Classifica di fine anno, come ogni anno e come fa ognuno, rivista, singolo, gruppo social, ente o associazione che sia. A cosa serve una classifica di fine anno? A niente, se non a due sole cose. Più una terza: 1. a discutere con più o meno animosità sui gusti (generalmente di merda) di chi la compila (e sì, altrimenti si accetta e non si discute. Però è una noia); 2. a notare come ci si sia persi qualche film in quel numero imprecisato ma decisamente alto che abbiamo visto durante l’anno e a tentare di recuperarlo (valido ancora di più quando ci si confronta con le classifiche delle riviste estere, che presentano sempre delle scelte eccentriche – la parola d’ordine è distinguersi – o titoli non passati da noi). La terza motivazione, quella aggiuntiva, è psicoanalitico-ossessiva, soprattutto se, come in questo caso, si tratta delle scelte di una sola persona, ed è fare la ruota come un pavone e mostrare che bei gusti si abbiano. Come se a qualcuno fottesse davvero qualcosa. Quindi, l’invito è a fermarvi qua e fare una classifica vostra che varrà come quella che state per leggere. Magari proponenetela nei commenti, così operiamo uno scambio equo.
Due premesse doverose, prima di iniziare. 1. (premessa tassonomica) Non c’è il film killer. Quello che ti fa dire, sì, è sicuramente questo il titolo più bello dell’anno. Ossia, manca un Oppenheimer o un Gli spiriti dell’isola, per rimanere agli ultimi due anni. C’è una prima posizione, ovviamente, ma è dovuta a una lunga riflessione e a una sorta di negoziazione con me stesso. Diciamo che tra i primi tre le posizioni sarebbero potute essere intercambiabili. Forse, non lo so ancora.
2. (premessa metodologica) Si tratta di una classifica passionale, non proprio teorica. Cita i film che hanno messo insieme il piacere estetico della visione, una piena soddisfazione narrativa e un ritorno in qualche modo emotivo. Perché, sempre parlando delle “nuove forme” che ogni tanto fanno capolino su questo blog (qua e qua), mancano nella classifica gli unici tre film che si siano davvero posti il problema (La bête di Bertrand Bonello), che lo facciano per disposizione spontanea (Grand Tour di Miguel Gomes) o per desiderio di narrare le solite cose in modo completamente differente (Emilia Pérez di Jacques Audiard). Ho sfiorato l’intenzione di scriverci anche un post, ma poi, preso da altre cose e con il tempo che stringeva verso la fine dell’anno, «ho desistito», come diceva Totò in Miseria e nobiltà. Nella prospettiva premessa, sono però lavori fondamentali: il primo perché crea lungo l’asse dei tempi (e non del tempo) un mondo narrativo originato dalla completa smaterializzazione delle immagini che ci circondano. Il secondo perché, tra le molte altre cose, ne fa due stupende: A) sacrifica volutamente il principio base del montaggio alternato, e quindi gran parte della tensione narrativa, per esaltare i criteri di focalizzazione spostando le tessere del mosaico; B) Come di consueto nel cinema di Gomes, metaforizza il gesto stesso di narrare utilizzando immagini che potremmo chiamare documentaristiche, dotandole di una logica dettata unicamente dal loro inserimento nella vicenda principale. Il terzo perché ibrida toni e generi impropri per raccontare una vicenda che per consuetudine avrebbe un unico modo per essere raccontata. I primi due non rientrano nella classifica che segue perché troppo intellettuali, troppo di testa e poco di pancia (che poi io per la teoria avverta un’attrazione erotica è un problema esclusivamente mio e del mio psicanalista, se solo ne avessi mai avuto uno: non posso mica coinvolgervi nelle mie beghe); il terzo potrebbe rientrarci, perché la scena finale è davvero commovente, ma esce il 9 gennaio, quindi forse, se resto della stessa idea rivedendolo, l’anno prossimo.
