nell’ultimo atto del film, decide di mostrare tutto insieme, sprofondando in quell’eccesso di soddisfazione scopica che l’horror (quello serio) dovrebbe assumere con una sensibilità vista in pochissime occasioni, se non si vuole scadere nel ridicolo involontario, come invece capita troppo spesso. Perché, dimenticando per un attimo Foucault, vedere (e quindi far vedere) non è sempre potere, anzi, nell’horror, che è un universo a parte in cui le regole per essere valide devono venire il più delle volte disattese, mostrare è spesso indice di una mancanza di alternative e di idee. È però perfettamente inutile dire a Shyamalan di lavorare di cesello quando ormai da undici anni ha brandito l’ascia. Careful with that Axe, Shyama!
Bah, buone vacanze. Ma in un’altra baia, se no stasera siete già a casa invecchiati di cinquant’anni.