L’altra sera sono andato alla fiera dei bolsi e ho visto Indiana Jones e il quadrante del destino. Era proprio quello che mi aspettavo di trovare. E il film c’è da dire che non ne fa mistero. Come sapete, non è girato da Spielberg, impegnato nel suo diario intimo, I Fabelmans, ma da James Mangold, che nella sua carriera si è sempre diviso fra episodi interessanti (Dolly’s Restaurant, Quando l’amore brucia l’anima, malgrado il titolo imbecille, Ragazze interrotte) e cose pressoché inutili, anche se ben confezionate (Quel treno per Yuma, Le Mans ’66). Ma la continuità è totalmente rispettata e non rimarrete delusi, se siete fan dell’eroe hollywoodiano che forse più ha esagerato i dati sul suo mestiere, dotandolo di un ritmo fibrillante e avventuroso laddove invece ci si imbatte spesso in polvere d’archivio e, le rare volte in cui una spedizione sia finanziata, in buche nel terreno nelle quali si scova, scavando e sudando, qualche scheggia sfuggita all’erosione del tempo.
All’erosione del tempo non sfugge nessuno. Solo Tom Cruise, come dicevamo qualche tempo fa. Per cui, dopo il solito teaser che ci presenta la caratura dei nemici e le sapide caratteristiche dell’eroe ringiovanito con effetto de-aging, si giunge al 1969, quando Indiana Jones, che ora, per non apparire ridicolo, viene chiamato Henry, si sveglia nei giorni dell’allunaggio in una New York appicicaticcia e mostra tutti i suoi anni. Non tutti, dài, siamo sinceri. Vedendolo a petto nudo che si lamenta del fracasso di un gruppo di fricchettoni vicini di casa, si nota l’appesantimento, ma non gli daresti mai gli 81 anni che ha. Ho visto cinquantenni più sfasciati, onestamente. Certo, lui è Harrison Ford.
Qualcosa è cambiato, incontestabilmente. Vi ricordate le sue lezioni universitarie nel 1936, quando le allieve chiudevano sognanti le palpebre per fargli leggere l’I Love You che vi era scritto o quando era costretto a scappare dalla finestra (era l’anno prima, il ’35) per la troppa ressa davanti al suo ufficio durante l’ora di ricevimento? Ecco, tutto finito (ed è forse il momento più triste dell’intero film, anche perché tutto il resto lo fa come una volta, dal picchiare i nazisti allo zompettare da una parte all’altra): in un’aula crepuscolare che sembra un documentario sui gravi problemi dell’istruzione pubblica, i pochi studenti gli sbadigliano in faccia mentre lui discetta imperterrito di vasi antichi e dell’assedio di Siracusa con la stessa perizia di un tempo che ora però pare totalmente fuori luogo. Scena che mi ha depresso in un modo che non potete neanche immaginare, perché mi sono proiettato nei prossimi dieci, quindici anni, quando inevitabilmente sarò considerato “il vecchio coglione che ci disturba mentre messaggiamo con whatsapp”. Mi sto chiedendo se non sia più dignitoso morire prima.
Siamo onesti. Pur in assenza di Spielberg e con la lunga e funesta mano normalizzante della Disney a produrre, questo quinto episodio è anche divertente. Mio figlio non si capacitava del fatto che all’uscita dalla sala fossi particolarmente perplesso, per cui ho dovuto interrompere a metà la condivisione della mia perplessità quando ho visto il modo accondiscendente, quello appunto del “vecchio coglione”, con cui mi guardava. Quindi, sì, è divertente. La sceneggiatura di quel furbo troione di David Koepp (Carlito’s Way, Mission Impossibile e Omicidio in diretta con DePalma, Jurassic Park, La guerra dei mondi e Il regno del teschio di cristallo con Spielberg, poi Spider Man ecc. ecc.) funziona. Lo schema narrativo è sempre identico, anche se qua c’è la novità della senescenza, che produce un paio di episodi spassosi e autoindulgenti.