Per cui, partiamo. Ma partiamo in modo diverso dagli altri anni, perché vi dico prima i tre film peggiori del 2024. Chiunque è capace di stilare le classifiche positive, ma quelle negative sono la possibilità di sfogare il proprio astio per quelle due ore sacrificate a qualunque cosa, anche alla peggiore perversione, e che invece sono state dedicate a una visione inutile e fastidiosa. Europa Centrale visto al recente TFF, come vi dicevo anche nello scorso post: complicato, prolisso, stolidamente pretenzioso, pomposamente citazionista. Un terzo del pubblico ha abbondonato la sala prima della metà, un altro terzo era entusiasta, perché occupava i posti riservati alla produzione. Io, memore di un’importante lezione paterna (vide con me in televisione un film di avanguardia fondato sulla pura astrazione, in cui non si capiva volutamente un cazzo, ma non se ne andò perché «Sono curioso di vedere come cazzo lo fa finire»), sono rimasto e quindi lo posso dire con certezza: uno scempio. Grande delusione anche per Drive-Away Dolls, di cui mi sfugge qualunque ratio abbia mosso Ethan Coen a farlo. Perché? Non sei mica un pischello della scuderia Corman che fa film per il circuito dei drive-in sperando in una prossima occasione di lancio. Inspiegabile. E infine, il tentativo abortito di rilanciare la grande commedia americana, seppur con attori di grido come Channing Tatum (un po’ scoppiatello, a dire il vero) e Scarlett Johansson. Ma Fly Me to the Moon di Greg Berlanti è un film senza alcun mordente, fatto di battute e scene imbarazzanti, al punto che mentre lo guardavo mi chiedevo se gli attori se ne rendessero davvero conto. Errore di percorso (Johansson) o tentativo inutile di rilanciare la carriera (Tatum), non so. Ma da dimenticare al più presto. Se siete stati così improvvidi da vederlo.
Partiamo davvero.
#10. Occupied City
Amsterdam è da anni, da quando si è sposato con Bianca Stitger, la residenza di Steve McQueen. Qua non fa altro che prendere il volume della moglie, Atlas of an Occupied City, Amsterdam 1940-1945, una specie di tuttocittà riccamente illustrato sui luoghi in cui vivevano gli ebrei catturati dai nazisti, per raccontare le loro storie, mentre le immagini della macchina da presa mostrano gli indirizzi di ieri attraverso le immagini di oggi, girate tra il 2020 e il 2022, quando un’altra emergenza, questa volta sanitaria, occupò la città. È un viaggio nello spazio attraverso il tempo ma è anche un viaggio nel tempo attraverso lo spazio della durata di oltre quattro ore che non ha un attimo di calo né di cedimento, perché la narrazione è continuamente stimolata dalla voce narrante incalzante e le immagini hanno un substrato catalizzante, pur essendo spesso disgiunte da ciò che raccontano le parole. Cinema concettuale per palati fini.
#9. Los delincuentes
Io amo i film di rapina, quelli che per gli americani hanno mille nomi: Hold-up Movie, Caper Movie, Heist Film, chiamateli come cazzo vi pare, parliamo sempre della stessa cosa. Ammiro la sottile finezza con cui la logica criminale si sposa con l’abilità dei leader della banda, la perfezione logica del piano, gli imprevisti che rischiano di mandare tutto in vacca. Per colpa dei film di rapina, una delle mie tre aspirazioni adolescenziali era fare il rapinatore (volevo anche fare l’autista di tir e il contrabassista jazz nero, però c’erano degli impedimenti oggettivi, mi rendo conto), ma con grande delusione ho dovuto constatare che non fossi in possesso di una mente criminale, per cui mi sono ritrovato, poco più di una decina di anni dopo, a fare quello che faccio. Però la passione mi è rimasta. Per i film, non per le rapine. Quindi, quando capita di vedere un film come questo, argentino, diretto da Rodrigo Moreno, si rimane un po’ spiazzati. Perché la rapina, che di solito è sempre il fulcro, l’obiettivo verso cui tendere (a meno che non si sia Tarantino, Joseph Lewis, Sidney Lumet o Spike Lee), qua è solo il modo per sottrarsi a una vita impiegatizia di merda, mentre tutto il resto è evitare che in qualche modo si sia catturati, perché il rischio non è la scure della giustizia, ma peggio: tornare a fare la vita di prima. Il ritmo (blando) che non ti aspetti da un film di questo filone, gli snodi che paiono partire per una tangente impropria, ma il tutto che miracolasamente si tiene. Forse era dai tempi di Fernando Solanas che il cinema argentino non era così politico, anche se apparentemente questo pare non esserlo. Militante.
