Non che qualcuno lo stesse aspettando, ma è arrivato. C’era da starne certi. Il primo film sul Lockdown.
Ora, chiudete gli occhi per un secondo: come ve lo immaginate un film sul Lockdown? Mentre, immobili, guardate il cane correre felice nel prato perché lui non accende la televisione alle 18 e non sente il bollettino della Protezione civile? Oppure mentre vi fate una fila di oltre un’ora all’ipermercato perché nella spesa del giorno prima non avete preso (magari di proposito) il misto soffritto surgelato che tanto vi serve se no la pasta non sa di niente?
Non ci avete pensato bene. Se non volete rifare un Antonioni post-postmoderno sull’alienazione dell’individuo mentre dà testate al muro, il film sul Lockdown si fa con l’unica vera immagine entrata nell’immaginario. Con l’interfaccia di Zoom. Quella ritagliata in piccoli rettangolini con il vostro nome in basso a sinistra, quella che usavate per una riunione di lavoro o per farvi un paio di risate alle battute di un amico o di un collega che magari di persona non vi avrebbero mai fatto ridere. Il film s’intitola Host, l’ha girato («girato» è una parola grossa, visto che la cinepresa non serve più) un giovane regista americano, Rob Savage, attivo soprattutto nella pubblicità, nelle serie televisive e in molti corti ed è disponibile da fine luglio su Shudder, piattaforma di video-on-demand di proprietà del canale AMC specializzata nel genere fantastico (ovviamente, non è disponibile in Italia). È un horror, perché ormai sta diventando una piccola tendenza quella di spaventare alle spalle, nella dimensione intima del personaggio, laddove dovrebbe sentirsi maggiormente al sicuro, colpendolo alla sprovvista mentre ride con i compagnoni a battute senza senso con cui si esorcizza l’assurdo di una quarantena in pieno XXI secolo. Host non fa altro che operare un piccolo semplicissimo passaggio, già visto più volte in questi ultimi sei anni in film come Unfriended (2014), Profile e Searching (2018) e Unfriended: Dark Web (2019). Si tratta di narrazioni al computer realizzate con il computer, fatte di volti in primo piano che si rifrangono e parcellizzano in più quadri, di segni e icone ormai diventati familiari, perché fanno parte della nostra quotidianità. E la quotidianità la usano a loro vantaggio, snaturandola, defamiliarizzandola, come si dice in gergo, facendo di una cucina alle spalle di un personaggio/utente il luogo in cui si annida la minaccia, quando in realtà dovrebbe essere solo il posto in cui sorseggiare un caffè o sgranocchiare una patatina (o un mare di patatine, durante il Lockdown). E il Lockdown è la novità di Host, l’unica. Perché i principi narrativi, la costruzione della tensione (piuttosto limitati in pose e ambienti sempre rigidi) e la stessa creazione forzata del regime di sguardo (soggettive mai naturali perché mediate da un mezzo che diventa propaggine straniante del corpo) non permettono di spaziare e di essere particolarmente inventivi (se sapendo di essere soli in casa sentite ululare nella stanza a fianco di quella in cui state disquisendo con il computer, andreste a verificare portandovi un pratico schermo da 15,6 pollici come fanno i personaggi di questi film?). Per realizzare un buon film di questo tipo, come dimostrano le scene ripetute sempre simili a se stesse dei film citati in precedenza, è necessaria un’ottima, ma davvero ottima, sceneggiatura. Il resto lo fa un regista un po’ nerd, perché la messa in scena si riduce alla sola messa in quadro, seppur con piccoli accorgimenti, come staccare su un riquadro piuttosto che su un altro e tenerlo per un tempo congruo, mai troppo lungo ma abbastanza per giustificare la scelta.