Ovviamente, giunti al quinto episodio, si abbonda di autocitazioni, ammiccamenti ed easter eggs, come dicono i ggiovani dei social, e tendenzialmente tutto rientra nel gioco del franchise perché fornisce quella continuità che fa tanto community in cui riconoscersi (e magari anche ammirarsi, quando si fa caso a qualcosa che gli altri non hanno notato, soprattutto se si è convinti che tutti gli altri non l’abbiano notato). La novità è fornita dalla presenza sbarazzina, forse anche troppo, di Phoebe Waller-Bridge, che nel film è la figlioccia di Indiana Jones (una volta finito il tempo delle prede sessuali…), archeologa anche lei e pragmatica cacciatrice di tesori, sempre un po’ troppo dinoccolata, sempre un po’ fuori contesto, forse perché per me è e sarà sempre l’anima di Fleabag, per cui è come quando si vedeva in qualche altro film Henry Winkler e non pareva vero che non indossasse il giubbottino di pelle (chi è Henry Winkler? Lui ↑, appunto).
Devo ammettere anche che il momento in cui Indiana Jones, dopo aver attraversato l’asse del tempo, giunge con un aereo nella Siracusa del 213 a. C., ancora priva di un aeroporto (questo Meridione sempre arretrato!), e mentre i romani la stanno cingendo d’assedio, malgrado la pacchianata in cui l’intera sequenza rischia di naufragare, ha un che di suggestivo, soprattutto quando l’eroe riconosce candidamente che trovarsi all’interno della Storia che ha studiato tutta una vita è sempre stato il suo sogno. Banale, volendo, e ve lo dice uno che la Storia la insegna da venticinque anni, certo non come il professor Jones, ma non è questo il punto, perché, al di là di ciò che si vede nelle immagini, sempre troppo CGI come le vecchie ciampòrgne truccate oltremodo, l’idea che la Storia possa avere un suo grado di rappresentazione, più o meno fedele, più o meno utile ai fini didattici, implica questioni filologiche, ermeneutiche ed espressive che in questo periodo occupano integralmente i miei pensieri e quelli di un gruppo di cinque valenti giovani studiosi con i quali si sta facendo proprio un lavoro di questo tipo. Guarda le coincidenze, a volte.
Eppure, in tutto questo gigantesco luna park dedicato agli ammiratori di un tempo e alle nuove schiere che hanno recuperato ciò che avevano perso nel passato, c’è pur sempre qualcosa che non mi torna.
Avete idea del momento in cui assaporate una bella portata, impiattata in modo scenografico, ma manca quel pizzico di sale che per un attimo vi fa storcere il naso? Esatto, quello. All’inizio mi aveva infastidito parecchio il montaggio nella sequenza sul treno, talmente ipercinetico e confuso da fottersene se risulta difficile decodificare l’azione, perché ormai la tendenza è restituire l’accumulo di casino rispetto alla logica del movimento; ma non era quello, perché ‘sto casino inintelligibile lo vedo da anni in qualunque action e tiro avanti lo stesso ricostruendo a posteriori. E non si trattava neanche di alcuni momenti che avrebbero dovuto sorprendere o emozionare e invece, seppur con tutte le buone intenzioni, rasentano il patetico. Come quando compare improvvisamente Antonio Banderas, esperto subacqueo che deve aiutare Indy a inabissarsi per recuperare un reperto (e che reperto!) da un’imbarcazione romana. Sembra un altro vecchio coglione. Indubbiamente è bello ritrovarsi tutti quanti come fossimo un club di amiconi, però non se ne comprende davvero la presenza: non c’era un altro qualsiasi per interpretare un anziano lupo di mare un po’ andato che orienta sempre l’orecchio verso l’interlocutore per agevolare l’arrivo del suono e comprendere ciò che si dice?