#8. The Substance
Ne abbiamo già parlato poco tempo fa. Funziona più sul piano linguistico che come rivendicazione femminile o come denuncia della deformazione dei corpi per sconfiggere l’incedere del tempo, però Coralie Fargeat esalta le immagini prosciugando l’aspetto verbale, creando una sinfonia visiva ipnotica che tiene incollato lo sguardo alle superfici organiche e plastiche dello schermo. Il suo è un lavoro sulle proporzioni, sulla prossemica, sulla dilatazione degli spazi, sulle simmetrie esaltate dal grandangolo e sull’intensità gridata dei colori (rossi addensanti, blu profondi, gialli acidi e bianchi luccicanti). La miscela del gusto personale con i riferimenti cinefili post-tutto rende lo sguardo di Fargeat talmente fluido da consentire di viaggiare in un incubo disgustoso che più che della deformazione dei corpi e del potere fallocratico che vena di ridicolo pur senza attaccarlo del tutto, fa riferimento alla necessità divistica del cinema, alla sua ossessiva volontà di sospendere l’avanzare del tempo per eternare un mito destinato comunque a cadere. Spietato.
#7. Una spiegazione per tutto
La società contemporanea ungherese vista attraverso la lente grottesca dell’educazione. Il racconto è un surreale effetto domino che nasce da una notazione innocua fatta durante un esame di maturità da un insegnante critico sulla politica di Orbán. Il resto è la strumentalizzazione dell’episodio da parte di vari strati della società, dalla sfera dell’informazione a quella familiare, a vario titolo implicati. Gábor Reisz fornisce una visione critica dell’Ungheria, seppur velandola di un filtro allegorico sul mondo della scuola, eppure non si salva nessuno da un ritratto che è impietoso, perché mette a nudo l’aggressività, la vis polemica dettata dal pregiudizio, la totale velleità, l’ossessione per il nemico. È anche uno specchio della nostra società, volendo, se i nostri (ma più vostri) capi di governo dovessero, com’è nelle loro intenzioni, continuare a ricercare l’abbraccio della morte, se non fosse così palesemente ridicolo, con quel modello di virtù che è l’Ungheria. Una spiegazione per tutto, con la sua narrazione incalzante e con quel senso del paradosso volutamente malcelato, funziona perché fa diventare politico quello che sarebbe stato un normale racconto di gioventù: Francesco Rosi che si mangia Éric Rohmer con i toni della commedia di costume. Corrosivo.
#6. Hit Man
Linklater la maschera con una divertentissima patina di suadente black comedy, ma guardando tra le pieghe delle risate che comunque sorgono spontanee, si tratta anche di una riflessione critica sull’identità, sullo smarrimento degli individui e sul loro bisogno di ancorarsi a certezze illusorie per poter tirare avanti. Probabilmente esagero, giusto per darmi il la nella descrizione del film, ma in realtà la sua forza sta nella scrittura, nella capacità di non essere mai prevedibile, neanche per chi conosce dettagliatamente i meccanismi delle commedie nere, perché le sliding doors progettate sono tutte le volte molteplici e le sorprese sempre dietro l’angolo, con grande soddisfazione di chi è riuscito a vederlo, nonostante una distribuzione acefala, che lo ha portato in sala all’inizio dell’estate e poi rilasciato su Netflix, giusto per perdersi ancora di più. Una narrazione vecchia maniera, senza metafore metanarrative sottese, senza pretese eccessive che vadano al di là della grande capacità di sviluppare una storia: divertimento puro e tensione palpabile una volta che la commedia si trasforma via via in qualcos’altro. Cangiante e irresistibile.
#5. Giurato numero 2
Sfido chiunque a 94 anni suonati a prendere il genere giudiziario e a renderlo appassionante come solo i grandi thriller sanno essere, pur non essendo un thriller in senso stretto, ma, come dicono gli intellettuali della rive gauche, un conte moral. Ecco, è proprio questo il punto, come dicevamo un paio di post fa: Clint Eastwood ha dato un’inaudita profondità etica a un film girato come solo alcuni americani sanno fare (lui ovviamente tra quelli, anche se qualcuno dei suoi ultimi film mi aveva fatto storcere un po’ il naso). Sembra un film europeo. A questi livelli, negli ultimi anni, soltanto l’Yvan Attal de L’accusa (2021) o l’Alice Diop di Saint Omer (2022), andando più indietro si dovrebbero scomodare André Cayatte (Giustizia è fatta, 1950) o Fritz Lang (L’alibi era perfetto, 1956) [So che state pensando a Testimone d’accusa di Billy Wilder, ma lì non si trattava di riflessione etica quanto di logica immorale verso lo spettatore, pratica che io amo sempre tanto ma che non rientra nel discorso che stiamo affrontando]. Peccato per il finale, che sarebbe potuto essere molto più amaro, ma è pur sempre un film americano e le questioni morali, per quanto stiracchiate di qua e di là, alla fine devono pur sempre quadrare. Brillantemente vetusto.