Host ha il merito di durare quanto un episodio di una serie tv (56 minuti) e di risolvere la questione in modo agile, sfiorando solo lo sbrigativo, senza mai cadervi davvero. Cinque amiche si connettono su Zoom per il loro periodico incontro durante il Lockdown. Una di loro, Haley, ha invitato una medium per aggiungere all’incontro un brivido attraverso un’evocazione spiritica. Un’altra di loro, Jemma, origine cinese (un caso?), inventa la storia di un compagno di scuola suicida per impiccagione: questo apre un varco in cui uno spirito s’inserisce ma non arriva dal Dark Web. Da quel momento succede un po’ di tutto e niente di piacevole. Se per caso vi fosse venuto in mente che un’evocazione di démoni su Zoom possa essere quantomeno strana, devo confessarvi che io stesso vi ho assistito almeno un paio di volte, l’ultima delle quali alla fine del giugno scorso, mentre un’altra già si profila nei primi giorni di settembre. Anche se la piattaforma non era Zoom ma Meet e i miei démoni non erano violenti, solo deformati dalla tensione e terribilmente polemici. Sono ancora scosso adesso.
Anyway, pur nell’esiguità delle possibilità a disposizione, visto che l’immagine proposta mostra obbligatoriamente lo stesso schermo diviso per cinque (in qualche momento anche sette: le cinque amiche, la medium e un altro amico a cui la compagna blocca la connessione), sul quale poi il film lavora per sottrazione fino a superare la frase di lancio di Highlander, nel suo piccolo, Host funziona, meglio: funzionerebbe, perché fa una cosa elementare: non mostra l’orrore. È una cosa vecchia almeno quanto gli horror di Val Lewton degli anni Quaranta ma pare che ora sia vietata, visto che ogni talento dozzinale che si cimenta con l’horror a causa della sua adolescenza problematica, passata nel buio della propria cameretta a rimuginare sul giorno della vendetta contro quei sons-of-a-bitch dei bulli che gli hanno rovinato l’esistenza (e comunque sempre meglio essere un regista horror di merda che uno stragista Columbine-style), ognuno di questi sedicenti talenti, dicevo, muore dalla voglia di mostrare il primo piano del suo mostro, pallido, dagli occhi sbarrati, con la bava sanguinolenta, mai pettinato. Una sorta di Antonio Gramsci serigrafato da Andy Warhol. Dovrebbe farvi venire un colpo apoplettico e invece vi fa quasi tenerezza, piccolo, così bistrattato, nemmeno lontanamente simile a ciò che vedranno i miei occhi ai primi di settembre (ma sono pronto a tutto, sì). E invece, si diceva, Host non mostra. Rende materiale il buio alle spalle dei personaggi, lo addensa e non lo dirada. Se per scelta deliberata o per incapacità di svilupparne il diradamento non ci scommetterei un solo euro, però lo fa. E il risultato è un’ombra qua, due piedi femminili di là, un cappio che richiama l’impiccagione su, passi sulla farina giù, una sedia che si muove di lato, una sagoma informe materializzata da una coperta in fondo.
Funzionerebbe, ho detto qualche riga fa. Perché funziona fino all’ultima dannata inquadratura. Attesa, telefonata, assolutamente prevedibile, come quei video idioti su Youtube che attirano l’attenzione del pubblico su un particolare dell’immagine per poi urlargli improvvisamente in faccia e farlo sussultare. Vorrebbe essere uno Jumpscare, che è un procedimento che odio, anche se si chiama quasi come me, perché è davvero troppo facile. Lo facevo a otto anni per spaventare il mio fratellino di due e già mi sentivo un coglione allora (sincerità per sincerità: mi diverte da matti farlo ancora adesso, anche se questo potrebbe offrire il destro per pensare che io sia davvero un coglione). Diciamo allora che sul Jumpscare nutro una certa forma di ipocrisia per cui godo a farlo ma non mi piace quando lo vedo nel cinema (d’altronde adoro anche l’inseguimento in auto di Gene Hackman ne Il braccio violento della legge ma non ho mai pensato di replicarlo. Almeno fino a oggi). Quindi, peccato. Perché se Host avesse avuto la forza di non cadere nell’ultima decisiva tentazione, sarebbe stato un piccolo prodotto interessante, che alla primogenitura avrebbe potuto affiancare una minima coerenza espressiva. Così non è stato, Host non verrà ricordato dai pochi che l’hanno visto e se il Lockdown sarà sempre più un lontano ricordo non avremo mai più bisogno di film così. E così sia. Speruma.