Ne approfitto senza alcun pudore. È da un po’ che cerco il pretesto per parlare di Hélène Cattet e di Bruno Forzani, coppia di registi francesi che lavorano in Belgio, coppia d’arte e nella vita. Così, d’emblée, sarebbe stato assolutamente pretestuoso parlare di loro; è anche vero, come ho detto più volte con fare del tutto illiberale, che il blog è mio, per cui faccio il cazzo che mi pare, ma visto che l’occasione è comunque arrivata, faccio professione di candida virtù, fingo di trovare una giustificazione e ne approfitto. Sì, perché nell’imminente Festival di Cannes i due torneranno con un nuovo film, Reflection in a Dead Diamond, ben sette anni dopo l’ultimo, nel cui intervallo abbiamo pensato seriamente (non è plurale majestatis, intendo io e il blog) si fossero dati a consumare con avidità animalesca il loro rapporto di coppia.
E invece no, ci sono ancora. Magari copulano pure, ma esistono tuttora come registi.
E perché ne dobbiamo parlare, se non li abbiamo mai sentiti? Perché sono bravi, senza girarci troppo intorno. Ma proprio bravi. E il fatto di non averli mai sentiti è una colpa. Non vostra, ci mancherebbe. Mica siamo qua a fustigarci vicendevolmente (non v’infingete nell’eventualità, zozzoni): la colpa è della distribuzione, che li rende praticamente invisibili in Italia. È anche vero, perché a noi piace spaccare il capello in quattro (e anche una serie di altre cose, ma non approfondiamo oltre), che in questo particolare momento storico chi vuole davvero vedere un film in qualche modo a vederlo alla fine ce la fa. Certo, non al cinema. E se un film non è al cinema, se la visione è personale come il kinetografo di Edison, tutte le riviste, i blog, i vlog, i cazzi e i mazzi fanno lo stesso ragionamento che ho fatto io poco fa. Cercano un pretesto per parlarne. E quindi non se ne esce.
Usciamone.
Quello che presenteranno a Cannes è solo il loro quarto film. I tre precedenti hanno mostrato due registi con uno sguardo paradossale, perché si ciba completamente di vestigia del passato (gli anni Settanta del cinema di genere) alterandole con uno stile del tutto originale, in cui la costruzione estetica si mangia le dinamiche di narrazione. Se le divora e non lascia avanzi. Non le annulla, ma le digerisce e le risputa fuori facendole diventare esse stesse criteri del racconto. Un’estetica che è già in sé narrativa. Perché fa una cosa semplicissima, ma non la dite a nessuno: fa film esplorando tutte le possibilità del linguaggio cinematografico. Che roba, eh? Niente di così nuovo, ma tutto miscelato insieme provoca la vertigine.
Amer è il loro primo film, scelto nientepopodimeno che da Tarantino come uno dei migliori titoli del 2010. “Amer” sta per “amaro”, ma suona anche come “amare”, e la consonanza, al di là del conflitto di senso, ha in sé il nucleo metaforico del film. Nessuna pretesa di originalità del soggetto: il percorso di crescita di una bambina, Ana, poi adolescente e infine giovane adulta, è trattato come un film dell’orrore. E i percorsi di crescita, si sa, spesso sono conditi con identica metafora (da Hansel e Gretel in avanti). Tutto già visto. Ma non in questo modo. Ogni inquadratura, soprattutto dall’adolescenza della protagonista in avanti, trasuda una deliberata malizia erotica che ad un certo punto rende dubbiosi sulla reale natura di ciò che si sta guardando. Una tensione robusta, tra Mario Bava ed Emmanuelle, gestita con un equilibrio ammirevole, che non sfocia mai nel terrore pacchiano o nella fregola del porno, ma dondola di qua e anche un po’ di là. Un film dal gusto giapponese. E chi ha una cultura onanistica sa di cosa parlo.
Il secondo, Lacrime di sangue, del 2013, è un viaggio allucinante all’interno dei traumi irrisolti di un marito che torna a casa dopo un viaggio di lavoro e non trova più la moglie, ingurgitata dalle mura di un palazzo liberty che è il vero protagonista del film. Il terzo, Laissez bronzer les cadavres, tratto nel 2017 dal primo romanzo del petit miston Jean-Patrick Manchette (scritto insieme a Jean-Pierre Bastid), usa il sole abbacinante della Corsica per un folle regolamento di conti tra eccentrici vacanzieri, una banda di rapinatori in fuga e due gendarmi giunti giusto in tempo per farsi sparare addosso. Sembra un classico poliziesco, ma provate a vederlo (è il più difficile da trovare tra tutti, vi avviso) e vedrete che di classico, se non l’ambientazione e le armi, non c’è veramente nulla.
Ma cos’hanno Cattet e Forzani di così originale, di così bello da vedere, se le loro storie derivano da qualcosa di già visto, di già sedimentato negli appassionati di un certo tipo di film?
Prima di tutto possiedono un altro modo di raccontare le vicende, sia che si tratti di un horror intimista (Amer), sia che ci si introduca nella densità melmosa del mystery (Lacrime di sangue), sia che si ricorra all’esteriorità del polar per vivacchiare nello spaghetti western (Laissez bronzer les cadavres). Il genere per loro è solo un’attribuzione, sulla quale si lanciano in un’opera di riscrittura secondo dettami personali che guardano al passato per essere quasi del tutto rielaborati.