#4. L’innocenza
Hirokazu Kore’eda, come suo solito, stratifica la narrazione per andare oltre le apparenti evidenze e giocare con le prospettive. Qua fornisce tre diverse versioni, a seconda del personaggio che fa da filtro, per raccontare la stessa vicenda, vista dapprima come il maltrattamento di un allievo da parte di un insegnante, poi come un caso di bullismo e, infine, come una lieve storia sentimentale tra due piccoli studenti. Kore’eda non insegue la verità, perché è un aspetto che gli interessa relativamente, ma scava nelle zone grigie del non detto e del non espresso per comprendere le ragioni di una sofferenza, quella del giovane protagonista. Pur stimolando la ricerca di una realtà possibile, il discorso è più ampio e investe la grande distanza intercorrente tra i bambini e gli adulti, troppo ripiegati nel loro mondo fatto di (false) certezze per accorgersi della sensibilità dei minori e dei loro problemi, ritenuti insignificanti. Kore’eda ha un’invidiabile leggerezza di tocco e la sua ricerca è condotta con i toni di un thriller pur possedendo la soavità di una fiaba. E lo fa solo decidendo di angolare diversamente la macchina da presa. Ipersensibilità prospettica.
#3. American Fiction
È il film che bisogna usare come scudo contro chiunque esageri con la cultura Woke. Fategli vedere la prima scena. Lui, afroamericano, docente di letteratura all’università, trova l’opposizione di una sua allieva (bianca) che non ha letto il racconto The Artificial Nigger di Flannery O’Connor, ma trova inaccettabile l’uso della N-Word, rifiutandosi quindi di discutere dei contenuti. Scena che fa il paio con l’elaborato sputtanamento da parte di Cate Blanchett dello studente della Juilliard che si rifiuta di ascoltare Bach per la logica patriarcale rappresentata (in Tár di Todd Field). Al di là di questo, il film di Cord Jefferson riflette con un’ironia felice, fuori dal comune, sugli stereotipi in cui sono intrappolati gli scrittori neri, che saranno sempre (prima) testimoni di una marginalità anche se sono fior di scrittori, perché ciò che interessa al mercato culturale bianco è la cronaca del degrado del ghetto, la denuncia che genera cattiva coscienza nella mollezza morale dei progressisti bianchi, non una parità intellettuale senza pregiudizi di sorta. Soggetto già di per sé forte, tratto dal romanzo Cancellazione di Rupert Everett (in libreria adesso con la rilettura di Huckleberry Finn, intitolata James), regia capace di un umorismo superiore e un protagonista, Jeffrey Wright, in stato di grazia, in grado di recitare prima con le reazioni del volto e del corpo e poi con le parole. Sprezzante.
#2. Green Border
Dicevo nel post dello scorso febbraio che questo film di Agnieszka Holland ha il grande merito di connetterci con un mondo di cui abbiamo solo eco affievolite. [Appartengono alla stessa genìa anche From Ground Zero, il film a episodi sulla striscia di Gaza di cui vi ho parlato a proposito dell’ultimo TFF; No Other Land, sulla progressiva distruzione di Masafer Yatta in Cisgiordania, previsto in Italia il 16 gennaio ma nelle classifiche dei migliori film di quest’anno in alcune delle più prestigiose riviste estere (il «New Yorker» e «Sight & Sound») e anche Il seme del fico sacro di Mohammad Rasoulof, sulle manifestazioni di massa iraniane seguite alla morte di Mahsa Amini, premio speciale della Giuria a Cannes, sui nostri schermi a febbraio]. Green Border è però come introdursi nell’inferno. A cielo aperto, ma non è una consolazione. Lungo il confine tra Bielorussia e Polonia, sul quale trovarsi da un lato o dall’altro signifca solo confrontarsi con stati diversi della sopraffazione umana. L’Europa come miraggio di un incubo che pare non finire davvero mai. Il bianco e nero del direttore della fotografia Tomasz Naumiuk erode le speranze spingendo il tasto di un espressionismo per cui i colori chiari sono in realtà lividi e dolenti e le zone d’ombra sempre più soffocanti, mentre la macchina da presa della Holland è perennemente in movimento, in un dinamismo sfiancante, perché l’argomento necessita di un coinvolgimento emotivo di troupe e spettatori. Inevitabile la drammaticità dello scambio, così come l’urgenza politica di una simile scelta. Claustrofobico.