Oppure come quando, alla fine ― allarme spoiler! Non leggete se non avete visto il film ― , surprise!, compare Karen Allen, la Marion de I predatori dell’arca perduta, che all’inizio del film sta per divorziare da Jones (Lo aveva sposato alla fine del Teschio di cristallo). Lì ho avuto il vero momento di straniamento: Karen Allen non si muove, è immobile, sembra una cazzo di statua di sale. Lo guarda e non favella. È talmente ferma e inespressiva che ho cominciato a nutrire il dubbio che nella realtà fosse morta e che io me lo fossi perso e che quello che stavamo vedendo fosse un ologramma non particolarmente riuscito, come il raggio luminoso di Carrie Fisher in Star Wars (nel primo, quando chiede aiuto in loop uscendo dall’occhio di C1-P8). Imbarazzante davvero.
Ma non era neanche questo. E alla fine ho capito. Sia chiaro, non è una cosa solo del Quadrante del destino, ma di tutti film, a partire dal Tempio maledetto. Avrei dovuto capirlo almeno dal 1989, quando uscì L’ultima crociata ma mi limitai a pensare che fosse la ripetizione degli stessi schemi a procurarmi un grado sempre crescente di fastidio annoiato al termine della proiezione. Stavolta mi sono messo d’impegno e non ho detto una parola finché non ho capito, tanto mio figlio con me non voleva parlare perché, come vi ho detto, ponevo obiezioni al piacere che lui invece aveva provato: perché I predatori dell’arca perduta è un affascinante capolavoro mentre tutti i seguenti danno una tediosa impressione di posticcio? Pensa e ripensa: Eureka!, come diceva Archimede (lo dice ovviamente anche in questo film), è una questione di costruzione della sceneggiatura con ricadute sull’atmosfera del film. Ne I predatori dell’arca perduta la ricerca dell’oggetto-valore (l’Arca dell’alleanza) era funzionale al mistero che da esso si sprigionava. Dopo non è più stato così. Nè le pietre degli indù, né il Graal (e dire che l’occasione era ghiotta), tantomeno i teschi di cristallo e né, infine, il meccanismo di Antykytera del Quadrante del destino sono propedeutici alla soluzione dell’enigma ma sono essi stesso l’oggetto-finale a cui la ricerca punta. Ciò che dopo i I predatori dell’arca perduta è stata smarrita è la dimensione del mistero, sostituita dall’azione in funzione della pura conquista. I predatori condensava progressivamente un’aura che sarebbe deflagrata una volta giunta a saturazione, si pensi solo alle anticipazioni e alle esche che contrapponevano fede a superstizione, razionalità a trascendenza, desiderio di conoscenza a riconoscimento del limite umano (quando Indiana Jones sceglie di non guardare ciò che sta scaturendo dall’Arca dell’alleanza, venendo meno al desiderio di una vita ma allo stesso tempo salvando la pelle). Mistero che tra l’altro non sarebbe terminato con l’apocalisse causata dall’Arca ma che si sarebbe invece moltiplicato per ognuna delle casse anonime viste nell’indimenticabile ultima inquadratura.
È questo che da lì in avanti è sempre mancato. Sempre. Il fascino dell’inaccessibile, al cui posto è subentrata la tensione verso la conquista dell’oggetto. E così l’action puro si è impossessato della seduzione oscura della Storia, sfruttandone l’aura ma non toccando mai gli stessi suggestivi picchi, che pongono l’uomo e la sua imperfezione, per quanto acculturata, a debita distanza dal raggiungimento dell’obiettivo. Prova ne sia che in tutti gli altri film che non siano I predatori lo scopo viene raggiunto e il finale risulta soddisfatto. Solo L’ultima crociata ha un finale in cui lo studioso non ottiene il frutto della sua ricerca, a causa del divieto dogmatico del cavaliere posto a guardia del Graal, ma la valenza salvifica del calice è comunque utilizzata per guarire il padre, in precedenza ferito gravemente. Ne I predatori, l’uomo è invece respinto dal mistero della potenza di Dio e della Storia, oltre che dagli inconcepibili segreti di Stato. E questo dà una sensazione di totale impotenza che fa del protagonista un essere romantico, titanico nel suo insuccesso, perché, come l’Ulisse di Dante, ha tentato di oltrepassare un limite che è metastorico, non certo umano.
Come dite? È una stronzata? Sarà. Ma voi pensateci. Pensateci bene.
E se ci siete arrivati fin dall’89, potevate anche dirmelo.