Procedono per singoli frammenti, estrapolati da una scena data preliminarmente e poi accantonata, come se l’azione fosse composta da pezzi di un meccano montati insieme per fornire una struttura nuova, totalmente stilizzata. Persino astratta.
I frammenti si fronteggiano, si contrappongono, entrano in conflitto. È Ėjzenštejn privato dell’ideologia, senza il simbolo che ne scaturisce. La loro è una concezione sineddochica dello spazio: si concentrano su una parte particolarmente rappresentativa (ed espressiva) dei corpi e ne fanno il veicolo paradossale dell’azione, che di fatto cancellano. La regia diventa una precisa e personalissima interpretazione grafica che, mentre rilegge il cinema di genere, ne offre una riscrittura originale e un’estetica molto seducente. Il fascino di ogni inquadratura è infatti il valore aggiunto di una narrazione che procede grazie a una mostrazione sovraccarica di colori, di impulsi, di motivi e intensità differenti (merito anche dell’abituale direttore della fotografia, Manuel Dacosse). E in cui Cattet e Forzani, in pratica, non raccontano una storia, sollecitano il pubblico con un dialogo continuo tra personaggi e schermo, minacciandolo (o seducendolo) con sguardi in tralice (o umidamente provocanti) e canne di pistola puntate in faccia. È l’origine della visione (ricordate lo sparo verso il pubblico de La grande rapina al treno?) e anche la sua messa in discussione (gli sguardi verso l’obiettivo irretiscono ma rivelano costantemente l’artificio). È il mantra primordiale che si rinnova ibridandosi con le dinamiche di generi già riletti da uno sguardo d’autore e riproposti attraverso lo spettro prismatico della sensibilità postmoderna.
Ogni piano è una pulsione, un’occasione di godimento e ha nella catena del racconto una sua piena autonomia. Una TOTALE autonomia. Ciascuna immagine, con i suoi netti contrasti cromatici, sprigiona una tensione sensuale, affiancando alla funzionalità dei personaggi l’organico della loro carnalitá. La percezione è stimolata su frequenze diverse rispetto al coinvolgimento emotivo derivato dal piacere della narrazione, perché punta ad ammaliare: lo sguardo a cui ambisce non è critico, ermeneutico, ma ipnotico. In pratica voyeuristico. E spesso Cattet e Forzani non dirigono, perlomeno non lo fanno come lo farebbero due registi di cinema, perché in realtà costruiscono l’immagine come degli artisti visivi. Con pazienza e progettualità certosina, immaginando prima dell’inizio delle riprese un quadro dietro l’altro, la loro funzione, il legame con ciò che seguirà, l’impatto sul pubblico. Oppure assecondando il ritmo dell’immagine nell’armonia globale, perché la loro azione è anche simile al campionamento (quanto De Palma, quanto Argento di Inferno e Suspiria c’è in Lacrime di sangue, quanto thriller italiano anni Settanta e quanto Sergio Leone c’è in Laissez bronzer les cadavres?); scratchano come due dj, prendendo l’immagine e rendendola cangiante, artefatta. Quello che le immagini mostrano spesso non è: abbondano i cheat cut per spiazzare le attese, la serenità osservativa del piano è spesso minata e anche il montaggio è sempre proposto per sovrapposizione, affiancamento, giustapposizione, legato insieme da motivazioni volumetriche o cromatiche forti, mai neutre. MAI. Scordate ogni speranza di campo e controcampo e di contiguità logico-spaziale, o voi che entrate (nel loro universo). E fatevi colpire dalla violenza estetizzata, anche un po’ Camp, della loro composizione iconica e dalla tessitura dell’accuratissimo sound design, sempre acuto, lancinante, pronto a lacerare quanto le rasoiate inferte sullo schermo. Oppure ironico, capace (in Lacrime di sangue) di giungere all’orgasmo pigiando con intensità sempre maggiore l’interruttore di un proiettore sulle immagini di una donna che si nasconde dietro il proprio corpo. Il corpo, sempre al centro di tutto. Insieme oggetto e origine dello sguardo da cui tutto deriva e nel quale tutto si soddisfa.
Ma ho parlato anche troppo. Cerco di farvi capire quello che sto dicendo con l’aiuto di alcune immagini indicative. E anche antologiche, va’.
Non posso fare un commento perché proprio come hai scritto sono tra i tantissimi che non conoscono i due. Per cui ti ringrazio per l’ennesima utilissima informazione che vedrò al più presto di sfruttare recuperando in rete il recuperabile.
Mar.mo.
Grazie Mario, non te ne pentirai. 😉
trovati in rete:
https://rarelust.com/the-strange-color-of-your-bodys-tears-2013/
https://rarelust.com/let-the-corpses-tan-2017/
https://rarelust.com/amer-2009/
👍
(esiste anche un bel dvd in versione italiana dei primi due film: “Amer” e “Lacrime di sangue”, con booklet allegato a cura dei critici di «Notturno»).