#1. La zona d’interesse
Dirò una cosa assolutamente impopolare. Visto il periodo, qualcuno mi darà anche dell’antisemita, che ultimamente è epiteto che si sta svilendo nella sua effettiva gravità perché usato con imbarazzante disinvoltura. Lo dico? Lo dico: ormai i film sulla Shoah sono davvero tutti, tutti, ma tutti!, uguali. Non c’è alcuna differenza. Qualcuno è più intenso degli altri, qualcun altro parte da una premessa diversa, ma vicende, meccanismi e anche sguardo sulla tragedia storica sono identitici. Pescate dal mazzo e non preoccupatevi, va tutto bene. La zona d’interesse, tratto dal romanzo di Martin Amis, è un’eccezione. Un’eccezione che in qualche modo continua e progredisce la scelta (estrema) de Il figlio di Saul di László Nemes (che però pare essersi fermato lì). Per non banalizzarla, forse la Shoah dev’essere narrata in questo modo obliquo, periferico, non guardando all’insieme, ossia alla Storia, ma arrivando ad essa con un opportuno scarto, per mezzo di una visione particolare che scovi, estrapoli e differisca. Per proporre un punto di vista eccentrico, in qualche modo paradossale. È quello che fa Jonathan Glazer, perché sa interrogarsi sui criteri della rappresentazione e sullo sviluppo del visibile lungo lo scorrere del tempo. Vedere i nazisti comportarsi come tranquilli vicini di casa immersi in colori pastello, mentre il sound design, dall’altra parte, propone il basso continuo della morte come sistema industriale è sicuramente straniante, ma il disturbante, se supportato da una piena consapevolezza artistica ed espressiva, è quanto di meglio per svegliarci dal torpore delle immagini dannatamente tutte uguali che ci circondano. Metonimico.
Questo è quanto. Quindi, buone feste con i soliti film della sera di Natale e del giorno dopo: Una poltrona per due, Il Grinch e Frankenstein Junior. Ah, a proposito! Su quest’ultimo è appena stato pubblicato un libro simpatico per festeggiare degnamente i 50 anni dall’uscita. Ma pensandoci: c’è bisogno di un libro che analizzi Frankenstein Junior nella sua immediatezza? Assolutamente no, ci mancherebbe, sarebbe come spiegare una barzelletta. Ma così è, se vi pare.
Jingle & Bells a tutti voi.
Ciao Giampiero,
post attesissimo, come ogni anno!
Accolgo soltanto parzialmente il tuo invito a postare nei commenti la propria classifica, un po’ perché devo ancora vedere una manciata di papabili da top ten, un po’ perché non voglio spoilerarmi (soprattutto a me stesso, visto che tra due settimane la classifica potrà cambiare radicalmente).
Quindi elencherei soltanto un 7-8 titoli che entrerebbero ora nella mia ipotetica top ten, rigorosamente in ordine alfabetico:
Anora
Giurato n. 2
Il gusto delle cose
La bete
La sala professori
La zona d’interesse
Racconto di due stagioni
Una spiegazione per tutto
Su Giurato n. 2: a me il finale (mi riferisco proprio all’ultima scena, quella dello sguardo tra la procuratrice e lui) è piaciuto molto, non ho capito se però tu ti riferisci proprio all’ultima scena o più estensivamente a come si chiude la vicenda in generale.
A proposito di finali: Il gusto delle cose se si fosse chiuso due minuti prima, su quella panoramica a 360° dentro la cucina, sarebbe stato ancora più bello. Quei due minuti in più di dialogo non servivano. Ecco anche perché ho apprezzato molto la chiusa asciuttissima (finale aperto o forse no?) di Eastwood.
Bene, Vincenzo, grazie molte di aver accolto l’invito!
In realtà le ultime due settimane non dovrebbero (quasi) mai essere così dirimenti. Il quasi è il pensiero sui Fabelmans, due anni fa.
Soprattutto perché l’entusiasmo del momento potrebbe annebbiare e confondere il distacco del giudizio, in un tempo così breve per sedimentare adeguatamente.
Però ti segnalo che il film a cui bisogna fare attenzione è “Conclave”, che esce la settimana prossima: davvero molto intenso e insolito. Un Habemus Papam virato al thriller esistenziale.
Classifica condivisibile, la tua. “Racconto di due stagioni” lo inserii nei dieci lo scorso anno, non mi sembrava il caso di ripetermi. Gran film.
Sul finale di “Giurato numero 2”: mi riferivo proprio all’ultima breve scena. l’ultima inquadratura, quella sulla soglia della porta, non lascia dubbi su un finale che non è, né può essere aperto. è solo interrotto perché mostrare anche solo due secondi in più sarebbe stato davvero cafone. Però che bello se lei non fosse mai andata lì.
La classifica era attesa come anche il libro… Finalmente un regalo semiserio da fare!
Grazie e we wish U etc etc 🎄
thanks a lot etc. etc. anche se “attesa” mi pare eccessivo. 😁😁😁
Da follower delle origini, innanzitutto ci tengo a ringraziare la funzione di servizio di questo blog, per almeno 3 motivi: 1) il tempo che mi fa risparmiare, sconsigliando film mediocri o inutili (segnalati come tali o, piú frequentemente, omessi); 2) l’indipendenza e la libertá di giudizio, non avendo padroni o direttori a cui rispondere, al di là della coscienza dell’autore; 3) lo stile informale e ironico, che unisce la passione cinefila all’aneddoto autobiografico, in una sintesi comunicativa coinvolgente e frizzante, talvolta anche istruttiva ed edificante…
Quindi accetto al volo l’invito a segnalare la mia personale top ten, da spettatore qualunque (ma non che guarda qualunque film), anche per sottolineare convergenze e differenze. In ordine sparso, tra i titoli visti in questo bellico e retrogrado 2024:
Green Border
Zona d’interesse
L’innocenza
La sala professori
Gli indesiderabili
La stanza accanto
Perfect days
The Holdovers
Campo di battaglia
Conclave
Grazie per la classifica e per il commento. Anche se nella terza motivazione l’aggettivo “edificante” mi offende proprio.
Ma siccome ho un buon rapporto con me stesso, farò finta di niente e non mi deprimerò.
“The Holdovers” gran bel film ma per me è ancora del 2023 (ne avevamo parlato nel novembre dello scorso anno). “Conclave” anche, bello, come dicevo in questi stessi commenti.
Non sono d’accordo su “Campo di battaglia”, ma immagino sia un problema che elaborerò nel privato.
Allora.
Innanzitutto qualche premessa
– avrei voluto recuperare American Fiction ma alla fine non ce l’ho fatta
– Monster/L’innocenza per me rimane ancorato al 2023 avendolo visto a luglio di quell’ anno.
– la classifica è – alla fine dell’ anno – l’insieme di ciò che è restato. Sia di ciò che ho visto più recentemente sia di ciò che ho visto ormai tempo fa.
– verso ottobre a precisa domanda su quale fosse il film del 2024 ho detto immediatamente La zona di interesse. Così è stato e confermo.
– Anora non è in classifica ma il finale è bellissimo.
Dunque dopo le verbose premesse eccola qua
podio:
La zona di interesse
Estranei
Perfect Days
poi in una sorta di ex aequo:
Green Border
Invelle
Civil war
Fremont
Dostoevskij
Conclave
Poor Things
se non vale come film Dostoevskij, allora sostituisco con:
La stanza accanto.
P.s.: tra i peggiori aggiungo Finalmente l’alba
e buon anno a tutti!
Grazie per la tua classifica. “Dostoevskij” vale nella misura in cui la classifica è tua e quindi vale quello che ti pare. A “Dostoevskij” ho sicuramente preferito “Ripley”, “Baby Reindeer” e soprattutto “Disclaimer”, vera e propria masterclass di Cuarón su come si tenga viva la suspense ribaltando antiteticamente il punto di vista. Su “Anora” penso che Baker abbia fatto meglio in passato, quando l’ho letteralmente adorato. Secondo me “Anora” sposta solo il fuoco, ma non fa un passo ulteriore rispetto a “Florida project”, “Tangerine” o “Red Rocket”. Ma dico quello che ho detto solo per amore di discussione.
Buon anno a te.
E allora butto giù anch’io la mia classifica, naturalmente limitata a quel (poco) che ho visto. La costruisco mescolando goffi tentativi di analisi critica con predilezioni personali – per questo non c’è stretta coerenza con il voto.
All’inizio ho selezionato solo i titoli indicati come “2024”, poi ho deciso di estenderla anche a quelli “2023” ma distribuiti nel 2024. E ci ho infilato anche le serie.
Visto che sono pigro, copio e incollo i miei vecchi tweet per ognuno dei titoli e chiudo con la valutazione.
1. Povere creature! – Y. Lanthimos, 2023
Film stupendamente nuovo, Povere creature! rielabora ispirazioni generando una fiaba gotica steampunk orrorifica che passa da Frankenstein a Pinocchio, con una matrice perturbante moderna che scava nell’inconscio e sconquassa. Equilibrio incredibile tra visionarietà e narrazione.
Valutazione: 8.5/10
2. Ripley – S. Zaillian, 2024
Ripley è un must-watch. Se sul fronte narrativo mantiene sempre un buon livello, quando non vola verso soluzioni di pregio, su quello visivo crea un universo onirico spiazzante tra gli incubi di Kafka e certo maledettismo gotico da vecchi sceneggiati del mistero. Imperdibile.
Valutazione: 7.5/10
3. The Substance – C. Fargeat, 2024
Storia vecchio stampo alla Matheson e classe visiva in The Substance, che scorre come un treno senza rompicapi e sfrutta esche di eterno fascino. Validissimi Demi Moore e Dennis Quaid. Poi c’è quel finale, discutibile, ma non privo di senso. Forse scelta audace su cui riflettere.
Valutazione: 7.5/10
4. Kinds of Kindness – Y. Lanthimos, 2024
Kinds of Kindness è un ritorno di Lanthimos al cinema alla Dogtooth (con un tocco di The Lobster), ma con una raffinatezza di scrittura più alta e con più idee. Brillante, è un cinema metaforico che spiazza, ammalia e intrattiene, a patto di scendere in quelle lande. Ottimo.
Valutazione: 7.5/10
5. Baby Reindeer [s01] – R. Gadd, 2024
Disagiante e a tratti disturbante, Baby Reindeer è più che una semplice serie su una stalker. È dramma, thriller, ma soprattutto uno psicologico che indaga la relazione tra vittima e carnefice, mettendo dubbi e rendendo il confine incerto. Lascia scie a fine visione. E non è poco.
Valutazione: 7.5/10
6. Il ragazzo e l’airone – H. Miyazaki, 2023
Il ragazzo e l’airone possiede una visionarietà meno barocca e frenetica de La città incantata, oltre a soluzioni immaginifiche austere e citazioniste del più grande cinema live action d’autore. È un’opera, se non più matura, di certo ammiccante a un pubblico adulto e cinefilo.
Valutazione: 8/10
7. La zona d’interesse – J. Glazer, 2023
La zona d’interesse è gelido e hanekiano, ma allo stesso tempo rigoroso come un trattato antropologico. Avanza ipotesi scomode ma note: fino a che punto ci si può abituare? Cos’è il male? Chi pensa sia solo fiction, si accosti ai film doc di Joshua Oppenheimer per ricredersi.
Valutazione: 8/10
Ah, dimenticavo la peggiore visione del 2024!
Megalopolis – F. F. Coppola, 2024
Nonostante ogni sforzo di vederci del nuovo o una rottura dei canoni, Megalopolis risulta già dopo mezzora in una baracconata pretenziosa e kitsch con sequenze spesso vuote, slegate e mal interpretate (Adam Driver a parte). Che diavolo è successo? Francis, che volevi fare?
Valutazione: 3/10
Grazie Alex Cella per aver sconfitto la pigrizia.
Non mi ritrovo solo in due titoli, ma sono tutti fatti miei.
D’accordissimo con le serie citate. Manca la migliore, però.
Riflettendoci, mi hai dato un’idea per la classifica del prossimo anno: evitare di sbrodolare come al solito, ma scrivere poche righe per ognuno, come ho fatto altrove.
Ma forse mi diverto di meno.
Ciao, buon proseguimento d’anno!